Ho un’immaginazione portuale.
Sono tante le cose che mi fanno battere il cuore – foto ingiallite, poesie, canzoni, scene di film – e quasi tutte mostrano o raccontano di banchine, navi, dock, balle di cotone, container, gru, uccelli marini.
Sono nata in una grande città polverosa, all’ultimo piano di una clinica nota come l’Ospedale greco, a due passi da un porto. Un porto famoso, dove la Storia ha fatto scalo a più riprese e con gran clamore; nel corso dei secoli vi ha compiuto strane incursioni, seguendo una rotta apparentemente casuale.
Un porto che ha conosciuto la gloria e l’oblio, un punto cardine, alla confluenza di tutte le strade. Lì è nata Cleopatra (qualche anno prima di me, tengo a precisarlo), e per millenni la sabbia delle spiagge ha restituito monete di ogni sorta, levigate dall’acqua, dalla salsedine e dal vento.
Un giorno mia madre ha chiesto a un gioielliere armeno di infilare le monete che aveva raccolto come fossero perle; oggi a volte mi capita di indossare quell’insolita collana in cui predomina l’argento (solo una moneta è d’oro – l’oro è più raro, più fragile – e quattro o cinque sono di rame annerito). Guardandole a una a una, ci si accorge che non tutte le figure si sono cancellate: profili, elmi, simboli di civiltà scomparse, che forse vogliono tramandarci storie di soldati o di marinai annegati, assopiti, depredati, naufragati, dimenticati.
Una filastrocca muta, che mi fa venire i brividi.
Sono nata ad Alessandria d’Egitto, sull’altra riva del Mediterraneo. Non ho deciso di scrivere per dar sfogo alla nostalgia. Soltanto i luoghi riescono a scatenare dentro di me tempeste violente, ma la nostalgia è un sentimento che non amo coltivare.
Sono una persona pratica, con i piedi per terra.
All’inizio degli anni Quaranta, quando ero una bambina, avevo di fronte un intero universo da scoprire. A quell’età è così per tutti, ma lo spettacolo offerto da una civiltà moribonda ha in sé qualcosa di disordinato, di incongruo, di elegante. Il coesistere del vento della Storia e dei segni precursori della modernità, l’odore di putrefazione, la lebbra che corrode i muri, i fiori selvatici che spuntano alla rinfusa, le risate libere e impertinenti, l’allegro fatalismo non avevano certo bisogno di parole per lasciare il segno nella fantasia di un bambino.
Di quell’epoca felice, un’immagine si staglia sulle altre: quella del luogo dove mi piaceva particolarmente andare in gita. Ci arrivavamo in macchina. Venti, trenta chilometri di strada lungo i binari del vecchio tram che, partendo dalla stazione di Ramleh, giungeva a Rosetta. Il treno dei poveri. Noi invece ci spostavamo in Chevrolet. Eppure nei miei ricordi era un tragitto lungo: carretti, cani, bambini, ceste di verdura.
All’arrivo, un’ampia insenatura ad arco esposta ai quattro venti. La baia di Abukir.
L’insenatura aveva più o meno la forma di un amo, sulla cui punta si ergevano le rovine di un forte.
Nella foto si vedono la curva indolente della costa, la distesa di sabbia e, qua e là, qualche scuro spuntone di roccia, su cui poggiano piccole piattaforme di legno. Bar, ristoranti (se così si possono chiamare...). Sebbene la fotografia risalga a un’epoca di gran lunga precedente ai pomeriggi della mia infanzia, tutto è esattamente come lo ricordo. Il tram si ferma in una stazione rumorosa a pochi metri da lì; noi parcheggiamo la macchina accanto a una scarpata, lasciamo la chiave a un «guardiano» guercio o monco e raggiungiamo la spiaggia percorrendo un sentiero sporco, talora fangoso. L’impressione predominante è quella di una quiete sorniona. Silenzio; il mare lappa lentamente la sabbia.
«Va’ a scegliere i ricci» diceva mio padre.
Sceglievamo i ricci; se non ce n’erano abbastanza, chiedevamo a uno dei ragazzi che gironzolavano attorno ai tavoli di andare a pescarne altri. Dieci, dodici, venti. Se il ragazzo era sordo o sordomuto, ci spiegavamo a gesti. Dopo pochi minuti era già di ritorno, grondante d’acqua, con in mano un paio di forbici arrugginite e un limone.
Ringrazio il cielo per avermi fatto vivere, tanto tempo fa, quei lunghi pomeriggi in un posto dimenticato, silenzioso, tra ricci di mare e forbici arrugginite.
Ben presto sono venuta a sapere da mio padre che quel luogo racchiudeva una storia piena di rumore e di furore. È stato lui a raccontarmi la battaglia del 1° agosto 1798. In seguito, grazie a tutta una serie di letture in cui mi sono imbattuta per caso, i particolari di quella battaglia navale sono andati accumulandosi nella mia memoria. Una memoria sempre attenta, che si risvegliava come un animale curioso non appena qualcuno parlava di armi e di guerra. Provo ancora un certo imbarazzo a raccontarlo: una bambina che indossava vestitini tutti ricami e svolazzi, costumi da bagno lavorati all’uncinetto dalla tata, e che poi conosceva a menadito la differenza tra i cannoni da 36 libbre e quelli da 32, era in grado di dire se erano caricati a palle, a granate o a mitraglia, e se, per sincronizzare i tiri, erano necessari due o tre uomini.
Mi ci è voluto poco per capire che non erano molte le bambine a cui piacevano le battaglie navali, e così ho sempre evitato di fare sfoggio delle mie conoscenze in ambito marittimo e militare. Era una passione inspiegabile, che non si accompagnava né a un’indole violenta né alla volontà di ottenere da simili nozioni chissà quale profitto. Avevo accumulato quelle conoscenze da autodidatta, senza una ragione precisa, e senza nessun interesse o scopo particolare. Non si addicevano né a una bambina degli anni Quaranta né alla donna che sono diventata in seguito.
Ancora oggi tendo a tenerle segrete. Mi fanno compagnia.
Per via dei pomeriggi trascorsi nella baia di Abukir, dei ricci di mare, dei tramonti contemplati in silenzio, mi sono ritrovata spesso a sognare davanti alle riproduzioni delle battaglie navali esposte nei musei di mezza Europa e mi sono lanciata (benché non sia il mio mestiere) nella traduzione di Salammbô, il più roboante e sanguinolento dei romanzi che avessi sotto mano; un’impresa tanto ardua e terrificante da lasciarmi senza fiato alla fine di ogni pagina.
Se si vuole davvero capire, non basta osservare quegli scontri nei quadri, più o meno famosi, che li raffigurano. Solo l’immaginazione ci permette di vedere e sentire quel che accadde in una notte d’estate nella baia di Abukir: l’insenatura – la rivedo immersa in una luce soffusa – messa a ferro e fuoco da una serie di eventi straordinari. Come si fa, in una buia notte d’agosto, a sparare colpi di cannone, a schierare le navi, a coordinare i comandi, a far sì che i vascelli di una stessa flotta non si distruggano a vicenda, quando non è possibile comunicare da un bastimento all’altro, quando le fiamme ondeggianti delle torce sono l’unica fonte di luce? Quando non si sa chi sia ancora vivo, chi già ferito a morte, chi finito in mare?
L’immaginazione mi permetteva allora di sentire persino le grida, gli orrendi scricchiolii, il fragore delle esplosioni. Col passar del tempo ho capito che, più di tutte le altre, le battaglie navali sono un simbolo tragico. Tutta quella perizia, tutti quei tronchi d’albero accatastati sulle chiatte e convogliati verso i cantieri, le migliaia di ore di lavoro di abili artigiani, tutto quel coraggio. Bruciati, affondati in poche ore. Senza scopo.
Seduta sulla sabbia della baia di Abukir, strizzando un poco gli occhi, vedevo avanzare quelle creature imponenti dai nomi belli e terribili: Guerrier, Peuple-Souverain, Aquilon, Tonnant, Heureux... e poi la più grande di tutte, la meglio armata (ben milleduecento uomini), L’Orient. Era saltata in aria alle undici, in piena notte.
Mi chiedo se quella sera c’erano dei contadini o dei beduini seduti sulla spiaggia, come me da piccola. Mi chiedo che aspetto avesse quella spiaggia il giorno dopo. Quando le onde hanno ricominciato a lapparla lentamente.
Verso la fine di marzo, puntualmente, mia madre cominciava a dare inequivocabili segni di insofferenza.
«... è troppo umido. C’è un vento appiccicoso. Per la piccola questo clima è deleterio».
Sapevo benissimo di essere un alibi. Bisognava assolutamente portare «la piccola» a respirare l’aria buona e fresca dell’Europa. La Svizzera, ah, la Svizzera! Al solo ricordo le tremava la voce. Non c’era niente di meglio della Svizzera per la sua adorata figliola. O al limite l’Austria, o il Sud della Germania. I prati, le margheritine, la frescura notturna, il Birchermüesli a colazione. A quel punto interveniva mio padre con aria distaccata:
«Ma c’è la guerra!».
In effetti era un’ottima ragione per starsene tranquilli nella casa con il terrazzo che si affacciava sullo Sporting Club.
Per tutta risposta, un sospiro. D’accordo, c’era la guerra. Ma una soluzione si sarebbe potuta trovare comunque. Le navi della compagnia Adriatica continuavano a salpare due volte al mese dal porto di Alessandria dirette a Genova, Napoli o Venezia.
«... ci sarà anche la guerra, noi però siamo italiani!».
«... tu no, tu hai il passaporto britannico...».
La madre con il passaporto britannico (che in vita sua non aveva mai messo piede in Inghilterra e non prestava molta attenzione alle forze militari in campo) finiva allora per rassegnarsi a trascorrere l’estate a casa.
