Era passato un mese dall’incoronazione. Le celebrazioni erano finite e la vita ad Ayodhya era tornata alla normalità. Sapendo che i suoi ospiti volevano tornare alle loro terre, Rama cominciò gli addii. Prima parlò con suo suocero, Janaka, che stava nel suo palazzo. A mani giunte in segno di rispetto, Rama disse: “Mio signore, tu ci sei stato di grande sostegno, e ci hai sempre protetto. Grazie ai poteri che hai acquisito con l’ascesi e con la tua benedizione, ho potuto uccidere Ravana. I legami tra le nostre due famiglie sono indissolubili. Ti prego di accettare questi doni, e sentiti libero di tornare a Mithila quando desideri. Bharata e Shatrughna ti accompagneranno e ti faranno da scorta”.
Gli occhi di Janaka si riempirono di lacrime per l’umiltà di Rama. Guardò i mucchi dei doni che Rama gli offriva. “Mi sento gratificato al solo vederti, o Rama. Che queste ricchezze siano date a Sita. Non ho il minimo desiderio di ripartire, ma il dovere mi richiama a Mithila. Devo partire, ma la mia mente non si staccherà mai da te”.
Janaka abbracciò Rama, e uscì dalla stanza seguito dai suoi ministri e da Bharata e Shatrughna.
Rama salutò uno per volta tutti i re che erano venuti per l’incoronazione, offrendo ricchi doni. Tutti erano addolorati di dover partire, e guardavano il volto di Rama senza mai averne abbastanza. Dopo avergli girato intorno rispettosamente radunarono il loro seguito e lasciarono Ayodhya. La terra scuoteva per le centinaia di re e principi che uscivano dalla città sui loro cocchi, seguiti dai loro eserciti. E andandosene espressero il loro rammarico perché i loro eserciti non avevano partecipato alla guerra contro Ravana. E si lamentarono, dicendo: “Queste forze potenti sono state inutili perché non le abbiamo potute usare per aiutare Rama. Bharata ci ha convocato troppo tardi”.
Quando tutti i re furono andati, Rama parlò coi capi delle scimmie. Li ringraziò ancora per i loro servigi, e li abbracciò con amore. Prese dei gioielli che indossava e li diede a Hanuman e Angada. Poi parlò con affetto a tutte le scimmie, offrendo grandi ricchezze. “O Vanara, adesso partite per Kishkindha. Governate sui vostri sudditi con saggezza ed amore. Mi avete reso un grandissimo servizio che io ricorderò per sempre”.
Hanuman si inginocchiò davanti a Rama. “O Rama, non so come farò a partire. Ho una richiesta da fare: Fai sì che l’amore che ho per te duri per sempre, e che la mia devozione rimanga costante, e che la vita rimanga nel mio corpo fin tanto che la tua storia verrà narrata su questa Terra. Fai sì che io abiti in qualche regione del cielo, ad ascoltare la tua storia narrata dalle Apsara e dagli altri esseri divini. Solo così il dolore per doverti lasciare potrà essere attenuato”.
Rama sorrise, e disse: “Sarà come tu desideri, o principe delle scimmie. La tua vita e la tua fama dureranno quanto durano i mondi. Io sono in debito con te per sempre, e io ti sono obbligato dal profondo del mio cuore. Spero che non venga mai il tempo di doverti ripagare, perché vorrebbe dire che sarebbe un tempo di grande difficoltà”. Le scimmie, a cui il mese passato ad Ayodhya pareva come un giorno, partirono con riluttanza, cogli occhi pieni di lacrime e le menti assorte nel pensiero di Rama.
Rama poi salutò Vibhishana, chiedendogli di governare Lanka con rettitudine. In pochi giorni tutti erano partiti, e Rama cominciò a regnare su Ayodhya con l’aiuto di Lakshmana e la guida dei Rishi.
Un giorno venne in visita Agastya con un gran numero di saggi. Rama li ricevette con grande rispetto, e tutti si sedettero nella sala delle assemblee. Su richiesta di Rama, Agastya narrò la nascita e la vita di Ravana, e la storia dei principali Rakshasa. Poi narrò anche la storia dei grandi Vanara.
Quando ebbe finito di parlare, Rama disse: “O potente saggio, i tuoi racconti sono stati meravigliosi e siamo tutti benedetti dalla tua presenza. Ho una richiesta: presto farò un sacrificio per il bene del mondo. Benedicimi affinché si svolga a perfezione, anzi, se vuoi, torna ad Ayodhya quando faremo il sacrificio per onorarlo della tua santa presenza”. Rama invitò tutti i saggi a presenziare al sacrificio, e loro accettarono, poi si alzarono tutti insieme e se ne andarono.
* * *
Sotto il regno di Rama ad Ayodhya tutto andava al meglio. Nessuno moriva prematuramente, e non c’era paura delle malattie. Il mondo era senza rapinatori, e nessuno faceva del male agli altri. Ogni essere era contento e tutti gli uomini si comportavano rettamente, facendo il loro dovere come servizio per Rama e tenendolo sempre presente nel cuore. Le piogge cadevano quando era necessario, e la terra dava abbondanti raccolti. Tutti avevano ciò di cui avevano bisogno, e si sentivano soddisfatti, e liberi dall’avarizia.
Passarono due anni. Un giorno Rama stava camminando con Sita nei giardini del palazzo, ed avendo saputo che lei era incinta fece un gran sorriso e disse: “Che meraviglia! O bella signora, dimmi cosa desideri”.
Mentre camminavano Sita ammirò gli alberi in piena fioritura, e si ricordò di quel tempo trascorso nella foresta e disse: “O signore, vorrei rivisitare quei luoghi paradisiaci dove vivono i saggi, e passare una notte ai piedi di quei Rishi”.
