Rama corse verso l’eremo, pieno di presentimenti. Mentre sfondava un cespuglio sentì dietro di lui l’ululato di uno sciacallo, riconobbe il cattivo presagio e la sua ansia crebbe. Che Sita fosse stata divorata dai Rakshasa? Lakshmana l’aveva probabilmente lasciata al grido di Maricha, Sita l’avrebbe imposto. I Rakshasa avevano fatto un buon piano, e dovevano aver preso Sita.
Rama vide altri segni e si allarmò ancor di più. Improvvisamente vide Lakshmana che gli correva incontro, e lo prese per mano dicendogli severamente. “Cosa hai fatto, caro fratello? Perché hai abbandonato Sita? Ora certamente è morta o rapita dai Rakshasa”.
Gli fece notare i presagi, e gli disse dei trucchi di Maricha. Era ovvio che i Rakshasa avevano organizzato tutto per rapire Sita. Rama piangeva al pensiero di sua moglie, se lei era morta, avrebbe rinunciato alla sua vita. Disperato chiese a Lakshmana: “Hai mancato di proteggerla? Dov’è quella gentile donna che ha rinunciato al piacere per seguirmi? Dovresti sapere che non posso vivere senza di lei per un solo momento”.
Sgomento, Lakshmana rispose:“Non ho lasciato Sita di mia volontà, ma spinto dalle sue forti parole di accusa. Non mi lasciava restare, perdonami, mio signore”.
Lakshmana spiegò ogni cosa: invano aveva cercato di convincerla dell’invincibilità di Rama, ma lei lo aveva accusato di avere secondi fini. Rama si arrabbiò ancor di più e lo sgridò: perché aveva preso sul serio le parole di Sita, che era sconvolta dalle sue emozioni? Perché si era lasciato prendere dalla rabbia? Aveva mancato all’ordine di Rama, e ora era successa una disgrazia. Rama riprese a correre verso l’eremo pensando a Sita. Sentiva un tremito nelle membra e l’occhio sinistro gli pulsava violentemente. Si precipitò attraverso la foresta senza badare ai cespugli e ai rampicanti che lo sferzavano, arrivò alla radura dell’eremo e cercò Sita dappertutto, chiamandola disperatamente. Ma non c’era segno di lei e il suo cuore si gelò.
Rama ispezionò da vicino la capanna e il terreno circostante, che era come un fiore di loto rovinato dal gelo. Gli alberi gemevano scricchiolando al vento, i fiori erano appassiti e i cervi e gli uccelli parevano a disagio. Rama vide dell’erba Kusha sparsa in giro insieme ai petali caduti dalle ghirlande di Sita, e gemette. “Sita è stata certamente rapita, o forse giace morta da qualche parte. O forse è andata a spasso, e ora si nasconde per giocare?”
Rama cercò freneticamente dappertutto, ma di Sita non c’era traccia. Pensò che i Rakshasa l’avevano rapita. Dovevaessereterrorizzata, forse idemonilastavanodivorando, squarciandole il collo per berne il sangue.
Rama corse come un pazzo di albero in albero chiedendo : “O Kadamba, o Bilva, o albero Arjuna, dov’è la fragile figlia di Janaka? È viva?”
Nella follia del suo dolore parlò con gli animali, col fiume, col cielo e la terra, ma vi era solo un silenzio che esasperava la sua angoscia. Le divinità del fiume e della foresta erano pietrificate dal terrore di Ravana, e non potevano rispondere. Rama si guardò intorno e gli sembrò di vedere Sita dappertutto, i fiori gialli parevano la seta dei suoi abiti, i rampicanti mossi dal vento erano il suo corpo, e corse verso di lei piangendo, trovando solo gli echi vuoti della foresta.
Rama si rimproverò di aver lasciato Sita, cosa avrebbe detto a Kaushalya? Come avrebbe potuto guardare in faccia Janaka, il veritiero monarca? Si sentì morire. Ma cosa avrebbe detto suo padre vedendolo arrivare in cielo, ucciso dal dolore? L’imperatore lo avrebbe rimproverato per aver mancato alla sua parola di portare a compimento l’esilio.