In fin dei conti quelli furono anni indimenticabili per tutti.
Ben presto la situazione si aggravò. Il padre «italiano» dovette rifugiarsi nel delta del Nilo per evitare di essere rinchiuso in un campo di concentramento inglese. Lì trascorse anni bellissimi, indossando galabeya bianche e dormendo in abitazioni di paglia e fango. Beveva il tè con i contadini, rideva insieme ai ragazzi, ascoltava gli uomini raccontare storie banali (sempre le stesse da millenni), mangiava in gavette ammaccate, vedeva crescere sotto i suoi occhi esperti le piante di cotone.
La madre «inglese» aveva scoperto invece quella libertà di cui a volte, per un tempo limitato, si può godere ai margini della Storia. La città si era riempita di soldati britannici e ogni giorno si sentivano provenire da ovest, dalle parti di Marsa Matruh e di El Alamein, i boati delle bombe; lei guidava l’autoambulanza e aveva amici alla mensa ufficiali. I giovani che vanno a combattere oltremare diventano sentimentali. E così quei ragazzi trascorrevano le serate a recitare poesie con una birra in mano, o a cantare antiche ballate, con la voce roca e gli occhi appannati. Alcuni giovani intellettuali, appena usciti da Cambridge o da Oxford, si ritrovavano insabbiati, con indosso un’uniforme, in una città orientale fiacca e ammaliante, proprio nell’età in cui avrebbero dovuto cominciare a condurre una vita ordinata sotto un cielo grigio. Per loro fu come una vacanza insolita e pericolosa.
Mia madre diventava sempre più bella. Di quei mesi, di quegli anni di gioie insolenti, restano soltanto qualche fotografia e qualche libro rilegato, sopravvissuti, insieme a poco altro, alla furia distruttrice che si sarebbe impadronita di lei nei suoi ultimi giorni di vita. Ho conservato una raccolta di poesie di Rupert Brooke (secondo Yeats, l’uomo più bello di tutta l’Inghilterra, morto al largo di Skyros a ventisette anni, a bordo di una nave della Royal Navy: è molto probabile che uno dei giovani ufficiali di stanza in Egitto lo considerasse un eroe). Il libro è rilegato in pelle blu e ha il taglio dorato. Si apre con una dedica infuocata, e una delle poesie è sottolineata:
Oh! Death will find me, long before I tire
Of watching you...
Quanto a me, ebbi modo di mettere a frutto gli anni della guerra: imparai il greco dalla tata Magda, l’arabo da Mohammed, il tuttofare di casa, il ricamo da una sarta armena, la pesca al traino da un cugino che non aveva superato la maturità, la danza classica da una mitomane russa (oltre che rossa), le tecniche di allevamento dei bachi da seta da Myriam, una bambina che abitava vicino a casa nostra. Dimenticavo: di sera venivano a tenermi compagnia Napoleone e Nelson. E a letto leggevo Il medico per forza, che mi faceva ridere a crepapelle.
L’esistenza, all’interno di una stessa famiglia, di passaporti provenienti da luoghi diversi non era una nostra prerogativa. La maggior parte dei miei cugini ne possedeva anche altri (tedeschi, spagnoli, svizzeri – questi ultimi erano considerati il massimo dello chic) e la cosa era a tal punto normale da non costituire, fra noi, un argomento di conversazione. Quei documenti, assolutamente privi di significato simbolico, non riflettevano una storia antica e non erano neppure la testimonianza di radici ben precise. Il fatto di avere un passaporto serviva semplicemente a distinguerci dal popolino egiziano, che ne era sprovvisto. In seguito sono venuta a sapere che ottenere un passaporto italiano non era difficile, bastava pagare; per quelli francesi, invece, la faccenda era un po’ più complicata; gli inglesi, infine, facevano un sacco di storie e, prima di rilasciarne uno, esigevano di avere delle prove. Il che conferiva al passaporto britannico di mia madre un indubbio valore.
Ad ogni modo, capii ben presto, diciamo intorno ai nove, dieci anni, che appartenevamo a una società ristretta che parlava francese, abitava in palazzi vagamente haussmanniani o decisamente Art déco e amava la Francia in maniera esagerata e ossessiva. I membri di questa società coglievano ogni occasione per imbarcarsi sulle navi che facevano rotta «verso l’Europa». Lì si dedicavano a occupazioni più o meno poetiche, per tornare poi, solitamente in autunno, al porto di Alessandria. Portandosi dietro una gran quantità di bagagli e non di rado una macchina nuova fiammante che, imprigionata nelle maglie di una robusta rete, veniva depositata sulla banchina con mille precauzioni, accolta dagli sguardi ammirati e dalle osservazioni pedanti di un piccolo assembramento.
Risale, credo, allo stesso periodo la sensazione che tutto fosse provvisorio, per noi, per gli altri, per l’umanità intera. Inutile fare tante storie, alcuni erano più esiliati di altri, eppure si adattavano di buon grado a quell’idea, altri invece sentivano il bisogno di fabbricarsi e coltivare delle illusioni di appartenenza: era una faccenda complessa e delicata, tanto valeva quindi non pensarci.
Se l’idea di «nazionalità» era vaga, i concetti di ricchezza e povertà non lo erano di meno. Noi eravamo ricchi, ma consapevoli del fatto che si trattava di un caso fortuito. La ricchezza non era il risultato di un lavoro encomiabile, di affari oculati o di un talento particolare; e neppure la ricompensa di una virtù, né uno stato definitivo capace di garantire un futuro agiato: vantarsi del proprio benessere sarebbe stato ridicolo, usarlo come strumento di potere, vergognoso.
L’equilibrio era precario.
I corsi delle valute oscillavano per ragioni che non ho mai sentito definire economiche; intere fortune andavano in fumo; carriere brillanti finivano miseramente dall’oggi al domani. C’era chi metteva al sicuro i propri beni nei forzieri svizzeri, ma si trovava poi costretto ad assumere comportamenti da cospiratore: con il passare dei mesi la sua vita diventava sempre più complicata, perché non poteva spendere allegramente il denaro di cui si era privato per investirlo in un ipotetico futuro.
Molto tempo dopo ho capito che l’atteggiamento verso il denaro degli adulti che mi circondavano corrispondeva, per certi versi, a una sorta di diffidenza o di disprezzo nei confronti del capitalismo. Il legame, così evidente nel mondo occidentale, tra lavoro, merito, successo sociale da un lato, e denaro dall’altro, per loro non sussisteva, non aveva alcun senso.
E non si trattava né di una posa né di una scelta ideologica. Bensì di un impulso naturale che mi ha profondamente segnata e della cui eccentricità mi resi conto solo quando entrai nel cosiddetto mondo del lavoro.
Il fatto di non nutrire per i ricchi una speciale forma di considerazione non significava che i poveri fossero necessariamente degni di stima e reverenza. C’erano altrettanti mascalzoni tra i poveri che brave persone tra i ricchi.
Vivevamo circondati da mendicanti. Giovani e vecchi, più o meno storpi. Quando era possibile, assegnavamo loro varie incombenze, vere o presunte, per far sì che si guadagnassero da vivere lavorando, anziché passare il tempo a chiedere l’elemosina. Venivano promossi guardiani di qualunque cosa (soprattutto di macchine parcheggiate), oppure addetti alla consegna di pacchi, alla pulizia dei marciapiedi, o ancora lustrascarpe, messaggeri, fioristi improvvisati, aiuto cuochi, o magari incaricati di lavare i vetri, stirare le tende, raccogliere le foglie morte.
Ce n’era uno, sempre appostato all’angolo della nostra strada, che non poteva fare davvero nulla: sistemato su una minuscola pedana di legno montata su ruote altrettanto minuscole, guercio, senza gambe, tendeva ogni mattina l’unica mano che gli era rimasta all’estremità del suo unico braccio. Devo a lui la cocente umiliazione che provai il giorno in cui obiettai a chi mi invitava a dargli una moneta: «... ma ha ancora un braccio e un occhio», come a dire che forse avrebbe potuto fare qualcosa anche lui.
Mi sembra ancora di sentire le battute sarcastiche, le risate, il suono secco della parola «avara»: il peggiore degli insulti nel nostro lessico familiare.
All’inizio degli anni Cinquanta, intorno a me, si cominciò a parlare sempre più spesso del canale di Suez che, nelle conversazioni di tutti i giorni, veniva chiamato confidenzialmente «il Canale». La questione suscitava non poche preoccupazioni, espresse però con pacatezza.
«Come andrà a finire la storia del Canale?».
«Vogliono assicurarsi il controllo del Canale?».
«Che cosa faranno francesi e inglesi, difenderanno il Canale?».
«I russi vogliono impossessarsi del Canale?».
Quelle domande, che pure si erano fatte insistenti dopo la deposizione del re (era turco, o albanese, o entrambe le cose: poco importa), non avevano mai un tono tragico.
A undici o dodici anni andai, con le mie compagne di scuola, a vedere il famoso Canale; ci accampammo nelle vicinanze; penso che fosse una gita scout, con tanto di gonna blu e fazzoletto intorno al collo. Il Canale non mi colpì in modo particolare e non sapevo granché della sua storia né dell’importanza pressoché mitica che rivestiva per il paese in cui ero nata.
Quasi senza volerlo, a furia di comprare qua e là fotografie dell’Oriente alla fine dell’Ottocento, ho raccolto una vasta collezione di immagini del Canale. Guardandole, si ha subito un’idea di ciò che la creazione di quel varco dovette rappresentare per gli equilibri politici e commerciali. Quella breccia aperta verso l’Asia e il Pacifico, che stravolgeva le distanze e di colpo dava accesso ad altri oceani, mutò radicalmente la visione geografica degli occidentali.