Rama tenendola per mano disse: “Molto bene principessa, potrai andare domani”.
La coppia sedette all’ombra degli alberi e venne intrattenuta dalle Apsara e le Naga, che danzavano con la musica dei Gandharva. Presto il sole tramontò, e loro si ritirarono per la notte nelle loro stanze.
La mattina seguente, dopo i riti religiosi del mattino, Rama andò nella sala del concilio, prese il suo posto sul trono d’oro, e chiese al suo primo ministro: “O Bhadra, dimmi cosa dice la gente? Cosa dicono di me e del mio regno? I re che non compiono i loro doveri vengono criticati ovunque”. Bhadra rispose a mani giunte: “O re, il popolo dice di te cose meravigliose. Parlano soprattutto della tua vittoria su Ravana e la liberazione di Sita”.
Mentre parlava, Bhadra guardava in terra, e Rama lo notò e gli disse: “Cos’altro dicono, o ministro? Non tenermi nascosto nulla, dimmi ciò che di bene o di male si dice di me, poi saprò cosa fare. Parla senza paura”.
Bhadra fece un profondo respiro e disse: “O signore, in verità ho sentito anche qualche critica. Alcuni dicono che, dato che Ravana ha tenuto in braccio Sita, che poi è stata con lui per quasi un anno, lei non può essere considerata pura. O Rama, tu l’hai accolta di nuovo nella tua casa, e questa gente sostiene che allora anche loro dovranno tollerare che le loro mogli si comportino in modo impuro. Qualunque cosa faccia un re diventa accettabile per tutti”.
Bhadra guardava in terra piangendo. Non avrebbe voluto dire queste cose a Rama, ma non si poteva nascondergli nulla.
Rama era esterrefatto, e guardò gli altri ministri. “È vero? La gente dice queste cose?”. I ministri erano addolorati, ma annuirono per confermare le parole di Bhadra.
Rama si fece pensieroso, licenziò la corte e convocò Lakshmana. Il principe entrò e vide subito che il fratello aveva un’espressione spenta, come un sole in eclisse. Gli corse a fianco e gli chiese cosa c’era che non andava. Rama gli spiegò ogni cosa. “Caro fratello la calunnia del popolo mi tormenta. Un monarca virtuoso non può tollerarla. Sapevo che la gente avrebbe fatto queste critiche, e quindi avevo fatto fare a Sita la prova del fuoco. Comunque sembra che malgrado i Deva abbiano garantito la sua purezza, questo non basti ai cittadini”.
Rama continuò scuotendo la testa: “Bisogna evitare la cattiva fama a tutti i costi. Anche i Deva la condannano. Fin tanto che c’è una cattiva fama, è come stare all’inferno. I grandi si sforzano sempre per ottenere fama e buona reputazione. Per evitare una cattiva reputazione sarei pronto a rinunciare a mio fratello o alla mia stessa vita. Che dire allora di Sita?”.
Rama ordinò a un Lakshmana sbalordito di portare immediatamente Sita nella foresta e di lasciarla lì. Sita si aspettava già di andarci per una visita, così non avrebbe dovuto dirle la verità. Rama disse gravemente: “Non voglio sentire commenti, caro fratello. Sita deve essere portata oggi nell’Ashram di Valmiki, sulle rive del Gange. Lasciala lì, e torna da solo ad Ayodhya”. Rama si ritirò subito nelle sue stanze con un gran peso sul cuore. Lakshmana andò da Sita pensando che questo era il compito più difficile che avesse mai affrontato. Se fosse stato per lui, sarebbe andato a cercare quelli che sparlavano di Rama per dar loro una raddrizzata. Come si poteva pensare che Sita non fosse casta? Che colpa aveva mai commesso Rama? Ma non poteva fare a meno di obbedire all’ordine di Rama. Lakshmana chiamò Sumantra e gli disse di preparare il cocchio, poi andò da Sita per dirle che Rama gli aveva chiesto di accompagnarla nella foresta.
Sita era contentissima, e chiese alle sue dame di preparare bellissimi vestiti e gioielli. “Li voglio regalare alle mogli dei Rishi” , disse sorridendo.
Lakshmana rimase in silenzio, e si avviò verso il cocchio, seguito da Sita.
Mentre camminava Sita notò dei presagi strani. Sorpresa, disse: “O figlio di Sumitra, come mai mi pulsa l’occhio destro e mi tremano le membra? Il mio cuore è pesante, e la mente è preda dell’ansia. Sembra che la Terra sia triste, e tutto sembra desolato. Mi auguro che tutto vada bene per il mio signore, e per tutti gli esseri viventi”.
Sita pregò a mani giunte mentre usciva dal palazzo. Quando arrivarono al cocchio, Lakshmana disse: “Va tutto bene, o regina. Non c’è motivo di aver paura. Penso che tu stia soffrendo per la separazione da Rama, sia pure per un giorno. Sali sul cocchio, e partiremo subito per le rive del sacro Gange”.
Sita si sentì rassicurata, salì sul cocchio, mentre Lakshmana saliva davanti con Sumantra. Il cocchiere incitò i cavalli, e partirono per la foresta. Dopo aver viaggiato per la maggior parte del giorno, arrivarono alle rive del Gange, vicino all’Ashram di Valmiki. I tre viaggiatori andarono ad offrire i loro rispetti al fiume sacro, inchinandosi fino a toccar terra colla fronte.