Rama si lamentò . “Non tornerò mai ad Ayodhya, Kaikeyi può essere felice che il suo scopo è raggiunto. O Lakshmana, vai ad abbracciare Bharata e digli di regnare a lungo su questa terra, perché Rama non c’è più. Senza Sita non posso nemmeno andare in cielo, figurarsi restare sulla Terra! Con la morte di Sita muoio anch’io, e finirò all’inferno per l’eternità per aver mancato di proteggerla”.
Rama si accasciò piangendo e dandosi tutte le colpe. La perdita del regno, la separazione dai suoi cari, la morte del re, ed ora la perdita di Sita non potevano che essere la conseguenza di cattive azioni in qualche vita passata.
Lakshmana, pur scoraggiato disse a Rama: “Non disperarti, o principe, gli uomini come te non si lasciano abbattere dalle sciagure. Troveremo Sita, non può essere lontana, l’ho lasciata meno di un’ora fa”.
Rama si ricompose e si alzò. Con un sospiro si guardò attorno, pensando in che direzione andare. Come vide la panca fuori della capanna, gli vennero in mente tutte le volte che era stato seduto con lei, parlando e ridendo insieme, le volte che lei lo aveva preso in giro fingendosi ferita dalle sue parole, o quando gli aveva chiesto un fiore particolare dal folto del bosco. Questi ricordi lo assalivano con ondate di dolore.
Due grandi cervi si avvicinarono e Rama chiese loro se avevano visto Sita, e i cervi puntarono la testa verso sud. Rama e Lakshmana lo presero per un segno e si lanciarono in quella direzione. Presto trovarono sul terreno una traccia di fiori caduti, e Rama si chinò e li raccolse. Erano i fiori della treccia di Sita, e lui gridò:“Sita! Sita!”
I fratelli ripresero a correre e videro delle enormi impronte, probabilmente quelle di un Rakshasa, e vicino le orme di Sita che sembrava avesse corso qui e là spaventata. Guardando in giro videro i pezzi di un grande arco e delle frecce colla punta rostrata di acciaio blu. Poi un cocchio sfasciato, ancora aggiogato a dei muli con la testa di demoni, molti dei quali decapitati. Il cocchiere senza testa aveva ancora in mano le redini e la frusta, e c’erano frammenti d’oro dei gioielli di Sita e la sua ghirlanda schiacciata. Rama disse. “Guarda quanto sangue! E quante armi sfasciate, questo arco incrostato di gemme e di perle, e il cocchio col baldacchino stracciato. Di chi sarà? Guarda là! Un’armatura d’oro costellata di smeraldi e diamanti. Sono oggetti che appartengono ai Deva o ai demoni”.
Rama cadde a terra lamentandosi pietosamente. “O Lakshmana, è chiaro che Sita è morta. Qui due Rakshasa hanno combattuto per averla, e il vincitore se l’è divorata. Ah, sono perduto!”
Lakshmana esaminò la scena attentamente, si poteva capire che c’era stata una lotta tra due esseri molto potenti. Forse Rama aveva ragione, ma dalle orme sembrava che ci fosse stato solo un Rakshasa. Lakshmana sentiva che Sita era ancora viva. Rassicurò Rama dicendogli di farsi coraggio, che avrebbero ritrovato presto Sita.
Rama controllò il suo dolore e si sentì montare la rabbia. Gli angoli dei suoi occhi presero il colore del rame e, impugnando l’arco disse: “La razza dei Rakshasa sarà presto estinta. Hanno rapito la virtuosa Sita. Perché i Deva sono stati a guardare senza far nulla? Non temono la mia ira? Pensano che io sia impotente? Per troppo tempo sono stato mite e compassionevole, oggi il mondo vedrà un altro Rama!”
Rama ruggì mettendoci tutta la sua rabbia. Voleva riempire il cielo coi suoi dardi, e distruggere l’intero creato colle sue armi. Voleva attaccare tutti gli esseri viventi con le sue frecce fiammeggianti, fermare i pianeti, oscurare il sole e far cadere la luna, polverizzare le montagne e asciugare gli oceani. Se i Deva non gli riportavano Sita, non avrebbero trovato rifugio da nessuna parte: voleva fare a pezzi colle sue frecce tutti i mondi, e non far rimanere nulla. Sarebbe divampato un vasto incendio nei quattro angoli dell’universo, lasciando solo cenere.