Ferdinand de Lesseps e le autorità francesi avevano imposto agli inglesi la costituzione della Compagnia universale del canale di Suez che, pur salvaguardando gli interessi delle due grandi potenze coloniali, riconosceva all’Egitto il controllo di una parte considerevole dei profitti. L’equilibrio si ruppe quando il khedivè, che aveva dilapidato somme molto superiori ai ricavi che ne traeva (e non si era preoccupato di «investire» -- termine così incongruo da apparire comico – nello sviluppo del paese), rivendette le sue azioni, quasi di nascosto, al governo inglese. Ebbe così inizio il controllo inglese sul Canale, fondato peraltro sulle conoscenze innate del popolo britannico in ambito marittimo, mercantile e militare.
I lavori di costruzione, e l’apertura e l’inaugurazione del Canale nel 1869, furono seguiti giorno per giorno dalle capitali europee. L’India diventava accessibile. L’Estremo Oriente pure. Potevano nascere nuove colonie. Per scali strategici come Aden era l’inizio della prosperità.
Rimbaud, Conrad, Monfreid e tante altre teste calde videro le dune costiere sfilare ai due lati delle navi su cui si erano imbarcati, e sentirono il sole impietoso arroventare i ponti. Il numero di imbarcazioni in transito aumentava, l’afflusso dei viaggiatori era continuo. Gli uffici postali nuovi di zecca di Porto Said, Ismailia e Suez prosperavano: ogni giorno gli europei che facevano scalo in quelle città imbucavano cartoline, lettere commerciali, biglietti d’amore. Esprimevano i sentimenti confusi di chi si appresta a cominciare una nuova vita, segnata da quel passaggio stretto e arido, come un lungo corridoio. L’eccitazione di fronte alla prospettiva dell’avventura, il timore di voltare le spalle a un mondo noto e protettivo, la consapevolezza che da allora in poi niente sarebbe stato più come prima.
A quel tempo la fotografia cominciava a muovere i primi passi. A partire dal 1860 circa molti fotografi, per lo più di origine europea, si stabilirono in Egitto. Sperimentavano nuove tecniche. La stampa su carta albuminata, così precisa nella definizione dei dettagli, così bella nelle sue tonalità color seppia, permetteva inoltre all’autore di incidere a mano la propria firma prima che la foto fosse completamente asciutta.
Francis Frith, Félix Bonfils, Pascal Sebah, Antonio Beato, i fratelli Zangaki hanno fotografato con amore il Medio Oriente. Ad attirare la loro attenzione era in primo luogo il Canale. Ci hanno lasciato migliaia di scatti che lo raffigurano. Sono sicura che tutte le navi che entravano a Porto Said hanno avuto l’onore di un ritratto. A volte sia di fronte sia di profilo. A volte ormeggiate accanto a cartelli inclinati su cui campeggiava la scritta «Gare Limite Sud» o «Gare Limite Nord». Osservando quelle immagini, si ha l’impressione che l’acqua sia piombo fuso. In alcune si intravedono piccole imbarcazioni che accompagnano i bastimenti. Spesso una figura esile, presa di spalle, li guarda passare e, con la sua sola presenza, ne fa risaltare le dimensioni imponenti.
Quei pionieri fotografavano le navi in transito con la stessa solennità con cui avrebbero fotografato una coppia di novelli sposi. Per preservare il ricordo di un giorno unico.
Una mattina di quindici anni fa, da un rigattiere nei pressi di Avignone, trovai ad attendermi, dentro una scatola da scarpe, una cartolina. Raffigurava la sede della Compagnia a Porto Said: costruito direttamente sulla banchina, l’edificio sfoggiava imponenti arcate su ciascuno dei due piani e tre cupole rivestite di lucide tegole decorate con motivi arabeggianti. Una minuta scrittura chiara occupava tutto lo spazio a disposizione, sia sul fronte sia sul retro; a occhio nudo risultava praticamente illeggibile.
Quella sera stessa, grazie a una lente di ingrandimento, riuscii a decifrare il testo:
1° scalo. Porto Said, 9 febbraio 1914
Monsieur A. Andrau, Ispettore scolastico
Rue Ferrer. Albi (Tarn)
«Cari fratelli e sorelle,
«ho scritto una lunga lettera ai nostri genitori, con la raccomandazione di farvela avere. Ma voglio mandare direttamente a tutti voi, grandi e piccini, i miei baci più affettuosi, inviandovi tre cartoline dal nostro primo scalo, Porto Said, dove attraccheremo domani alle due del mattino. La nave farà solo una breve sosta di quattro ore, per rifornirsi di carbone. Dunque non scenderemo a terra. Sebbene Porto Said non meriti di essere rivista, è comunque una seccatura. Stavolta però il disagio è minore, dal momento che il mare è stato calmo e tranquillo come non mai, e non ci ha causato nessun disturbo. Tutt’altro.
«Benché angosciatissimi per aver dovuto lasciare tante persone care, cerchiamo di farci coraggio e di non abbandonarci allo sconforto per la grande lontananza!! Ma ogni sussulto delle macchine è un balzo in più verso l’esilio e ci fa tremare!
«State bene e fatevi forza.
Vostra sorella Léo».
Il giorno dopo tornai dal rigattiere per cercare di mettere le mani sulle altre due cartoline. Invano. Non saprò mai perché Léo e la persona che l’accompagnava (il marito, il figlio?) tremavano di angoscia a ogni sussulto delle macchine, perché Léo attraversava il Canale per la seconda volta, né dove era diretta: a Gibuti, all’isola della Riunione, o forse in Indocina? Ad Albi doveva essere successo qualcosa che, inesorabilmente e contro la sua volontà, l’aveva costretta a prendere la via dell’esilio.
Léo (Léonore o Léonie...) non nascondeva i suoi timori riguardo all’avvenire. Circa quattro mesi dopo sarebbe stata decretata la mobilitazione generale. L’epicentro di tutti i pericoli si sarebbe spostato dall’Oriente all’Europa. La Storia aveva deciso di spopolare le tranquille province francesi. Che ne è stato di suo fratello, l’ispettore scolastico? Si sono mai più rivisti?
E coloro che hanno disperso le tracce commoventi di quelle vite, dando via le cartoline di Léo Andrau, le avevano lette prima di sbarazzarsene?
A partire dall’inizio degli anni Cinquanta sul nostro futuro si addensarono nubi sempre più scure. Non riuscivano, però, ancora a offuscare la vita di tutti i giorni. I viaggi estivi, in nave, verso Napoli, Genova o Marsiglia, erano ricominciati. Mia madre aveva un concetto molto ampio delle vacanze estive: per lei, iniziavano a marzo o ad aprile e finivano intorno al 1° ottobre, appena in tempo per la riapertura delle scuole. Non penso di aver mai terminato un anno scolastico, se non durante la guerra. Il terzo trimestre veniva regolarmente cancellato dalle nostre esistenze.
A parte la Svizzera – la meta preferita da mia madre, sia per ragioni affettive, sia perché dal punto di vista paesaggistico era agli antipodi dell’Egitto –, scoprimmo un porticciolo della Costa Azzurra che subito ci ammaliò. A quell’epoca Antibes era incantevole e sembrava fatta apposta per piacermi.
Era la Francia. Ma una Francia mite, mediterranea, luminosa. C’era la Grand-Place, accecante di sole e colori, coperta dai tavolini dei caffè e senza nemmeno un mendicante (cosa che mi parve il colmo dell’esotismo). C’erano i bastioni: dall’alto di quelle mura potevo contemplare il mare in lontananza e immaginare – come al solito in gran segreto – le flotte nemiche avvicinarsi o i bastimenti sapientemente imbozzati in modo da poter cannoneggiare con precisione la città fortificata. C’era un porto, piccolo ma ben protetto, dominato da un forte, il Fort Carré.
Lungo la strada che scendeva verso il porto, sul marciapiede di sinistra, dentro un negozietto di un azzurro slavato, esercitava la sua attività un barbiere. Si chiamava Jean-Louis e a me sembrava vecchissimo, diciamo sui cinquanta. Se ne stava per lo più senza far niente: penso che non avesse molti clienti e che il suo «salone» fosse, perfino per quegli anni, troppo piccolo e antiquato; ad ogni modo, non avendo nessuno che lo aiutasse, non avrebbe potuto occuparsi di più di un cliente per volta.
Dedicava gran parte del suo tempo a sistemare la vetrina del negozio, dove, in cestini distinti, aveva ammucchiato conchiglie, cavallucci marini, ricci e stelle di mare. L’assortimento non era molto vario: proveniva dalle reti dei pescatori rientrati in porto la mattina. Non ho mai sentito Jean-Louis dire di aver raccolto personalmente qualcuno di quei tesori. In compenso, mi insegnò come farli seccare nel modo più appropriato, come verniciarli all’occorrenza, come far svanire quel delizioso odore di marcio che a me non aveva mai dato nessun fastidio.
Col tempo eravamo diventati amici. Di pomeriggio passavo a trovarlo, lui mi regalava un cavalluccio marino o una conchiglia, e a volte io insistevo, come mi aveva raccomandato di fare mia madre, per pagarglieli o per offrirgli un croissant.
Era contento delle mie visite, ma non lo dava a vedere.
Quando, per spiegare a mia madre dove andavo, le dicevo che non potevo lasciarlo solo, lei accennava un sorriso. Un giorno la sentii fare un commento che mi colpì come una mannaia:
«Dev’essere dura la vita per un pederasta in una città così piccola».