Pensando all’ordine di Rama di tornare immediatamente, Lakshmana guardò Sita che stava pregando sulla riva del fiume. Era arrivato il momento di lasciarla. Lei non avrebbe avuto difficoltà a trovare l’Ashram di Valmiki, che si poteva raggiungere in breve con un comodo sentiero. Per la vergogna di dover abbandonare la regina, Lakshmana non voleva entrare nell’Ashram. Adesso avrebbe dovuto dire a Sita la verità. Perse il controllo, lanciò un grido e cadde per terra.
Sita, sorpresa, lo guardò. “Cosa ti fa soffrire o Lakshmana? Siamo sulle rive del sacro Gange, e stiamo per incontrare i Rishi: perché ti lamenti in un momento così bello? Mi stai rendendo triste, so quanto tu ami Rama. Soffri anche tu per la separazione? Fatti coraggio, o principe. Rama mi è altrettanto caro, ma non mi lascio andare a tanto dolore”.
Sita chiese a Lakshmana di accompagnarla all’eremo. “Passiamo un notte con quei saggi, caro Lakshmana, e poi torniamo da Rama”.
Lakshmana si alzò in piedi tremando, il volto coperto di lacrime. A mani giunte parlò a fatica. “O signora benedetta, è come se il mio cuore fosse trafitto da un dardo. Mi è stato affidato un compito che tutto il mondo criticherà. Preferirei morire”.
Sita non riusciva a capire, non aveva idea cosa volesse dire Lakshmana, e gli chiese: “Cosa c’è che non va, caro fratello? C’e qualche problema con Rama? Parla, dimmi subito la verità”. Lakshmana sospirò, e guardando in terra disse: “O Janaki, prima di partire tuo marito ha sentito una dolorosa diceria che circola fra la gente. Non posso ripetere le parole che lui ha sentito. Malgrado i Deva ti abbiano provato pura e ineccepibile, Rama non può ignorare la critica. È affranto per il dolore, ma mi ha ordinato di portarti qui e di tornare da solo. O gentile signora, sei stata abbandonata da lui per paura di perdere la buona reputazione”.
Lakshmana si interruppe, era troppo sconvolto per continuare. Sita era impietrita, a stento credeva alle sue orecchie. Era nata solo per soffrire? Si coprì il viso con le mani e cadde a terra con un pietoso lamento.
Lakshmana si fece forza e disse: “Non disperarti, o principessa, sei nell’Ashram di Valmiki. Chiedigli rifugio, e vivi qui in pace, rimanendo leale a tuo marito, digiuna, prega e medita, e con Rama sempre nel cuore ti assicurerai la beatitudine eterna”.
Sita svenne, giaceva a terra come un rampicante fiorito strappato dal suo albero. Quando riprese i sensi si lamentò. “Ahimé, questo corpo mortale è stato creato solo per soffrire. Questo giorno è dolore puro. Cosa ho mai fatto per meritarmi questa sofferenza? Come posso vivere da sola in questo eremo coi saggi? Cosa gli dirò quando mi chiederanno perché io abbia lasciato il grande Rama Raghava? Vorrei lasciarmi affogare nelle acque del Gange, ma così interromperei la discendenza di Rama uccidendo anche il figlio che porto in grembo. O Lakshmana, fai quello che devi, lasciami qui, sola e miserabile, ma prima ascolta quello che ho da dire”.
Sita si alzò in piedi, e tremando dal dolore si appoggiò ad un albero e parlò a Lakshmana. “O tigre d’uomo, torna dunque ad Ayodhya e lasciami qui. Porta i miei rispetti a tutti gli anziani, poi dì al mio signore: ‘O Rama Raghava, agisci sempre per preservare la tua fama nel mondo. Sicuramente mi devi abbandonare per evitare di rovinare la tua reputazione, e quindi non sono arrabbiata, malgrado sia lacerata dal dolore. Il marito, per una donna casta, è il suo maestro e la sua divinità. ’”
Avendo dato il suo messaggio per Rama, Sita cadde nuovamente a terra. Lakshmana la guardò con gli occhi pieni di lacrime, e non riuscendo a dire nulla, pianse e si inchinò fino a terra. Poi circoambulò Sita a mani giunte, e facendosi forza disse: “O donna senza colpa, ti guardo in volto per la prima volta per dirti addio. Come posso sopportare di vederti separata da Rama, lasciata a vivere nella foresta?”.
Piangendo, Lakshmana si inchinò ancora e salì sul cocchio dove Sumantra stava seduto tristemente in silenzio. Il cocchio partì, e mentre si allontanava si sentivano le pietose grida di dolore di Sita che echeggiavano nei boschi come le grida della femmina del pavone che chiama il compagno.
Poco dopo un paio di asceti che stavano raccogliendo legna, sentirono i singhiozzi di Sita, la videro fra gli alberi e corsero ad avvertire Valmiki. “O signore, sulla riva del fiume una nobile donna dall’aspetto della Devi della fortuna, sta piangendo disperatamente. Forse viene dal cielo, e certo non si merita tanta pena e dolore. Secondo noi si tratta di una donna divina, venuta a cercare rifugio da te. O signore, crediamo che sia degna della tua protezione”.
Valmiki aveva capito tutto grazie alla sua capacità di visione interiore. Prese un’offerta di Arghyia, e si recò immediatamente sulla riva del fiume, seguito dai suoi discepoli.
Il grande saggio trovò Sita in terra che piangeva. “Mia gentile signora, ”, disse confortandola, “So che tu sei la nuora di Dasarath, e l’amata regina di Rama. Io sono Valmiki e ti do il benvenuto nel mio eremo. Grazie alla meditazione so perché sei qui, perché mi è noto tutto quello che accade nei tre mondi. So che sei pura e senza macchia. O bambina, tirati su e accetta questa mia offerta, vieni, ti porto all’Ashram delle donne ascete, che ti tratteranno come una figlia. Sarà come essere a casa tua”.