Rama si allacciò stretti i vestiti, e con le labbra serrate e tremanti sembrava Shiva intento alla distruzione dell’universo alla fine di un’era. Prese dalla faretra una spaventosa freccia e la mise nell’arco. “Oggi non mi fermerà né la forza né la persuasione. Guarda, o Lakshmana come faccio cadere i Deva dal cielo”.
Lakshmana afferrò il braccio di Rama impedendogli di lanciare la sua freccia e a mani giunte lo supplicò dolcemente: “Sei sempre stato dedito al bene di tutti gli esseri viventi, non tradire ora la tua natura, o Rama. Non cedere all’ira, non devi distruggere il mondo per la colpa di uno. I signori di questo mondo sono sempre giusti nelle loro punizioni. Mostra quindi la tua pazienza, che è profonda come la Terra. Calmati e guarda bene la situazione”.
Lakshmana fece notare a Rama che c’erano solo le impronte di un Rakshasa, come se qualcuno avesse lottato col demone, probabilmente per proteggere Sita. Chiunque l’avesse rapita doveva essere molto potente, e forse nessuno aveva potuto impedire il rapimento. Del resto chi avrebbe approvato l’uccisione o il rapimento della sposa di Rama? I Deva e i Gandharva, i fiumi, i monti, e tutti gli esseri viventi non erano capaci di fare torto a Rama, così come i sacerdoti non possono offendere la persona per cui fanno i loro riti.
Rama si cominciò a calmare e Lakshmana proseguì: “Cerchiamo l’aiuto dei saggi, e insieme cercheremo ovunque, per tutte le montagne e le foreste della Terra. E se ancora non avremo trovato Sita andremo dagli abissi degli oceani fino ai regni dei Deva. Non ci fermeremo fino a quando avremo trovato la tua adorata moglie”.
Lakshmana aggiunse che se ancora non l’avessero trovata, allora Rama avrebbe potuto sempre distruggere i mondi colle sue armi. Ma prima avrebbe dovuto contenere la sua rabbia e cercare sua moglie con mezzi pacifici. Altrimenti che esempio avrebbe dato? Se nelle avversità il sovrano della Terra ricorre subito alla violenza, cosa dovrebbero fare gli uomini ordinari? Come si poteva pretendere che si controllassero? A questo mondo, nel tempo è naturale che accadano le disgrazie, ma poi se ne vanno. Felicità e avversità si susseguono, e non si deve farsi condizionare. Anche i Deva soffrono. Non ci si deve lamentare o gioire per le cose materiali, bisogna fare con calma il proprio dovere. Questa è la strada della felicità eterna. Lakshmana guardò Rama negli occhi.
“O Rama, spesso mi hai insegnato queste cose. E chi le può insegnare a te, fosse pure lo stesso Brihaspati? Io sto solo cercando di risvegliare la tua intelligenza che si era spenta per il dolore. Mio caro fratello, gente come te non cede al dolore, nemmeno nei momenti peggiori. Quindi risparmia i mondi, e cerca il nemico che ti ha rapito Sita”.
Rama depose l’arco e rimise la freccia nella faretra, e ringraziò suo fratello per i suoi saggi consigli. I due principi si incamminarono verso sud discutendo sul da farsi. Dopo poco si imbatterono in Jatayu che giaceva a terra ferito. Rama, vedendo da lontano l’enorme uccello bagnato di sangue esclamò: “Lakshmana! C’è un Rakshasa in guisa di uccello che deve aver divorato Sita! Lo uccido subito!”
Rama incoccò una freccia a punta di rasoio e si avvicinò a Jatayu, e come lo riconobbe abbassò l’arma. Jatayu stava morendo, e vedendo Rama alzò la testa e, vomitando sangue disse faticosamente: “O Rama, la divina Sita e la mia vita sono state strappate da Ravana. Io ho cercato di aiutarla e ho combattuto il demone, ma benché abbia distrutto il suo carro e ucciso i suoi cavalli sono stato sconfitto”.