Lì per lì pensai a una malattia. Poi andai a documentarmi sul Larousse. Quanto alla difficoltà di amare gli uomini in una cittadina di provincia dei primi anni Cinquanta, arrivai a capirla da sola. Finalmente riuscivo a spiegarmi lo scarso numero di clienti, le smorfie ammiccanti e talora beffarde dei pescatori che gli portavano cavallucci marini e stelle di mare. E capii anche perché il suo sguardo dolce e spento, a volte, si illuminava. Per brevi istanti.
Spesso andavamo a pranzo o a cena in un ristorante sulla Grand-Place. Thérèse, che serviva la clientela muovendosi a zigzag fra i tavoli, gestiva il locale da sola. Il suo modo di incedere, la sua statura, la sua forza erano straordinari. Era capace di sollevare i tavoli e di reggere enormi vassoi senza tradire il minimo sforzo. Impartiva gli ordini con il sorriso sulle labbra. Perentoria e gentile al tempo stesso.
La mia passione per la ratatouille, una novità assoluta per me, veniva puntualmente soddisfatta. Quando mi alzavo da tavola Thérèse non mi faceva mai mancare un bacio sulla guancia, prolungato e autoritario. Mi piaceva, ma avrei voluto che la smettesse di tingersi i capelli di nero e che facesse qualcosa per quei baffi che la imbruttivano.
Intuii che era in un certo senso l’esatto corrispettivo di Jean-Louis. Ciò che rendeva diverso Jean-Louis, e che era la causa della sua solitudine, rendeva diversa anche Thérèse. A furia di osservarla, un giorno dopo l’altro, notai che i suoi sguardi non erano quasi mai rivolti agli uomini, che trattava con una professionale ma distaccata cortesia. Intuii anche che quella di Thérèse era una particolarità con cui era meno difficile convivere; il che mi fu confermato, sbrigativamente, da mia madre:
«Sì, è meno grave».
La prima estate, dopo aver trascorso qualche giorno in albergo, decidemmo di trasferirci in un appartamento di boulevard Albert-1er.
La proprietaria era un’anziana signora che avevamo soprannominato generale Kutuzov: in effetti, avendo sposato in gioventù un russo bianco di buona famiglia, portava un cognome russo, che suonava vagamente aristocratico e mal si conciliava con quel suo aspetto da vecchia meridionale in ciabatte. Rimasta vedova, aveva comprato un grande appartamento di cui affittava, per periodi della durata di un mese, la parte meglio esposta. A noi dava due stanze, il salotto e un bagno; per sé teneva ovviamente la camera da letto e la cucina.
Chissà perché mia madre, che era insofferente a qualunque tipo di disciplina e non aveva all’epoca problemi di soldi, aveva deciso di vivere insieme a una sconosciuta, peraltro così ingombrante. Il generale, infatti, aveva anche altre stranezze: ogni due o tre minuti un tic, accompagnato da una sonora inspirazione nasale (che si sentiva da lontano), le deformava i tratti del viso; aveva poi una passione maniacale per i rimedi naturali, in particolare per la produzione casalinga dello yogurt. Occorreva seguire un metodo rigoroso e complicato, che lei mi spiegava con aria saccente: la conservazione dei fermenti, la temperatura del latte, prima caldo poi tiepido, l’utilizzo di uno strofinaccio per coprire i vasetti, i tempi da rispettare per ottenere i risultati migliori.
Il generale Kutuzov dedicava ogni giorno almeno un’ora e mezza alla produzione dei sei yogurt che avrebbe mangiato l’indomani.
Al culto dello yogurt fatto in casa si andava ad aggiungere quello dell’aglio, considerato come la panacea di tutti i mali. E fin dalle prime luci dell’alba l’odore intenso di tre o quattro spicchi d’aglio, pelati religiosamente a uno a uno, si diffondeva in cucina e nel corridoio.
Ad Antibes le mattine d’estate erano splendide. Ci vestivamo in fretta e furia e sceglievamo fra tre diverse opzioni: Antibes, Cap d’Antibes o Juan-les-Pins. Quest’ultima era la mia meta preferita: prendevamo lo Chemin des Sables, che attraversava l’istmo e all’epoca era stretto e fiancheggiato da fiori e alberi profumati. Venivo pervasa da una sensazione di gioia e tranquillità. Con i sandali ai piedi e il naso per aria, a volte cantando, raggiungevamo spiagge già abbastanza frequentate, ma non ancora affollate e chiassose.
Fu su una di quelle spiagge che un giorno sentii due uomini, alle mie spalle, parlare di mia madre. Mi giunse all’orecchio una parola barbara. Per precauzione, quando lei tornò dal bagno, non dissi nulla. Dovetti aspettare la sera, con lo stomaco serrato, prima di poter controllare il significato di quel termine; per non dimenticarlo me lo ripetei più volte nel corso della giornata.
Quando finalmente riuscii a verificarne il senso, fui così sollevata che scoppiai a ridere. Ma certo, ta-na-gra, benché suonasse aggressivo, non era un insulto né una parolaccia. Ma certo, mia madre era una vera e propria tanagra: piuttosto minuta, molto ben proporzionata, con la vita stretta e le gambe lunghe. Per puro caso i due uomini, vedendola per la prima volta in vita loro, avevano pensato a una di quelle statuette muliebri alessandrine risalenti a più di duemila anni prima. E, senza saperlo, ci avevano azzeccato.
Dietro mia insistenza, andammo anche un paio di volte in pellegrinaggio a Golfe-Juan. Su una Dauphine gialla, una bella macchina dal profilo tondeggiante, guidata di malavoglia da una tanagra decisamente esasperata di fronte alla ridicola venerazione che stavo cominciando a nutrire per Bonaparte. Io, che di solito accettavo tutto senza fare una piega, mi impuntai e pretesi di essere condotta nel luogo in cui l’imperatore era sbarcato dopo l’esilio all’Elba.
Scendevo dalla macchina e, ferma sulla panoramica di Golfe-Juan, assumevo un’aria ispirata e pensierosa. Si trattava in realtà di una piccola messinscena a mio uso e consumo esclusivo: di fatto, se Napoleone e le sue campagne d’Italia e d’Egitto mi affascinavano al punto che a volte dormivo con il ritratto del giovane generale sotto il cuscino, tutte le imprese successive mi interessavano molto meno; fatta eccezione, però, per la battaglia di Austerlitz, sulla quale avrei potuto competere con qualsiasi altro fanatico.
A settembre di non ricordo più quale anno mio padre ci raggiunse. Era reduce da un viaggio di «affari» in Italia, e di lì a qualche giorno si sarebbe imbarcato con noi a Genova. Fu in quella circostanza, ascoltando una conversazione fra lui e mia madre mentre eravamo seduti ai tavolini di un locale, probabilmente il ristorante di Thérèse, che capii che il loro francese, anzi il nostro, non era corretto. Si distingueva da quello cantilenante del Sud, parlato dalla maggior parte dei clienti che sedevano agli altri tavoli. E si distingueva anche da quello parigino che avevo imparato a conoscere giocando in spiaggia con altri bambini. Avevamo un accento diverso, molto scandito, sonoro, con le «r» esageratamente arrotate. E in certe frasi spuntavano ora delle parole greche o italiane, ora delle espressioni arabe. Queste ultime servivano in genere a sottolineare una situazione stramba o un ricordo buffo.
Che senso aveva sognare la Francia e sentirsi così legati alla sua terra, se poi non riuscivamo a pronunciarne bene la lingua? Decisi che io non avrei mai parlato il francese all’orientale.
Come per miracolo, quando ricominciò la scuola, tutti notarono che avevo un bell’accento francese. Lo notarono anche i miei genitori, ma non sembrarono stupirsene.
Di tanto in tanto mi interrogavo su quella lingua di elezione. Quando l’aveva adottata, la mia famiglia? Il nonno di mio padre, a quanto pareva, era nato a Costantinopoli e aveva sposato una donna nata sull’altra sponda del Bosforo. Chissà che lingua parlavano tra loro. La mia nonna materna, rossa di capelli e con la carnagione bianchissima, diceva di essere spagnola e di essere nata a Ceuta. Quando le chiedevo se parlava spagnolo, mi rispondeva «un po’». Quando insistevo per sapere che lingua usava con i suoi fratelli, mi rispondeva «il francese», ma lo faceva controvoglia, impaziente di cambiare discorso. Il mio nonno materno, morto poco prima che nascessi io, era nato a Baghdad da padre angloindiano e da madre indiana: tra loro parlavano inglese? Perché e quando avevano abbandonato la loro lingua?
Provai a indagare un paio di volte, ma senza alcun successo. All’epoca non avevo né gli strumenti né la convinzione necessari per approfondire la questione.
Una visita ai cimiteri (ce n’erano svariati, l’uno accanto all’altro, di religioni diverse) in occasione della morte di uno zio mi indusse ad abbandonare definitivamente le ricerche. Cosa potevo aspettarmi da una famiglia che perfino sui suoi monumenti funebri scriveva sotto i bassorilievi ornati di fiori parole commemorative in varie lingue? E trasformava Henri in Enrico o Harry, e Filippo in Phil? Sì, proprio quello che l’adorata e affranta sposa Rosa o Rosy o Rosalie chiamava Fifi!
Sembrava di essere in una sala da tè della Belle Époque, con tutte le Nelly, le Loulou, i Domi, i Fifi, le Gaby, i Fred, le Peggy, le Nini che si salutavano da un tavolino all’altro. Quei diminutivi antiquati e interscambiabili erano l’ennesimo modo di superare i confini imposti dalle lingue e dalle nazionalità. Dopo essere stati accettati nei documenti ufficiali, si ritrovavano incisi, per una sorta di logica conseguenza, sulle steli di marmo bianco del cimitero ebraico, cattolico, ortodosso o di quello – tipicamente alessandrino – dei «liberi pensatori».