Sita si inchinò rispettosamente al saggio ed accettò l’offerta di Arghyia, e rispose: “Sia come tu vuoi, o grande Rishi”.
Valmiki fece strada verso l’Ashram femminile, e quando raggiunsero quella parte riservata e deliziosa del bosco, delle ascete anziane vennero a salutarli. Una di loro chiese: “Cosa vuoi che facciamo, o grande saggio?”
Valmiki presentò Sita e disse loro di prendersene cura. Disse che stava aspettando il figlio di Rama, e che doveva essere trattata con rispetto ed amore, così come avrebbero trattato lui stesso. Sita cominciò così il suo soggiorno con gli asceti, sempre assorbita nel pensiero di Rama.
* * *
Lakshmana e Sumantra viaggiarono in silenzio pensando a Sita. Quando il cocchio uscì dalla foresta e raggiunsero la via che conduceva ad Ayodhya, Lakshmana disse: “O auriga, come dev’essere grande il dolore di Rama, ancora una volta separato da Sita. Questo è il gioco inesorabile del destino. Non è sorprendente che Rama, che avrebbe potuto sconfiggere tutte le schiere celesti, si debba assoggettare al fato? Mi sembra che Rama soffra di più a dover bandire Sita di quanto abbia sofferto per l’esilio ed il rapimento. Perché mai si è sottomesso alle parole crudeli del suo popolo? Cosa ne guadagna la sua virtù?”
Sumantra consolò Lakshmana, e gli raccontò una storia che aveva sentito dal Rishi Durvasa. “Una volta questo saggio era nell’eremo di Vasishtha, e a quel tempo tuo padre vi si recò accompagnato da me. Chiese a Durvasa di dirgli il futuro dei suoi figli – quanto avrebbero vissuto e regnato. Allora Durvasa narrò questa storia”. Lakshmana lo ascoltò con grande attenzione. Durvasa aveva detto che in un tempo antico i Daitya erano stati sconfitti in una guerra coi Deva. Erano fuggiti, ed avevano cercato rifugio nell’Ashram di Bhrigu, un potente saggio. Era presente solo sua moglie, che per compassione lasciò che loro si nascondessero nell’Ashram. Quando Vishnu, che stava aiutando i Deva in questa guerra, lo venne a sapere, si arrabbiò con la moglie di Bhrigu e le tagliò la testa con il suo disco. Quando Bhrigu tornò maledisse Vishnu dicendo: “Come tu hai ucciso la mia innocente moglie, così tu ti incarnerai in questo mondo mortale e sarai separato da tua moglie per molti anni”.
Sumantra concluse la storia. “Appena Bhrigu pronunciò la maledizione si pentì, si gettò ai piedi di Vishnu e lo adorò. Comunque Vishnu disse: ‘O saggio, accetterò questa maledizione per il bene del mondo. ’. E Durvasa spiegò che Rama sarebbe divenuto l’imperatore di Ayodhya ed avrebbe regnato per undicimila anni, ma separato da Sita. Così avviene, perché la parola dei Rishi non viene mai smentita”.
Mentre Sumantra raccontava questa storia, il cocchio raggiunse Ayodhya e Lakshmana si recò subito a corte. Trovò Rama seduto sul trono con il volto triste. Lakshmana si gettò ai suoi piedi e gli disse che aveva lasciato Sita nell’Ashram di Valmiki e disse: “Non soffrire, o tigre d’uomo. Tutto il bello finisce per essere perduto, le passioni prima o poi si spengono, tutte le unioni terminano con la separazione, e la vita è sempre seguita dalla morte. I saggi quindi non si attaccano alle mogli, ai figli, alla ricchezza e agli amici. Tu lo sai molto bene, o Rama, scuotiti di dosso la tristezza, e fatti coraggio”.
Lakshmana assicurò Rama che, avendo respinto Sita, la sua reputazione era salva. Rama parve rassicurato, e sorrise dicendo: “Quello che dici è vero, o eroe. La mia gioia verrà dallo svolgere i miei doveri, perché questa è la via della felicità eterna. Adesso andiamo a riposare per la notte”.
Rama si alzò, abbracciò suo fratello, e si ritirarono nelle loro stanze.
* * *
Trascorsero dodici anni di regno di Rama. In quel periodo il suo dominio del mondo venne confermato, e tutti i re gli pagarono tributo. Suo fratello Shatrughna uccise il potente demone Lavana, ed altri poteri demoniaci vennero sottomessi. Allora Rama pensò di fare l’Ashvamedha, un sacrificio per il bene del mondo. Furono fatti i preparativi, e vennero mandati gli inviti ai re e ai grandi Rishi di tutta la Terra. Fu invitato anche Valmiki.
Sita aveva dato alla luce due gemelli di nome Lava e Kusha. I ragazzi erano stati allevati da Valmiki con amore, come se fossero figli suoi. Pur non avendo nemmeno conosciuto il padre, erano cresciuti divenendo dei giovani robusti. Valmiki gli aveva insegnato tutta la conoscenza dei Veda, e gli aveva raccontato la storia di Rama, che loro sapevano recitare a memoria.
Quando venne il tempo del sacrificio, Valmiki partì per Ayodhya con Lava e Kusha ed altre centinaia di discepoli. Arrivò nell’area sacrificale come il sole circondato dai pianeti. Appena Rama lo vide arrivare ordinò che venisse adorato e riverito, e messo in un posto d’onore. Quando fu accompagnato ai suoi quartieri, Valmiki disse a Lava e a Kusha: “Domani voi andrete fra i bramini a cantare il Ramayana. Andate anche al palazzo reale, e cantate questa santa narrazione in modo che Rama vi possa sentire. Se lui vi chiama, recitategli tutto il poema al meglio delle vostre possibilità, col cuore puro e senza lasciarvi distrarre la mente dalle ricchezze opulenti che vedrete. Se Rama dovesse chiedervi di chi siete figli, ditegli che siete due discepoli di Valmiki”.