Jatayu narrò l’accaduto, e Rama cadde a terra piangendo. Abbracciò Jatayu carezzandogli la testa e gridò: “Ah, chi più sfortunato di me? Il mio regno è perduto, io sono in esilio, mia moglie è stata rapita e l’amico di mio padre è ferito a morte nel tentativo di aiutarmi”.
Rama chiese dove si era diretto Ravana, e cosa aveva detto Sita mentre veniva trascinata via. Fece anche delle domande sulla forza di Ravana e sulla sua dimora.
Jatayu lo guardò con affetto e parlando in un sussurro gli disse: “Il demone era come una tempesta in cielo, e io che ero vecchio e debole, mi sono stancato presto, e lui mi ha tagliato le ali. Poi è fuggito verso sud”.
L’uccello rantolava. Disse a Rama che presto avrebbe ritrovato Sita, perché il demone l’aveva rapita in un’ora favorevole al suo ritorno. “Anche se non lo sapeva, ” disse Jatayu, “era l’ora ‘vinda’, e secondo le scritture, un tesoro perduto in quell’ora viene ritrovato”.
Jatayu disse poi che Ravana era il figlio del saggio Vishava e il fratellastro di Kuvera. Era terribilmente forte e potente, ma Jatayu era certo che Rama l’avrebbe presto ucciso. L’uccello si sentiva morire, col sangue che gli usciva continuamente dal becco. Guardò Rama con le lacrime agli occhi e ripetendo il suo nome si spense piano piano. La sua testa ricadde, e il suo corpo sussultò.
Rama contemplò a mani giunte l’amico di suo padre e gridò. “Parlami ancora o nobile uccello!”
Ma Jatayu era morto, e Rama si girò verso Lakshmana e disse: “Ah, questo uccello ha dato la sua vita per me. Non solo fra gli uomini, ma anche nelle specie inferiori si trovano anime coraggiose, virtuose e pie. La morte di questo avvoltoio mi ferisce quanto la perdita di Sita”.
Per Rama Jatayu si meritava la stessa celebrazione di suo padre, e chiese a Lakshmana di prendere la legna per fare una pira funebre. E guardando l’uccello disse: “O re degli uccelli, andrai nei regni della felicità senza limiti, non dovrai più rinascere in questo mondo mortale di dolori e sofferenze”.
I fratelli misero Jatayu sulla pira e accesero il fuoco, e Rama recitò di persona i Mantra sacri e compì i riti funebri, come se Jatayu fosse stato un suo parente. Poi i due fratelli andarono al Godavari e dopo essersi bagnati, offrirono l’acqua sacra del fiume all’anima di Jatayu. Compiuti i riti, Rama e Lakshmana si misero alla ricerca di Sita, e si avviarono addentrandosi nella foresta come Indra e Vishnu all’inseguimento degli Asura.
Lakshmana procedette tagliando con la spada la vegetazione che ostruiva il passaggio. Non c’erano sentieri, ma i fratelli si mossero velocemente, guardandosi attorno nella speranza di vedere Sita. I leoni ruggivano, gli uccelli da preda stridevano, e la giungla era scura, e si percepivano cattivi presagi. Il braccio destro di Rama pulsava, e la sua mente era turbata. Gli sciacalli ululavano e i corvi gracchiavano. Rama disse: “Attento, Lakshmana questi sono segni di pericolo”.
Mentre parlava si udì un frastuono assordante che riempì i quattro angoli dell’universo. Rama e Lakshmana corsero verso il rumore colle spade in mano, pensando che fosse causato dal demone che aveva rapito Sita. Erano pronti ad ammazzarlo, e speravano di ritrovare la principessa.