Quei ricordi incompleti, quelle ricostruzioni familiari dai contorni vaghi, quei racconti che non si contraddicevano mai tra loro ma che non arrivavano mai neppure a combaciare finirono per convincermi che avevo fatto la scelta giusta: era al francese, parlato in maniera corretta e sobria, che dovevo attenermi. Era quella la mia lingua materna.
La mia scolarizzazione (questo termine all’epoca non si usava) è passata per il collegio Notre-Dame de Sion di Alessandria d’Egitto, in rue d’Aboukir. Non stavo lì a convitto: pranzavo a scuola, poi nel pomeriggio un pulmino rosso guidato da un orco allegro con in testa un tarbush, rosso anche quello, mi riportava a casa.
Il lungo edificio a due piani, con un porticato e le finestre a ogiva, era circondato da un immenso giardino. Quel giardino occupa un posto di rilievo tra i miei ricordi, dal momento che lì ho trascorso molte ore. Dove la vegetazione si faceva più folta, e l’aria più umida, a volte si trovavano dei camaleonti; ne ricordo ancora uno piccolino, di colore verde scuro, con il casco e gli artigli simili a quelli di un animale preistorico, che ruotava gli occhi a destra e a sinistra, proiettava in avanti la lingua a scatti e procedeva lento come fosse un po’ drogato.
Facevo lunghe passeggiate da sola osservando i formicai, in attesa che finisse l’ora di religione (le alunne musulmane assistevano separatamente a un’ora di «morale»). Nella mia classe, composta ogni anno da una ventina di bambine cristiane di varie confessioni e da una decina di musulmane della buona borghesia egiziana, ero sempre l’unica «senza religione». Forse perché stufa delle mie escursioni solitarie, a nove o dieci anni decisi di farmi battezzare e cominciai a seguire anch’io, con il vivo interesse della neofita, quelle lezioni, che erano tenute sempre con molto tatto e senza autoritarismo.
Le suore erano adorabili, o almeno così me le ricordo. Dovendo accompagnare, dalla scuola materna fino all’ultimo anno delle superiori, un esercito di bambine che provenivano da ambienti e famiglie tra loro diversissimi, cercavano di comportarsi con tutte allo stesso modo e di mantenersi imparziali. Nastri e premi erano elargiti con tale prodigalità da non suscitare mai né invidie né gelosie. I professori venivano scelti dalla madre superiora, che aveva un fiuto infallibile. Di nessuno di loro mi è rimasta un’impressione sgradevole.
Verso i quattordici anni, grazie a un’insegnante bruttina ma con uno sguardo profondo, ci accostammo alla letteratura greca. A Omero. La professoressa aveva deciso di farci leggere l’Iliade in classe. Per prima cosa ci spiegò che l’intero poema trattava di un unico episodio della guerra di Troia, l’ira di Achille; su quel punto insistette molto: unità di tempo e di luogo, una cinquantina di giorni sotto le mura di Troia. Dovevamo avere un apposito quaderno, dedicato al riassunto dei vari canti, allo studio dei personaggi, alle famose similitudini (le considerava importantissime), agli dèi e alla mitologia.
Il primo canto mi turbò: quella storia di Achille che decideva di esporre i suoi al pericolo di una sconfitta perché Agamennone gli aveva sottratto la schiava amata mi parve assai scabrosa – soprattutto se letta ad alta voce davanti a una scolaresca di ragazze. Omero sosteneva dunque che un uomo poteva impazzire di dolore e rabbia perché un compagno d’armi gli aveva portato via una donna giovane e bella. «Piangendo», Achille chiamava in soccorso la madre e gli dèi, mentre Briseide, la bella prigioniera, lo lasciava «controvoglia», trascinata a forza nella tenda di un altro re. Mi veniva da ridere per l’imbarazzo, ma mi resi conto che ero l’unica.
Il secondo canto mi lasciò esterrefatta. La professoressa ci aveva detto che non eravamo obbligate a leggerlo tutto: in genere veniva considerato noioso. Era una lunga litania delle forze in campo, «il catalogo delle navi», come viene definito. Per curiosità, visto che parlava di guerra e di navi, me lo lessi tutto per conto mio, nonostante i suoi avvertimenti.
Ancora oggi la bellezza di quella rassegna di popoli, condottieri, luoghi, seguita dal numero preciso di navi di ciascun contingente, mi lascia senza parole. La forza che quell’elenco di nomi tramanda attraverso i secoli ha del miracoloso, ne sono convinta. Per la prima volta capii lo sconfinato potere della poesia. L’arte aveva il dovere di permettersi qualsiasi cosa. Essere menzionato da un poeta significava ottenere un lasciapassare per l’eternità:
Quelli di Argo, di Tirinto cinta di mura,
di Ermione ed Asine, poste su un golfo profondo,
di Trezene, Eione ed Epidauro ricca di vigne,
gli Achei che abitano Egina e Masete,
li guida Diomede ... e Stenelo ...
ma il capo di tutti è Diomede, possente nel grido di guerra.
Li segue una flotta di ottanta navi nere ...
È Odisseo il capo dei Cefalleni magnanimi,
che abitano Itaca e il selvoso
Nerito e Crocilea e l’aspra Egilipe,
e abitano anche Zacinto e Samo ...
li guida Odisseo, pari a Zeus per saggezza,
e ha una flotta di dodici navi dalle fiancate vermiglie.
Andava avanti così per centinaia di versi, come interminabili titoli di testa di un film, al contempo variopinti e austeri. Preparai uno schema accurato dei contingenti, dei comandanti e delle navi; mi sembra ancora di rivedere la faccia di quella povera insegnante che non sapeva cosa pensare di tanta inaspettata solerzia.
L’Odissea, che studiammo approfonditamente l’anno dopo, non mi fece lo stesso effetto. La lettura appassionò e divertì tutta la classe, ma il racconto mi parve molto più simile alle Mille e una notte, molto più «orientale», con tutte quelle situazioni piccanti e quegli episodi rocamboleschi, da un lato Calipso e Nausicaa, dall’altro il Ciclope e il ritorno a Itaca. Niente a che vedere, insomma, con la potenza dell’Iliade, che parlava della vita, della morte, dell’amicizia e del destino. Dove si diceva, fra l’altro, che i vincitori non erano migliori dei vinti, dove la natura era presente, dove gli animali erano partecipi del destino degli uomini (come non fremere al racconto dei cavalli di Patroclo che, lontani dalla mischia, piangono la morte del padrone?).
Gli unici mesi di cui abbia un preciso ricordo, gli unici in cui mi sia sentita pervadere da un entusiasmo contagioso sono quelli in cui abbiamo studiato l’Iliade. Tre o quattro compagne erano del mio stesso parere; durante le ore di ricreazione in giardino tentammo diversi adattamenti pseudoteatrali e a volte per ridere ci scambiavamo insulti omerici, estrapolati dal poema, ma la cosa finì lì.
Dopotutto eravamo ragazze, come qualcuno cominciava a farmi notare.
Il momento fatidico in cui «una bambina diventa donna», per usare l’espressione melensa di una delle mie zie, per me arrivò ad Antibes, durante l’estate dei miei quattordici anni. Sebbene mi avessero vagamente preparata all’evento, quel flusso di sangue mi sembrò una catastrofe ben più grave di quanto non avessi immaginato.
Come avrei fatto a sopportare per tutta la vita una seccatura simile? All’epoca sconsigliavano persino di fare il bagno; sicché tutta la spiaggia poteva facilmente indovinare per quale motivo quella ragazzina imbronciata se ne stava seduta sotto l’ombrellone. Alla rabbia andava ad aggiungersi la vergogna. Per quanto mi ripetessero che succedeva la stessa cosa anche alle altre donne, che dovevo accettarlo di buon grado, se non addirittura andarne fiera, io ero semplicemente furiosa.
Tutti quegli impedimenti erano così in contrasto con i miei gusti e con i miei sogni che provai l’impulso a ribellarmi.
Con mia grande sorpresa, l’unico che cercò a suo modo di consolarmi fu mio padre. Quell’uomo dagli occhi azzurri, dolce e pudico, non altissimo eppure elegante, mi accarezzò la mano in silenzio. Evitò prudentemente tutte le espressioni che usava di solito per riferirsi a me quando parlava con i suoi amici:
«È un ragazzo mancato ma sarà una donna riuscita».
O ancora:
«Sono sicuro che troverà sempre il modo di cavarsela».
Organizzò una gita in barca dopo il tramonto, riservata solo a noi due, per andare a pesca di polipi e calamari con la lampara. A piedi nudi, in pantaloncini e pullover blu scuro, in quella notte umida, provai per lui un vero slancio di gratitudine.
La primavera e l’estate del 1956 furono segnate da una profonda inquietudine. Durante le rivolte del ’52 alcuni terribili incendi avevano devastato diversi alberghi del Cairo; dopodiché la vita quotidiana aveva ripreso il suo corso più o meno normale. Tutti però, non solo gli adulti, avevano capito che stava succedendo qualcosa. Quell’anno, fin da gennaio o febbraio, intere famiglie cominciarono a fare le valigie. Stavolta non sarei stata l’unica a smettere di andare a scuola prima della fine del terzo trimestre. Capitava di sentire certe frasi insulse o spocchiose:
«Sì, andiamo in Australia, ma vi aspettiamo per le vacanze, veniteci a trovare».
«Noi invece andiamo in Canada, pare che sia bellissimo».
Marguerite Azzoppardi andava a Malta, Pierrette Zaccour a Beirut, Marlène Andrawos a Zurigo, le sorelle Haneuse a Marsiglia, la famiglia Benachi ad Atene, i Pinto a New York o Milano, i Naggar a New York, Clea Badaro a Creta, le tre sorelle di mia madre in Australia (addirittura in tre città diverse: tanto per fare le cose in grande), i Terni a Roma, il mio adorato cugino a Hong Kong.