I due ragazzi, umili e obbedienti, risposero: “Faremo ciò che chiedi, o signore”. I due ragazzi desideravano ardentemente vedere Rama. Non solo conoscevano il Ramayana a memoria, ma avevano sentito la loro madre parlare spesso di Rama, e sapevano di essere suoi figli, benché per loro Valmiki fosse come un padre. Andarono a coricarsi a fianco di Valmiki, anticipando con gioia l’incontro con Rama.
Due ore prima dell’alba i ragazzi si alzarono e fecero le abluzioni rituali. Dopo aver recitato le preghiere del mattino si recarono all’assemblea dei bramini e si misero a cantare il Ramayana. Cantavano suonando meravigliosamente i loro liuti, e la loro musica incantava le menti e rapiva il cuore. I saggi bramini erano affascinati ed applaudirono ripetutamente i ragazzi. “Bravi! Siamo tutti incantati da questo magnifico poema. La sua musica squisita e la sua metrica non hanno pari. È un poema ricco dei nove sentimenti di amore, pathos, allegria, eroismo, terrore, ira, disgusto, meraviglia e serenità. Il bellissimo canto dei ragazzi crea un’immagine vivida della storia che raccontano, e ci si sente come a vederla svolgere davanti”.
I bramini diedero ai ragazzi dei doni e dissero: “Questa canzone composta da Valmiki verrà cantata dai poeti per tutte le ere a venire. È un canto che favorisce una lunga vita, porta la ricchezza, auspica la buona fortuna e delizia le orecchie e la mente di chi la ascolta. Andate ragazzi, e recitatela a Rama per il suo piacere”.
I ragazzi andarono subito fuori del palazzo e si misero a cantare. Rama li sentì ed ordinò che gli fossero portati davanti. Rama disse: “O asceti, abbiamo sentito il vostro bel canto. Vi prego di recitare il vostro poema per il piacere dei bramini che sono qui, di mio fratello e anche mio. Penso che non ci sia un canto così sublime, o cantori come voi”.
Rama osservò attentamente i due ragazzi, e disse a Lakshmana: “Sono vestiti da asceti, ma sembrano di razza reale, o forse hanno un’origine divina. Ora ascoltiamoli”.
Tutta l’assemblea ascoltò il canto con rapimento. Come la sera si avvicinò e loro terminarono, Rama disse: “Che meraviglia! Vorremmo sapere chi siete e da dove venite. Voglio donarvi oro e ricchezze in abbondanza”.
I ragazzi dissero che erano discepoli di Valmiki, e ricordando le istruzioni del Rishi, rifiutarono educatamente le offerte di Rama, e chiesero il permesso di ritornare da Valmiki. Rama glielo concesse e i ragazzi andarono, lasciando un’assemblea colpita ed affascinata.
Rama sciolse l’assemblea e restò da solo. Ascoltando i ragazzi che raccontavano la storia della sua vita, gli venne in mente Sita. Desiderava rivederla, e le scritture imponevano ai re di fare i sacrifici con le loro mogli. Erano passati dodici anni dalla sua partenza, e non l’aveva più rivista. Il suo cuore aveva spesso sofferto per la separazione, ma voleva essere assolutamente certo che il popolo non avesse motivo di criticarlo. Sentiva che questo scopo era raggiunto, e volle che Sita fosse presente al sacrificio. Chiamò Bhadra e disse: “Per favore, dì a Valmiki che mi piacerebbe che andasse a prendere Sita, e che poi lui e la regina stessa giurino davanti all’assemblea che lei è sempre rimasta pura. Non voglio più sentire che circolino nel regno delle maldicenze su me e Sita”.
Bhadra fu sorpreso e rallegrato dalla richiesta di Rama, e rispose: “Sarà fatto come desideri, mio signore”. E mandò subito degli inviati a Valmiki per porgergli il messaggio di Rama. Il saggio organizzò la venuta di Sita, dicendo ai messaggeri di Rama che la regina sarebbe arrivata il giorno seguente.
La mattina dopo Rama informò l’assemblea. “Oggi verrà la nobile Sita per assistere al sacrificio. Qui davanti a questa assemblea giurerà di essere pura, sostenuta dal saggio Valmiki, che le ha dato rifugio per questi dodici anni. Voglio che tutti i re e i saggi siano presenti, anzi, che siano presenti tutti coloro che lo desiderano”.
L’assemblea esultò, e tutti si avviarono verso l’arena sacrificale fuori delle porte della città. Tutti desideravano vedere Rama e Sita riuniti, e benché non avessero messo in discussione il giudizio di Rama, avevano sofferto moltissimo quando lui aveva allontanato la regina. Per dodici anni avevano pregato perché venisse il giorno in cui loro si sarebbero riuniti.
Lentamente l’arena si riempì di reali e di Rishi. Erano presenti tutti i grandi saggi: Narada, Parvata, Vasishtha, Vamadeva, Kashyapa, Vishvamitra, Durvasa, Chyavana ed altre centinaia. C’erano dei rappresentanti dei Rakshasa, come anche molti Vanara, Gandharva ed altri esseri celesti. I Deva si riunirono in cielo e Rama prese il suo posto.
Valmiki andò nel centro dell’arena con Sita, che era vestita con un sari color ocra, con degli orecchini scintillanti, e lo seguiva a capo chino.
Benché i suoi pensieri fossero fissi su Rama, non osò guardarlo. Giunse le mani in segno di rispetto, e rimase in piedi in silenzio di fronte a suo marito.