Di colpo sbucarono in una radura e videro un colossale Rakshasa seduto. Era più alto degli alberi, e sembrava una montagna. Non aveva né collo né testa, e un’enorme bocca nella pancia. Il demone era di colore blu scuro, ricoperto da peli ispidi, e in cima al suo corpo c’era un occhio solo che mandava lampi di fuoco. La sua lunghissima lingua usciva a leccare le labbra, e le sue braccia, lunghe otto miglia trascinavano verso di lui animali di tutti i generi. Mentre i fratelli guardavano, il Rakshasa divorò tigri, orsi e cervi ficcandoseli in bocca. I fratelli lo avevano visto da un miglio, e mentre guardavano stupiti, il Rakshasa li vide e li afferrò con le sue lunghissime braccia che sembravano enormi rampicanti. Li prese saldamente e li alzò da terra. Lakshmana disse a Rama: “Liberati, o Rama, e lasciami come offerta a questo demone. Scappa, io non riesco a liberarmi dalle sue grinfie. Ricordati di me quando avrai recuperato Sita e il trono di Ayodhya”.
Lakshmana era lacerato dal rimorso di aver permesso per la sua negligenza il rapimento di Sita, e si lasciò sopraffare dal demone. Rama replicò: “Non cedere alla paura, o Lakshmana, Uno come te non deve mai darsi per vinto”.
Il massiccio Rakshasa trascinò i fratelli verso di sé. “Chi siete voi due, con le spalle da tori, vestiti da asceti ma con archi e spade?”, tuonò. “Per volere della provvidenza mi siete capitati a tiro quando ho una gran fame. Adesso finirete divorati”.
Rama si disperò, non c’era fine alle sofferenze? Disse a Lakshmana. “Il destino è potente, le disgrazie si accumulano. Non abbiamo trovato ancora Sita e adesso la nostra vita è in pericolo. Cosa possiamo fare?”.
Lakshmana si era ripreso e si infuriò, gridando a Rama: “Tutta la forza di questo demone sta nelle sue braccia. Tagliamole con le spade!”
Il demone aprì la bocca per inghiottire i fratelli, ma loro calarono le spade affilate come rasoi sulle sue braccia, troncandole. Rama e Lakshmana si liberarono e il demone cadde a terra con un ruggito di dolore, col sangue che gli usciva a torrenti dai monconi. Chiese ai principi: “Chi siete?”
Lakshmana rispose: “Siamo due dei figli di Dasarath, del casato di Iksvaku. Questo è Rama e io sono Lakshmana, al servizio del nostro nobile padre. Mentre mio fratello si aggirava per la foresta, sua moglie è stata rapita da un Rakshasa che stiamo cercando. Ma tu chi sei, che abiti in questa foresta con una bocca fiammeggiante nella pancia?”
A queste parole il demone gioì. “Benvenuti! È la mia buona sorte che vi porta oggi da me a tagliarmi le braccia”.
Il Rakshasa si chiamava Kabandha, e narrò la sua storia. Tempo addietro era un Gandharva, e un giorno per vanità della sua bellezza, aveva schernito un Rishi di nome Ashtavakra, il cui corpo era piegato in otto punti. Il Rishi aveva mandato una maledizione per liberare Kabandha dal suo orgoglio, tramutandolo in un Rakshasa. Kabandha gli aveva chiesto pietà, e il Rishi gli aveva detto: “Quando Rama e Lakshmana cremeranno il tuo corpo, tu sarai libero dalla mia maledizione”.
Kabandha proseguì: “Ho vagato nella foresta colla forma di un Rakshasa. Poi feci strette pratiche ascetiche e Brahma mi diede il dono di una lunga vita. Non avendo più paura sfidai Indra, e quell’invincibile Deva mi ha lanciato contro il suo fulmine, che mi ha colpito cacciandomi testa, braccia e gambe dentro al corpo. Io lo implorai, ma Indra non volle uccidermi, dicendo: “Che le parole di Brahma restino veritiere”.
Allora io chiesi a Indra come fare a sopravvivere in quella forma, un tronco senza testa, braccia e gambe. Indra fu mosso a compassione e mi diede queste due braccia e una bocca enorme dicendomi: ‘Quando Rama e Lakshmana ti taglieranno le braccia tu risalirai in cielo. “Così sono rimasto qui, allungando le braccia per mettermi in bocca leoni, tigri, leopardi, orsi e cervi, e fra me e me ho sempre pensato: ‘Un giorno Rama e Lakshmana cadranno nelle mie grinfie’”.