Mia madre decise che ci avremmo pensato in autunno, e che adesso tanto valeva andare in vacanza a Roma. La trasferta, fra l’altro, cadeva a proposito sia per la mostra (che era prevista a maggio), sia per il mio italiano (che lasciava molto a desiderare: lo parlavamo solo con Gioconda, una friulana che aiutava in casa, semianalfabeta e perennemente rintanata in chiesa).
Dimenticavo di dire che, nel frattempo, mia madre, la suddetta tanagra, era diventa un’artista famosa. Le sue sculture e i suoi disegni venivano esposti ogni anno alla Galerie Breteau di Parigi e lei era stata chiamata a rappresentare l’Egitto alla Biennale di Venezia. Le critiche, generalmente molto lusinghiere, paragonavano il suo talento a quello di Zadkine o di Germaine Richier. Aveva un tratto deciso; i suoi nudi femminili e maschili erano audaci e vi si riconosceva un umorismo tagliente. Ho ancora uno o due bronzi che a distanza di sessant’anni sembrano aver resistito bene al passare del tempo, oltre a centinaia di disegni, ritratti e nudi che testimoniano una conoscenza approfondita del corpo umano e uno sguardo sicuro, intrepido.
La traversata del Mediterraneo, nella primavera del ’56, fu molto eccitante. Mia madre mi aveva messa a parte di un segreto: insieme avremmo sfidato leggi e doganieri. Mio padre, quando l’avevamo lasciato ai piedi del barcarizzo al momento di salire sull’Esperia, aveva dipinto in volto un misto di malcontento e preoccupazione. Trovavo eccessiva la frivola noncuranza con cui mia madre apriva i bagagli prima ancora che le chiedessero di farlo e sorrideva come una bella passeggera già in vacanza. Per controbilanciare quell’atteggiamento, io recitavo la parte dell’adolescente seria e ammodo.
Nella fodera della mia giacca a righe erano nascoste tre buste piene zeppe di sterline egiziane. Mia madre aveva distribuito le sue, ben più numerose, in diversi nascondigli, accuratamente scelti. Non era la prima volta (e non sarebbe stata l’ultima) che notavo fino a che punto infrangere la legge, i regolamenti interni delle varie istituzioni, le regole bancarie o postali, le mettesse addosso un buonumore contagioso e duraturo.
Superammo senza difficoltà l’ispezione dei doganieri, peraltro bonari e stanchi. Pensai a mio padre, così preoccupato: tentai di fargli un segno di vittoria dall’alto del ponte della nave. Troppo tardi, era già andato via.
Quella somma di denaro, il cui valore, seppur considerevole, era ai nostri occhi per forza di cose fluttuante e vago, doveva servire per l’acquisto di un appartamento a Roma dove, con ogni probabilità, ci saremmo trasferiti il giorno in cui avessimo lasciato per sempre Alessandria. Perché proprio Roma? Per mia madre era evidente: per via del nostro passaporto italiano e dei rapporti d’affari di mio padre. Che le nostre nozioni di italiano fossero a dir poco rudimentali, che dovessimo escogitare un modo per farmi proseguire gli studi, che infine a Roma non avessimo né amici né conoscenti erano tutte obiezioni che non avevano ragione di essere. La mostra avrebbe suscitato interesse, dandoci così l’occasione di conoscere gente; quanto alla scuola, non dovevamo far altro che informarci, e da qualche parte avremmo senz’altro scovato delle suore di Notre-Dame de Sion.
La traversata fu bellissima. Viaggiavamo in seconda classe: sebbene fosse molto meno comoda, era stata probabilmente preferita alla prima perché potessimo confonderci con i passeggeri meno ricchi, che difficilmente sarebbero stati sospettati di traffici illeciti. Si sentivano i colpi delle macchine. Quel rumore, ormai scomparso sulle navi di oggi, mi faceva pensare a un enorme cuore dal battito regolare, che scandiva il tempo e mi tranquillizzava.
A Roma prendemmo una camera nella Pensione Pinciana, in cima a via Veneto. Ci eravamo già stati quand’ero piccola; bastava attraversare due strade e si sbucava nel parco del Pincio; bastava scendere camminando sul marciapiede di destra per vedere via Veneto dispiegarsi in tutto il suo splendore, ampia, sinuosa, animatissima. La città era in preda all’ingenuo fermento del dopoguerra. Era la capitale del cinema, la capitale dei liberatori americani. La sera, in via Veneto, c’erano festosi assembramenti attorno a qualche Cadillac dorata o a qualche diva con il volto dipinto come un idolo pagano che, facendosi strada in mezzo a un pigia pigia di ammiratori, se ne andava a cena in un ristorante all’aperto con vista sulle rovine.
Due anni prima, Vacanze romane con Audrey Hepburn e Gregory Peck, girato interamente a Roma, aveva riscosso un successo strepitoso, contribuendo così a rimarginare le ferite inferte all’amor proprio degli abitanti dell’Urbe dall’occupazione tedesca. L’intera città si era innamorata dei due attori. Ma quelli che si vedevano girare per strada non erano tipi alla Audrey Hepburn. La fama delle due rivali italiane, Gina Lollobrigida e Sophia Loren, che giravano un film dopo l’altro, aveva influenzato la moda, il costume, la città, tutto il paese. Le ragazze avevano imparato a lanciare, come Gina, sguardi obliqui, profondi, sensuali; e, come Sophia, indossavano gonne che a volte si sollevavano lasciando intravedere gambe snelle e muscolose. Quanto ai ragazzi, il loro modello era Vittorio De Sica: a ogni angolo di strada capitava di incontrare uno sciupafemmine sentimentale e con un sorriso smagliante.
La presenza costante di preti e suore che camminavano a gruppetti per le vie del centro non turbava affatto quell’ambiente così singolare, tutt’altro. Sebbene non sapessi granché del sesso, ero pur sempre, come accade ai figli unici, una buona osservatrice. Sentivo che l’intera città era intrisa di sensualità. E tutte quelle Gine e Sophie, sorridenti e provocanti nei loro abiti scollati, nonostante l’atmosfera semplice e bonacciona, sembravano surriscaldare l’aria. Soprattutto verso sera, nella luce dorata del tramonto.
Ancora oggi Roma somiglia a quella immortalata da Corot nei suoi quadri; ed è anche una delle poche capitali di cui si riescano a riconoscere facilmente le strade e le piazze riprodotte nei dipinti dei pittori paesaggisti dell’Ottocento che si vedono nelle sale dei musei. Il giallo rosato dei muri di Corot era lo stesso in cui la città era immersa quell’anno. E lo scorrazzare frenetico delle Vespe non ne intaccava minimamente la bellezza.
In quel mese di maggio tutti i tavolini all’aperto dei due bar antistanti piazza del Popolo erano occupati dagli intellettuali; a cominciare dal cappuccino della mattina fino all’ora di cena si susseguivano a ritmo serrato discussioni sul comunismo (accompagnate in genere da gesti ampi), sulla poesia o sul cinema... e sui divorzi.
I discorsi sul comunismo erano impregnati di una speranza venata di malafede. Davanti a un Campari, i nostri amici aspettavano che l’avvento del comunismo in Europa portasse al trionfo della giustizia nel mondo. Tutti erano iscritti al Partito. Mia madre mi aveva raccontato che solo Elsa Morante, una sera che passava di lì, aveva avuto il coraggio di sfidare quei parolai. «Il vostro Stalin non è meglio di Hitler!». E se n’era andata, senza neppure sedersi, con quella sua aria scontrosa e indignata.
Anche il cinema, con la sua dirompente creatività, era oggetto di molte conversazioni, che il più delle volte ruotavano intorno alla figura di Fellini. Un vero genio a detta dei più, un mezzo genio per tutti gli altri, che ne ridimensionavano un po’ la grandezza. Avevo visto La strada e avevo pianto calde lacrime. In seguito avrei visto La dolce vita, che avrebbe confermato, nei toni della satira, la bontà della mia intuizione sul risveglio sensuale e sessuale della città dopo gli anni del fascismo piccolo borghese, trascorsi in una sorta di sonno forzato e innaturale.
Quanto poi all’ossessione del divorzio, balzava davvero agli occhi. Dal momento che il Codice civile non lo contemplava, i romani benestanti divorziavano a modo loro: dal mio minuscolo osservatorio, mi ero fatta l’idea che gran parte di quelli che conoscevamo sprecassero la metà del tempo a farsi certificare dalla Sacra Rota che il loro era un matrimonio bianco o invalidato da un vizio di consenso. Nessuno sembrava stupirsi granché di fronte a certi padri di famiglia con tre figli che sostenevano di essere impotenti fin dall’adolescenza, o a certe donne pronte a dichiarare sotto giuramento che, prima di essere condotte all’altare in abito bianco con tanto di strascico, erano state minacciate di morte dai familiari.
Le complicate vicissitudini legate all’acquisto del nostro appartamento possono essere così riassunte: il denaro che con tanta destrezza eravamo riuscite a trasferire in Europa non bastava per comprare un appartamento nel centro di Roma, magari con terrazza, come avevamo sperato. Non bastava neppure per comprare casa in un quartiere borghese come quello dei Parioli, dove andava ad abitare la nuova borghesia dei palazzinari e dei cinematografari.