Alla vista della regina con un’espressione triste, si sentirono varie grida. Erano grida di pena, di lode per Rama e per Sita. Quando tutto si calmò, Valmiki parlò.
“O figlio di Dasarath, per paura delle critiche della gente tu hai lasciato Sita vicino al mio eremo. Ora ella vi dichiarerà la sua purezza assoluta. Anche io posso giurare che questa casta donna è priva di peccato, e non ricordo che abbia mai detto altro che la verità. O Rama, sappi che Sita ha sempre tenuto una condotta ineccepibile. Sappi inoltre che i due ragazzi che hanno recitato il Ramayana sono i tuoi figli. Ho compiuto pratiche ascetiche per migliaia di anni, e se le mie parole fossero false, non potrei raccogliere i frutti della mia ascesi. Sapendo che Sita era innocente, l’ho accolta nel mio Ashram. Lei è devota soltanto a te, o Rama Raghava, e non vacillerà mai dalla sua devozione”.
Rama sorrise: “È proprio come dici, o bramino. Anche io ho sempre saputo che Sita è senza macchia. Questo era stato stabilito anche dai Deva, ed io l’avevo accolta nella mia casa. Solo per la critica del popolo l’ho mandata via di nuovo, anche se non ho mai dubitato della sua innocenza. Per favore perdonami. Io qui proclamo il mio amore per la casta Sita, e accolgo questi due ragazzi, Lava e Kusha, come figli miei. Che ora Sita faccia un giuramento davanti all’assemblea per affermare la sua purezza una volta per tutte”.
Sita lentamente alzò lo sguardo su Rama che la guardava amorevolmente, poi guardò l’assemblea. Oltre a tutti i re e i Rishi, c’erano tutte le classi degli esseri celesti, gli Aditya, i Vasu, i Rudra, i Sadhya, i Vishvadeva, i Naga e molte altre. Sopra l’assemblea c’era Brahma, il creatore universale, sul suo cigno e circondato da tutti i principali Deva. Tutti erano in attesa che Sita parlasse.
Con le mani giunte davanti al viso, Sita, guardando in basso e con voce tremula disse: “Che le Devi della Terra mi diano rifugio se mai ho pensato ad altri che Rama. Che la Terra mi dia spazio, poiché adoro Rama nei miei pensieri, nelle parole e nelle azioni. Se sono stata sincera dicendo che solo Rama è il mio signore, che la Terra ora mi accolga”.
Sita capiva di essere diventata un problema per Rama, e che malgrado anche i Deva avessero confermato la sua purezza, continuavano a rimanere dei dubbi. Sembrava che fino a che lei era presente qualcuno avrebbe sempre condannato Rama. Si sarebbe tolta la vita lo stesso giorno in cui era stata lasciata nella foresta se non fosse stato che era gravida dei figli di Rama. Ora i ragazzi erano abbastanza grandi da riunirsi col padre in città. Per lei, era venuto il tempo di partire. Non si poteva contaminare la reputazione di Rama con il pur minimo dubbio, e solo la sua partenza lo poteva garantire.
Come Sita finì di parlare, vicino a lei la terra si aprì e salì un trono celestiale, splendente e ingioiellato, retto dalle teste di quattro grandi serpenti Naga. Sul trono era seduta Bhumi, la Devi della Terra, che risplendeva di luce divina. Si alzò e porse la sua mano a Sita, con dolci parole di benvenuto: Sita salì sul trono accanto a Bhumi, e una pioggia di fiori profumati cadde dal cielo e la ricoprì. I Deva lodarono Sita, e tutti i re e i Rishi videro con stupore e meraviglia il trono che rientrava lentamente nella terra. Tutti lodarono e glorificarono Sita per la sua incomparabile devozione a Rama e per la sua castità.
Rama lanciò un grido quando vide Sita scomparire nella terra che si richiuse non appena il trono vi fu entrato, e si mise a piangere per il dolore. Si torceva le mani per la disperazione, e parlò. “Questa è la più grave sofferenza che io abbia mai provato. Come posso sopportarla? Come posso lasciare che la terra mi prenda Sita? Quando mi fu rapita da Ravana ho attraversato a piedi il mondo e gli oceani sconfinati per ritrovarla. Adesso la riprenderò o me ne andrò con lei per sempre”.
Rama guardò la terra con rabbia, e disse: “O Devi, riportami Sita o sentirai la mia furia. Sita è uscita dal tuo grembo, quindi tu sei la mia suocera. Sii quindi gentile con me e ridammi Sita, oppure fai spazio anche per me. Io starò con Sita ovunque lei si trovi, in cielo o all’inferno. O Devi della Terra, ascolta le mie parole o ti distruggerò con tutte le montagne e le foreste”. Rama aveva gli occhi fiammeggianti d’ira, e si era alzato per impugnare il suo terribile arco. Allora Brahma, sopra al suo cigno che si librava immobile sopra l’arena sacrificale, disse:“O Rama, Signore di tutti i mondi, non soffrire. Ricorda la tua identità di Vishnu. Questa separazione da Sita l’hai organizzata tu stesso. La pura e nobile figlia di Janaka è andata nei più alti regni celesti dove tu sicuramente la rivedrai. O Signore, ascolta ora i tuoi figli che finiranno il canto del Ramayana. Canteranno anche tutte le tue azioni future, che culmineranno nel ritorno alla tua dimora spirituale. Tutto succede secondo la tua volontà, o Rama, quindi non distruggere il mondo”.
Con il discorso di Brahma, Rama si tranquillizzò, e si risedette. I Deva, rassicurati, partirono per i regni celesti. La sera cadde e l’assemblea si disperse, e Rama tornò tristemente al palazzo portandosi dietro i suoi figli.