Kabandha implorò i principi di gettarlo in una fossa e di cremarlo, ma Rama gli chiese di dirgli prima se sapeva qualcosa di Sita. Gli disse: “Sappiamo solo il nome del rapitore, non sappiamo dove viva o che aspetto abbia”.
Kabandha disse che avrebbe potuto consigliarli solo dopo aver assunto la sua forma celestiale originale, perché solo allora avrebbe potuto riavere la sua intelligenza divina. I fratelli scavarono una gran fossa e vi misero molta legna, poi vi spinsero Kabandha e accesero il fuoco. Il corpo del Rakshasa bruciò come una grossa massa di ghee, con il grasso che colava da tutte le parti. Improvvisamente si levò una forma luminosa, che indossava una veste gialla e una ghirlanda brillante. In quel momento apparve un bellissimo cocchio aereo trainato da cigni, e Kabandha vi salì, e disse a Rama: “O Raghava, ti dirò come potrai riavere Sita. Colui che è stato colpito dalla disgrazia può essere aiutato da uno che abbia un destino simile, e tu devi trovarlo e fartelo amico”.
Kabandha disse a Rama di cercare una scimmia di nome Sugriva, che viveva su un monte vicino con quattro amici. Era forte, intelligente, colta, e fedele alla sua parola. Suo fratello l’aveva esiliata per avere la sovranità, e aveva bisogno di aiuto. Alleandosi con Sugriva, Rama le avrebbe reso un buon servizio, e la scimmia l’avrebbe aiutato a ritrovare Sita.
Kabandha proseguì. “Quando avrai ridato il regno a Sugriva, la scimmia manderà migliaia di scimmie a cercare in ogni parte del mondo. O Rama, coll’aiuto di Sugriva si ritroverà tua moglie, anche se fosse stata nascosta nel più lontano pianeta “.
Poi Kabandha disse a Rama come trovare Sugriva. Con la sua visione divina poteva vedere esattamente quello che Rama avrebbe incontrato. Rama avrebbe trovato Sugriva vicino all’eremo del Rishi Matanga, sulle rive del lago Pampa, dove ora viveva soltanto una donna asceta di nome Sabari. Finita la spiegazione il Gandharva rimase in cielo, splendente come un sole. Rama lo ringraziò e disse: “Torna ora alla tua dimora. Mi hai reso un gran servizio”.
Kabandha, che aveva riconosciuto i fratelli, si inchinò e gli offrì delle preghiere. Poi il suo cocchio dorato si alzò verso il cielo, e mentre spariva il Gandharva ripeté: “Alleati con Sugriva!”
Rama e Lakshmana si misero subito in cammino verso ovest, come aveva suggerito Kabandha, e dopo un po’ di tempo raggiunsero il lago Pampa, e passarono la notte sulla sua riva. La mattina i due fratelli cercarono l’eremo di Matanga, che era circondato da alberi carichi di frutta e fiori, con gli uccelli che cantavano, e i cervi, i conigli e altri animali mansueti che pascolavano.
I principi trovarono presto la capanna dove viveva Sabari. Lei era seduta fuori, e si alzò rispettosamente per accoglierli e si gettò ai loro piedi. Poi gli offrì delle stuoie d’erba Kusha e portò dell’acqua per lavargli i piedi, dicendo: “Siete i benvenuti”.
Rama e Lakshmana si accomodarono e Rama disse: “O nobile signora, le tue pratiche ascetiche procedono senza difficoltà? Sei divenuta padrona dei tuoi sensi? Ti sei liberata completamente dalla rabbia, e la tua dieta è sotto controllo? Il tuo servizio al Guru ti ha dato frutti?”
Sabari guardò Rama con le lacrime agli occhi. Per molti anni aveva praticato lo Yoga con molte austerità, ed essendo realizzata poteva riconoscere l’identità dei due principi. Parlò con una voce armoniosa: “Proprio oggi ho raggiunto il pieno frutto della mia meditazione e delle mie pratiche ascetiche, e la mia vita è perfetta. Ho ben servito i miei insegnanti, e ho raggiunto il cielo. O Rama, dopo averti visto nella tua forma divina giungerò in quei regni che non conoscono declino”.