Fu proprio un palazzinaro a proporci l’appartamento giusto per la somma di cui disponevamo: un trilocale nuovo di zecca con un bel bagno e cucina in un edificio che aveva appena costruito. Si trovava in viale Adriatico, dall’altra parte dell’Aniene, il piccolo affluente del Tevere, in fondo a via Nomentana. Non definirei quella zona, al tempo più che altro simile a un cantiere, come una periferia, data la diversa connotazione che il termine ha oggi rispetto ad allora. Diciamo che era la fine della città o il suo inizio, a seconda dei punti di vista: il suo margine insomma. La strada in cui abitavamo, asfaltata di fresco e definita pomposamente viale, cominciava nei pressi del ponte sull’Aniene e arrivava fino ai prati spelacchiati di una collina da cui all’alba si sentiva giungere il suono delle campanelle delle greggi di capre. E, siccome tutto è relativo, i giovani pastori che stavano a guardia delle greggi si fermavano allibiti, a bocca aperta, ad ammirare e invidiare la bellezza della nostra palazzina nuova fiammante con i balconi dipinti di azzurro.
Ci trasferimmo subito. Pochi giorni dopo il trasloco Gioconda, spuntata chissà da dove, prendeva possesso del divano-letto in soggiorno e cominciava a vegliare su di noi, con l’occhio sinistro socchiuso, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Ci amava. Mia madre l’aveva conosciuta, non ricordo più né come né perché, un anno e mezzo prima e, per una qualche ragione, le aveva pagato il viaggio per Alessandria, oltre al ritorno in Italia pochi mesi dopo. Cara Gioconda, che un bel giorno sbarcò, piena di fiducia, in una grande città del Medio Oriente di cui fino allora non conosceva neppure l’esistenza! Con quella bontà che è propria dei semplici (da quanto avevamo potuto capire, da piccola era caduta a testa in giù da un nocciòlo), era riuscita subito a farsi ben volere da Mohammed e dalle altre persone che lavoravano da noi. Per non parlare della folla di mendicanti che gravitavano attorno a casa nostra: dire che ne era entusiasta è poco; immagino che credesse di essere tornata, come per miracolo, ai racconti dei Vangeli che ascoltava a messa ogni giorno. Una volta mio padre le volle spiegare come stavano le cose. Cercò di farle capire che, se proprio ci teneva, poteva baciare e abbracciare i mendicanti, ma che nessuno di loro era lebbroso e che la lebbra era stata estirpata dall’Egitto.
Gioconda era felicissima di abitare in viale Adriatico, con la prospettiva di andare, prima o poi, a fare un giro in Vaticano, e magari chissà di incontrare addirittura il Papa; in men che non si dica, mise in ordine le nostre cose, garantì il normale funzionamento della casa e permise così a mia madre di dedicarsi all’allestimento della sua mostra.
Il vernissage fu un successo. Pericle Fazzini, un famoso scultore che avevamo conosciuto alla Biennale di Venezia e che aveva uno studio dietro via del Babuino, era riuscito a richiamare un bel po’ di gente; non faceva altro che dire che mia madre aveva un grande talento. Incuriosito dal duo composto da madre e figlia, nonché generoso e apprensivo per natura, ci subissava di raccomandazioni su una miriade di questioni pratiche. E le sue mani enormi vorticavano minacciose mentre accompagnava con i gesti i consigli più premurosi. Fu lui a renderci la vita più facile, indicandoci i ristoranti, i negozi, i posti che poi avremmo frequentato. Dei suoi concittadini ci diceva che erano degli emeriti imbroglioni e furfanti: anche in quel caso le sue raccomandazioni si rivelarono utili, almeno per quel che mi riguardava, dal momento che mia madre sembrava si affidasse, come al solito, alla sua buona stella.
Se la memoria non mi inganna, nei quindici giorni della mostra furono venduti tutti i disegni e la maggior parte delle sculture. La metà del ricavato fu depositato in una banca, consigliataci anch’essa da Fazzini, su un conto intestato a me e a mia madre (essendo io minorenne, la cosa non avrebbe avuto nessuna ricaduta concreta, ma il gesto mi commosse comunque); una parte venne data a Gioconda, che la nascose sotto il materasso; l’ultima fu destinata all’acquisto di una deliziosa Fiat Seicento verde oliva che usavamo per esplorare i dintorni della città, soprattutto le spiagge.
Fregene e Ostia, diversissime l’una dall’altra, erano all’epoca le più frequentate; noi andavamo ora nell’una, ora nell’altra.
A Ostia, così popolare e chiassosa, dove l’occupazione principale erano, più che i bagni in mare, i banchetti all’aria aperta, imparai a conoscere le abitudini delle famiglie italiane del tempo, con le madri che non avevano altro pensiero che chiamare i figli. Dalle sedie a sdraio si levava una sorta di continua melopea, intervallata a tratti da grida acute.
Fregene, costantemente inondata dal profumo della bella pineta che costeggiava la spiaggia, era frequentata meno e meglio, e dopo aver fatto il bagno si poteva stare all’ombra a giocare a tamburello; nei giorni infrasettimanali si incontravano soprattutto nonne eleganti che tenevano d’occhio i bambini, tormentandoli molto meno di quanto non facessero le mamme di Ostia. Una di loro ci raccontò che aveva problemi di soldi: aveva aiutato il figlio a «divorziare» (appunto!) e gli avvocati le erano costati un occhio della testa. Le procedure per l’annullamento del matrimonio erano lunghe, ma nel caso di suo figlio tanta lentezza si era rivelata provvidenziale, un autentico dono del Signore: non aveva più sposato la ragazza per la quale aveva deciso di intraprendere quel percorso a ostacoli; dopo tre anni ne aveva sposata un’altra che alla suocera piaceva molto di più. Mi sembra ancora di sentirla dire con comica serietà:
«Questa è molto più carina».
Ne dedussi che le madri romane, di concerto con il buon Dio, avevano l’abitudine di occuparsi di tutto ciò che riguardava i figli, divorzio e seconde nozze compresi.
Nel tardo pomeriggio tornavamo a Roma percorrendo una strada molto trafficata, e spesso l’acqua del radiatore si surriscaldava. Ma io sapevo come intervenire: accostavamo, scendevo, aprivo il cofano, aggiungevo un po’ d’acqua come se non avessi fatto altro in vita mia, dopodiché aspettavamo dieci minuti e poi ripartivamo.
In fin dei conti le nostre «vacanze romane» erano andate a meraviglia. E tutto era pronto per cominciare una nuova vita.
Le notizie che arrivavano dall’Egitto non erano molto confortanti.
Il 26 luglio 1956 il presidente Nasser avrebbe pronunciato ad Alessandria un importante discorso per annunciare la nazionalizzazione del canale di Suez.
Quel giorno, davanti a una folla esaltata, avrebbe esposto il suo programma di affrancamento da ogni ingerenza occidentale e di avvicinamento all’Unione Sovietica.
Quel giorno si sarebbe presentato a tutti come il capo del mondo arabo.
Quel giorno avrebbe avuto fine ufficialmente una realtà anomala e fragile come la società cosmopolita alessandrina: «Quando abbiamo avuto la meglio sui complici dell’imperialismo, gli invasori hanno capito che non potevano più restare in una terra in cui sarebbero stati circondati da nemici... Chi vi ha nominati nostri tutori? Chi vi ha chiesto di occuparvi dei nostri affari?».
La nostra partenza precedette di poco quel fatidico evento.
Solo pochi giorni prima, allarmate da quello che lasciava intuire il tono cauto ma triste delle lettere di mio padre, ci eravamo imbarcate a Napoli. Tre notti dopo, avvertito da un telegramma, lui era sulla banchina ad aspettarci, stremato dal caldo, dall’umidità e dall’angoscia. L’azienda di cui era socio stava andando incontro a un mucchio di difficoltà, il clima si era guastato, c’erano state perfino denunce, accuse di corruzione, arresti, e nell’aria si sentiva crescere l’ostilità verso gli stranieri, i loro affari e i loro protetti.
«La situazione può prendere fuoco da un momento all’altro, come una scatola di fiammiferi».
Ripeté due volte «una scatola di fiammiferi».
A casa trovammo ad aspettarci solo Mohammed. Tutti gli altri, compresi i mendicanti, sembravano essersi volatilizzati. Credo che fosse stato mio padre a mandarli via, per evitare che andassero incontro a delle noie. Alcuni era riuscito a sistemarli in qualche modo. Aveva poi comprato tre biglietti perché partissimo quel fine settimana. Senza troppi bagagli, raccomandò: non dovevamo dare l’impressione di voler lasciare il paese per sempre; altrimenti avremmo avuto seccature e corso dei rischi. Facemmo le valigie in fretta e furia. Senza dire una parola.
La mattina della partenza Mohammed, di solito poco loquace, venne a sedersi in camera mia. Mi raccontò degli episodi della mia prima infanzia; voleva che portassi con me qualcosa di quello che lui e io avevamo vissuto insieme. Mi parlò del tacchino che ci avevano regalato a Pasqua, dopo la guerra, l’anno in cui mio padre era tornato dal Delta; quell’enorme tacchino che saltellava nel retrocucina e che mi aveva tanto spaventata; avevo gridato: «Aiuto, Mohammed, un drago, un drago!» e mi ero gettata fra le sue braccia. Mi disse di quanto si erano arrabbiati i miei genitori quando si erano accorti che avevamo usato un’icona bizantina del Settecento per tritarci sopra il prezzemolo con la mezzaluna. E di quando il primo giorno di scuola non ero voluta salire sull’autobus senza di lui, e allora lui, tutto orgoglioso, mi aveva accompagnata al collegio di Notre-Dame de Sion. E di quando un poliziotto era venuto a suonare a casa nostra in cerca di una ragazzina che, a quanto pareva, aveva trascorso il pomeriggio a innaffiare i passanti con una pistola ad acqua; e lui aveva detto al poliziotto: «Certo che qui c’è una ragazzina: guarda com’è brava, passa tutto il giorno a leggere». E di quando mia nonna mi aveva paragonata a una rosa, e lui aveva detto: «Ma no, Nonnitza, è una bambina di qui, è un gelsomino d’Egitto».