La mattina seguente Rama si fece cantare da Lava e Kusha la porzione restante del Ramayana che narrava gli eventi futuri. Seduto fra i ministri e i bramini di corte Rama ascoltò i ragazzi che cantavano il meraviglioso poema di Valmiki. Descrissero brevemente il regno di Rama sul mondo, un tempo di pace e ricchezza mai conosciute. La loro narrativa si concluse colla descrizione di come Rama e i suoi fratelli avrebbero infine lasciato il mondo.
* * *
Rama pensò spesso a Sita dopo che lei se ne fu andata. Non gli sfiorava la mente l’idea di trovare un’altra moglie, e si fece fare una statua in oro di Sita che tenne seduta accanto a sè alla corte reale e ai sacrifici per fungere da regina. Trascorse un periodo di undicimila anni sotto il regno di Rama, con l’assistenza dei suoi tre fratelli. Egli celebrò diecimila grandi sacrifici, e la Terra godette di un’opulenza senza precedenti. Tutte le creature erano felici, e tutto funzionava in accordo colla volontà del Signore Supremo. La religione era fiorente, e tutti conducevano una vita pia.
Un giorno, verso la fine del suo regno, Rama ricevette la visita di uno strano asceta che irradiava una luce divina. Il bramino, dopo che Rama lo ebbe riverito e adorato, disse di essere un messaggero di Brahma, e chiese un incontro privato con Rama, dicendo: “O imperatore, nessuno deve ascoltare quello che ci diremo. Se qualcuno ci dovesse interrompere, tu lo devi uccidere”. Rama accolse la richiesta, e lo portò nelle sue stanze private. Disse a Lakshmana di stare di guardia per impedire a chiunque di entrare, spiegandogli cosa aveva detto l’asceta. Quando furono soli l’asceta disse a Rama: “O Signore, io sono la morte. Brahma mi ha chiesto di venire qui per dirti che il tuo tempo sulla Terra sta giungendo alla fine. Ora, se tu vuoi, puoi tornare alla tua dimora eterna”.
La morte raccontò a Rama le sue precedenti incarnazioni nel mondo materiale, e concluse: “O Rama tu sei l’eterna Persona Suprema. Vieni nel mondo per portare la religione e distruggere i demoni. Il tempo che tu hai destinato a questa incarnazione è quasi finito. Abbi la grazia di riprendere il tuo posto di Signore e protettore dei Deva”.
Rama replicò ridendo: “O distruttore di ogni cosa, la tua visita mi è molto gradita, e le tue parole mi fanno un gran piacere. In vero, è giunto il tempo della mia dipartita. Ti prego, ritorna da Brahma, e digli che io e i miei fratelli partiremo fra poco”. Mentre Rama parlava con la morte, il grande mistico Durvasa venne in città. Voleva vedere Rama, e fu accompagnato al palazzo dove lo ricevette Lakshmana. Chiese di avere un udienza con Rama, ma Lakshmana gli disse che Rama era occupato. Durvasa di colpo si adirò, e disse: “Non mi si farà aspettare. Vai subito, o figlio di Sumitra, e informa Rama della mia presenza. Altrimenti sappi che maledirò te, i tuoi fratelli, questo territorio e tutti i vostri discendenti, perché la mia ira è incontenibile”.
Alla vista dell’irascibile saggio che si preparava a scagliare la sua maledizione, Lakshmana gli fece un inchino e andò subito nelle stanze private di Rama, pensando: “Meglio che muoia solo io, piuttosto che tutta la mia gente”. Entrò nella stanza dove Rama stava conversando con la morte.
Quando Rama seppe che Durvasa stava aspettando, andò subito a salutarlo. Gli toccò i piedi e disse: “Cosa posso fare per te, o grande Rishi?”
Durvasa rispose che aveva digiunato per mille anni, e che desiderava interrompere in quel giorno il suo digiuno. “Ti prego di portarmi dei cibi cotti, o Rama, così che io possa terminare la mia penitenza”.
Rama fece sedere Durvasa con tutte le comodità e gli fece portare una gran varietà di cibi squisiti. Dopo che il saggio e la morte se ne furono andati, Lakshmana disse a Rama: “Ora io devo morire, mio caro fratello, perché questa è la promessa che tu hai fatto alla morte. Puniscimi facendo fede alla parola che hai dato”.
Ricordando la conversazione che aveva avuto con la morte, Rama, si mise a piangere guardando il suo adorato fratello. Come poteva ucciderlo?
Lakshmana, a mani giunte gli disse: “Non provar pena per me, fratello mio. Il tempo è veramente potente, e noi, vincolati dalle nostre azioni precedenti, cadiamo sotto l’influsso della morte. O re, mantieni la tua promessa senza paura. Gli uomini che non lo fanno vanno all’inferno”.
Rama si sedette sul trono distrutto dal dolore. Chiamò i suoi ministri, e spiegò quello che era successo. Allora Vasishtha disse: “O Rama, avevo presagito tutto questo. È giunto il tempo della fine della tua missione. Adesso devi lasciare Lakshmana, e non rinnegare la tua promessa, perché se lo fai la rettitudine non sarà più di questo mondo, e con la rettitudine moriranno tutti gli esseri viventi. Quindi, separati oggi da Lakshmana”.