Sabari disse a Rama che Matanga era asceso al cielo non molto tempo prima, e prima di partire le aveva detto che sarebbe venuto Rama accompagnato da Lakshmana, e li avrebbe dovuti servire, e dopo che se ne fossero andati sarebbe potuta ascendere nelle regioni eterne. Con mani tremanti offrì ai fratelli frutta e vegetali. Dopo aver accettato con grazia l’offerta, Rama chiese di visitare l’eremo. “Voglio vedere la gloria del tuo Guru” , disse, “Ti prego, mostrami dove ha vissuto e dove praticava la sua adorazione”.
Sabari portò i fratelli all’altare di Matanga, che brillava illuminando tutta l’area. In un laghetto vicino c’erano le acque di sette oceani, portate dai poteri di Matanga, e sul terreno vi erano delle ghirlande di fiori fatte dal saggio che erano ancora fresche.
Alla fine della visita Sabari disse. “Desidero raggiungere ora i grandi Rishi in paradiso per servirli in eterno. Ti prego, o Rama, permettimi di andare”.
Rama disse: “Ci hai fatto gli onori dovuti, signora benedetta, parti pure”.
Sabari si inchinò a Rama ed entrò nel fuoco sacrificale, e come il suo corpo si consumò, una brillante forma eterea si innalzò nel cielo come una striscia di fulmine, illuminando tutta la regione. L’asceta salì verso il santo regno abitato dai saggi che aveva sempre servito.
Rama parlò a Lakshmana: “Quest’eremo brilla di splendore mistico. Venendo qui ci siamo purificati da ogni macchia di peccato del Karma. Caro fratello, la nostra fortuna cambierà, penso che incontreremo presto Sugriva”.
Rama era felice di incontrare Sugriva, e ricordando le parole di Kabandha si sentì sicuro di ritrovare presto Sita. I due fratelli lasciarono l’eremo e perlustrarono accuratamente le rive del lago. A mezzogiorno fecero il bagno fra i canti dei pavoni e dei pappagalli. L’acqua era cristallina e coperta da infiniti fiori di loto in un tappeto variopinto. Le rive erano dolci e sabbiose, circondate da grandi alberi, e i rampicanti raggiungevano l’acqua ricca di pesci.
I fratelli continuarono a camminare sulle rive del lago per molte miglia, ed arrivarono al monte Rishyamukha. Rama guardò in alto e disse: “Questa deve essere la montagna dove vive Sugriva. Il mio cuore è lacerato dal dolore, e penso che non potrò vivere a lungo se non troviamo presto Sita. Ti prego, trova la scimmia”.
E Rama scoppiò in un pianto dirotto. Dov’era ora la figlia di Janaka? Forse si era consunta senza di lui, morendo dal dolore.
Davanti al bellissimo paesaggio, il suo dolore si esacerbava, tutto gli ricordava Sita. La danza della femmina del pavone gli faceva venire in mente il modo in cui Sita gli si avvicinava nell’amore, la brezza era come il suo alito profumato, i fiori gialli di champaka gli ricordavano le sue vesti di seta, e i bocci rossi degli alberi erano come le sue labbra. I cervi si aggiravano colle loro compagne, ferendolo al cuore nel ricordo delle sue passeggiate con Sita, e i cigni erano bianchi come la sua carnagione. Rama gridò per la disperazione, col cuore in fiamme. Lakshmana lo consolò dicendogli che l’avrebbero trovata presto. Mentre parlava la sua voce divenne rabbiosa: “Quel peccatore di Ravana non troverà rifugio, anche se cercherà di nascondersi nelle parti più buie dell’universo. Io lo troverò e se non restituirà Sita, lo ucciderò con le mie mani. Metti da parte il dolore, fratello mio e insieme ci sforzeremo di trovare Sugriva. Gli uomini di valore non si arrendono e non si lasciano abbattere anche di fronte alle peggiori tragedie, anzi diventano più forti e determinati nell’affrontare le difficoltà”.
A queste parole Rama si rincuorò e i due fratelli ripresero la ricerca di Sugriva.