E di quando la nostra cagnetta aveva partorito sette bei bastardini, tutti umidicci e con l’aria spaesata, nel ripostiglio per le scope; e la bambinaia li aveva guardati con un’espressione di disgusto... del resto, borbottava Mohammed, nessuno ha mai capito a che servano le bambinaie...
Ma fu sulla mia difterite, la sua storia preferita, che si soffermò più a lungo. Avevo cinque anni. Per l’ennesima volta mi parlò delle notti di febbre e di delirio; mi disse che aveva deciso di sdraiarsi accanto alla porta di camera mia per poter intervenire nel caso avessi rischiato di morire soffocata; e ogni mattina, quando l’asino in fondo alla strada cominciava a ragliare, lui mi diceva: «Svegliati, svegliati, tuo fratello ti chiama». Il giorno in cui finalmente, dal letto in cui giacevo, mi ero messa a ridere sentendo ragliare mio fratello, lui aveva capito che ero guarita.
Dopodiché mi baciò sul palmo della mano. «Che Dio ti protegga».
Una macchina ci condusse al porto.
Quella fu la nostra ultima traversata. Io avrei rimesso piede in Egitto solo alcuni decenni dopo. Ma loro, l’«italiano» mite con i capelli biondi e gli occhi azzurri e la bella «angloindiana» bruna con gli occhi nerissimi, non avrebbero mai più rivisto il loro paese.
Sono certa che lo sapessero: non si illudevano di poter tornare o ricominciare. Non avevano portato con sé quasi nulla della loro vita precedente, le nostre tre valigie erano piene zeppe di oggetti senza valore, scelti in base al personalissimo senso delle priorità di mia madre.
Il secondo giorno di traversata, in mare aperto, mio padre ci annunciò che aveva trovato lavoro in Italia, da certi conoscenti di uno dei suoi impiegati ad Alessandria. Era una buona cosa, disse; poteva cominciare subito, anche se eravamo all’inizio di luglio. Dovevamo andare a Milano.
Ci fu un attimo di silenzio. Non sapevamo bene dove si trovasse Milano. Al Nord, vero? E che ne sarebbe stato dell’appartamento di viale Adriatico a Roma?
Un leggero sospiro:
«Di sicuro è un buon investimento».
Un buon investimento! Neppure quello scaltro imbonitore del palazzinaro avrebbe mai avuto il coraggio di definirlo così. Un buon investimento l’appartamento nella palazzina che per ora si affacciava sulla collina e sulle greggi di capre, ma che ben presto sarebbe stata circondata da altri piccoli edifici tirati su alla bell’e meglio. Doveva avere un gran bisogno di rassicurarci, mio padre...
Anche durante le traversate estive più tranquille l’Egeo poteva essere agitato. A me e a mio padre piaceva, non ci stancavamo mai di guardare le onde che si gonfiavano, la schiuma che imbiancava il mare. Fu su una sedia a sdraio di legno, umida per la bruma mattutina, che mi regalò la sua copia in inglese dei Sette pilastri della saggezza. Un librone rilegato in tela azzurra, un’edizione Jonathan Cape del ’55 che ancora conservo nella mia libreria.
Cominciai a leggerlo l’ultimo giorno di navigazione. Che strano tono per uno scrittore inglese: la cura nella scelta degli aggettivi, la potenza delle immagini, le allusioni alla storia grande e piccola, la precisione con cui descriveva il paesaggio, il vento, gli uadi, i terreni sabbiosi o pietrosi, i cespugli spinosi o le acacie. E ancora: il tono pieno di mistero che coloriva i discorsi indiretti, la poesia esaltata che apriva il volume, l’elenco minuzioso delle armi e degli esplosivi, la straordinaria foto del suo ingresso a Damasco con le teste dei cavalli, muso contro muso, fra la polvere e la confusione. Intuivo che quello era un libro importante: raccontava di un’idea, di un sogno; e quel sogno si era infranto. Era il racconto di un amore folle per una terra che non era la terra dell’autore. Neppure la storia era quella della nazione dello scrittore-soldato. Lawrence non era incaricato di trattare in nome del suo governo, così come non era autorizzato a mettersi al comando dei popoli che si ribellavano all’Impero ottomano. Aveva deciso di avere due padroni: Allenby e la Corona britannica da un lato, Faysal e le tribù arabe dall’altro. Un equilibrio insostenibile, una vita votata allo sforzo estremo.
So bene quanti elementi offuschino oggi la sua immagine: l’omosessualità, il presunto ruolo di agente dei servizi segreti, il desiderio di espiazione, la vergogna, la strana morte. Alcuni anni dopo tutto questo fu raccontato in un film di grande impatto, che lo avrebbe reso famoso, pur dipingendolo in maniera un po’ stereotipata, troppo psicoanalitica e a tratti kitsch. Ma a me sembrò di cogliere il nocciolo della sua storia quel giorno in mare. Un soldato, di grado non troppo alto e poco incline a sottomettersi alla disciplina militare, che nutriva una vera e propria passione per l’archeologia e per i rilievi topografici dei castelli crociati, aveva tentato di ridisegnare una parte del mondo e di inventarsi, al contempo, un destino eccezionale: «La storia di queste pagine non è quella del movimento arabo, ma di me nel movimento. È una narrazione di vita quotidiana, piccoli avvenimenti, piccola gente ... piena di cose triviali ... e del piacere che sentivo nel rievocare il cameratismo della Rivolta ... Eravamo legati gli uni agli altri dall’ampio respiro degli spazi aperti, dal gusto per il vento impetuoso, dalla luce del sole, dalle speranze per le quali lavoravamo. La freschezza mattutina del mondo futuro ci intossicava. Eravamo esaltati da idee inesprimibili e inconsistenti, ma meritevoli d’essere difese con le armi. Vivemmo molte vite in quelle azioni vorticose, non risparmiando mai le nostre forze».
In fin dei conti mi sembrò che non ci fossero differenze fra le sue gesta e quelle del Napoleone delle campagne d’Egitto e d’Italia. Tranne una: cento anni li separavano, e forse nel ventesimo secolo non c’era più spazio per le epopee individuali.
Pensavo a me e mi sentivo avvilita. Come avrei fatto adesso? Quell’identificazione, ne sono perfettamente consapevole, suona un po’ comica e fuori luogo. Ma nessuno ci vieta di identificarci con un sogno in quei brevi istanti, così difficili da definirsi, in cui siamo convinti che molte cose siano ancora possibili. I periodi di crisi, dandoci l’illusione che fortuna e sfortuna, occasioni e imprevisti possano essere mescolati come carte da gioco e che da un momento all’altro possa capitarci una buona mano, ci allontanano dalla realtà dei fatti gettandoci in un mondo di «idee inesprimibili e inconsistenti».
Fui così assorbita da Lawrence, verso la fine di quel viaggio cruciale, che non ricordo più niente di ciò che accadde fra l’ingresso della nave nel porto di Genova e il nostro arrivo a Milano in un hotel dietro al Duomo che si chiamava Albergo Rosa.
Naturalmente quella fu solo una tappa, in attesa di trovare un appartamento in affitto, ma fu una tappa faticosa. La camera era piccola per tre persone, non riuscivamo neppure ad aprire le valigie; il proprietario aveva escogitato un sistema ingegnoso per evitare che i clienti sprecassero la corrente: quando veniva accesa la luce centrale si spegneva l’abat-jour, quando veniva acceso l’abat-jour si spegneva la luce centrale. Era davvero spiacevole; l’unica finestra si affacciava su un cortiletto, rifugio di orribili piccioni, e pur essendo pieno luglio la luce che filtrava all’interno era pochissima.
Mentre mio padre era al lavoro, mia madre e io, paralizzate da un misto di timidezza e apatia, passavamo intere giornate da sole con le mani in mano. Milano è sempre stata una città spaventosamente umida d’estate; ciononostante avremmo dovuto darci da fare per cercare una sistemazione meno provvisoria.
I primi giorni uscivamo poco dal nostro antro. Io continuavo a leggere I sette pilastri. Il preziosismo delle descrizioni non mi annoiava affatto. Mi dicevo che anch’io avevo visto sorgere l’alba violetta sul deserto, conoscevo il freddo silenzio dei paesaggi di pietra, il rumore del vento che attraversa i grandi spazi, le complicate manovre che fanno cammelli e dromedari per accucciarsi: «I cammelli ... da principio, esitanti, guardando per terra, ... esploravano il terreno con una zampa, cercando un tratto morbido; poi il colpo soffocato e l’improvviso respirare all’unisono degli animali che si lasciavano cadere sulle zampe anteriori».
Fu mia madre a prendere in mano la situazione.
Una mattina spiegò sul letto la carta della città in cui da quel momento in poi avremmo dovuto vivere. Legò a un laccio il suo unico gioiello, un anello con un rubino quadrato.
«Il pendolo ci dirà dove troveremo il nostro nuovo appartamento, vedrai».
Il pendolo si fermò al centro, in alto, a destra, in basso, si agitò un po’ verso sinistra. Poi il movimento si fece allegramente frenetico. Un trionfale segno a matita circondò il settore prescelto sulla piantina, tre o quattro vie in tutto.
«Ecco fatto. Andiamo».
Con mio grande stupore, la ricerca della casa si concluse in giornata; grazie al pendolo potemmo trasferirci già la settimana successiva.
Quella piroetta da strega coraggiosa, quella bravata insolente e disperata mise simbolicamente fine a un’epoca della mia vita e di quella di mia madre.