Rama guardò Lakshmana. “Ti lascio, o figlio di Sumitra, per non far soffrire la virtù. L’uccisione e l’abbandono sono considerati uguali dai saggi, e quindi io oggi ti abbandono”. Lakshmana si prostrò davanti a Rama colle lacrime agli occhi, poi si alzò e lasciò il palazzo, andando direttamente nella foresta. Raggiunse le rive del Sarayu, e si sedette in meditazione preparandosi a osservare il voto di Praya, il digiuno fino alla morte. Con gli occhi semichiusi sospese il respiro ed entrò in una trance profonda. Era seduto, assorbito nel pensiero del Supremo, e Indra, invisibile a tutti, venne e lo portò nei cieli. Così parve che fosse morto. Rama lo seppe, e ne fu profondamente addolorato, e seppe di non poter restare più a lungo sulla Terra. Piangendo per il dolore disse: “Darò il regno a Bharata, e oggi stesso seguirò Lakshmana”. Bharata replicò: “Come posso pensare di governare in tua assenza? Partiremo tutti insieme, anche con Shatrughna. Lascia il regno ai tuoi due figli”.
Vasishtha era d’accordo con Bharata. “Questo è giusto, o Rama. Il tempo che hai fissato per il tuo regno è praticamente finito. Devi partire con i tuoi fratelli che sono parte di te. Il popolo che ha saputo, è triste, e tutti si sono prostrati a terra, abbattuti al pensiero di perderti”.
Rama fu sconvolto dall’infelicità del suo popolo, e convocò i suoi rappresentanti e disse: “Cosa posso fare per placare il vostro dolore? Io devo lasciare questo mondo”.
I rappresentanti dissero: “Portaci tutti con te, ovunque tu vada, o Signore, sia che tu ti rechi nelle foreste, negli oceani, nei cieli o anche all’inferno. Se ti fa piacere ti accompagneremo”.
Rama acconsentì, dicendo: “Così sia”. Poi dispose che i suoi figli venissero incoronati. Lava e Kusha non potevano sopportare l’idea di separarsi dal padre, e si lamentarono a gran voce cascando a terra quando sentirono che Rama stava partendo. Rama li fece alzare gentilmente, e disse: “Cari figli, dovete rimanere sulla Terra per regnare con giustizia. Fate due capitali, una nei territori meridionali ed una a settentrione. Tenetemi sempre nei vostri pensieri, e guidate la gente con giustizia e compassione. Ci riuniremo certamente nel futuro”.
Lava e Kusha abbracciarono il padre e partirono per i loro rispettivi regni, poi noti come Kushavati e Sravasti, portandosi dietro immense ricchezze.
Dopo che furono partiti, Rama si mise delle vesti di pura seta bianca, e si preparò a lasciare Ayodhya. La mattina seguente fece prendere ai bramini il fuoco sacro dal palazzo e procedette con loro verso la foresta. Rama era seduto su di un grande cocchio d’oro che si muoveva lentamente, ed era preceduto da Vasishtha che recitava gli inni del Sama Veda. Coloro che avevano una visione divina potevano vedere ai sui fianchi la dea Lakshmi e Bhumi, e davanti a lui il potere personificato della determinazione, e attorno a lui tutte le armi nella loro forma umana. Rama era seguito dai Veda nella forma di bramini, e da Gayatri e dalla personificazione di Omkara, la sillaba divina su cui meditano sempre i grandi Yogi.
Seguirono tutte le donne del palazzo, accompagnate da Bharata e Shatrughna, e folle di asceti che cantavano Mantra vedici. Poi veniva il popolo, diviso secondo le sue classi. Seguivano centinaia di migliaia di Vanara, Rakshasa ed orsi, e perfino gli uccelli e gli animali lasciarono la città di Ayodhya. La processione si diresse a occidente, verso le rive del fiume Sarayu.
Ayodhya rimase completamente deserta.
Nel viaggio Rama incontrò per l’ultima volta Hanuman per dirgli addio. Lo abbracciò e gli disse: “Hai deciso di rimanere sulla Terra. Adesso mantieni la tua parola”.
Hanuman rispose: “Io sarò sempre in tua presenza ascoltando le narrazioni della tua gloria, o Signore, e resterò su questa Terra fintanto che questi canti saranno vivi”.
Rama chiese ad altri due Vanara, Mainda e Dwivida, di restare, e lo chiese anche a Jambavan, il re degli orsi. Tutti si inchinarono a Rama dicendo: “Così sia”. Poi Rama si incontrò con Vibhishana e gli disse: “O grande Rakshasa, rimani a governare la tua gente, e il tuo regno durerà fintanto che il sole e la luna resteranno in cielo. Adorate sempre Vishnu nella sua forma di Jagannatha, la divinità che presiede gli Iksvaku” Vibhishana accolse l’ordine prostrandosi a terra, e poi partì per Lanka.
Rama proseguì col suo grande seguito, e seguì la riva del fiume Sarayu fino a dove confluiva nel Gange, poi seguì la riva di quel sacro fiume finché raggiunse le montagne da cui sorgeva. In quel punto, dove si poteva trovare una strada per il cielo, apparvero milioni di cocchi divini. Si videro tutti i Deva, con Brahma al loro capo, e si sentiva una musica paradisiaca suonata dai Gandharva, mentre i fiori cadevano dal cielo.
Vishnu apparve in cielo sulla groppa di Garuda. Tutti poterono vedere Rama e i suoi due fratelli che entravano nella forma di Vishnu, mentre i Deva lo lodavano. Tutte le creature presenti avevano Rama nei loro pensieri, e lasciarono il corpo mortale entrando nella loro eterna forma spirituale. I Deva li videro salire sui cocchi celesti, verso la dimora incorruttibile di Rama nel mondo spirituale. Tutta la città di Ayodhya andò con Rama.Colpiti da questa visione senza precedenti, Brahma e i Deva tornarono alle loro dimore, lodando Rama in cuor loro. La sua missione era compiuta.
JAYA SRI RAMA