Entità del disastro.

Considerevole.

Non c’era nessuno ad ascoltarci, giudicarci o farci coraggio, ma, se avessimo mai dovuto spiegare a qualcuno il nostro caso e chiedergli consiglio, saremmo stati anzitutto costretti a presentarci. Ecco che cosa si sarebbe potuto dire della nostra famigliola appena sbarcata a Milano:

 

Il padre. Cinquant’anni. Senza religione. Ex direttore di un’azienda di import-export a conduzione familiare; uomo d’affari rovinato; parla e scrive in quattro lingue (francese, italiano, inglese, arabo). Esperto alla Borsa del Cotone di Alessandria. Da diversi anni scratch nei tornei ufficiali di golf (ovvero senza handicap, dunque campione internazionale). Campione d’Egitto per cinque anni consecutivi di regata classe dinghy 12’ (una piccola barca a vela con scafo in legno, velocissima ed elegante). Abile pescatore, appassionato di pesca grossa.

 

La madre. Quarantuno anni. Senza religione. Scultrice piuttosto nota in Europa, considerata da molti un «astro nascente». Parla e scrive in francese; altre lingue parlate: greco e italiano. Ottima nuotatrice, soprattutto nel dorso. Grande capacità e resistenza nella guida dei fuoristrada.

 

La figlia. Diciassette anni e mezzo. Cattolica. Ha interrotto gli studi prima della maturità. Parla e scrive in francese e in arabo; altre lingue parlate: italiano, inglese e greco. Lettrice onnivora. Discreta nuotatrice. Competenze e gusti insoliti per una ragazza. I genitori la definiscono «una che sa cavarsela da sola».

 

Quando un gruppo di animali o di esseri umani è costretto a spostarsi da un luogo a un altro deve, per potersi acclimatare nel nuovo habitat, dimostrare buone capacità di adattamento; ma è altresì essenziale che sappia quali sono le aspettative dell’ambiente che dovrà accoglierlo. A questo riguardo noi eravamo privi di informazioni, totalmente impreparati. Non conoscevamo la città, né i suoi codici di comportamento, né alcuno dei suoi abitanti. Tutto ciò che nel corso della nostra vita passata aveva suscitato l’interesse o l’ammirazione di chi ci circondava ormai non serviva più a granché.

Era assai improbabile che i miei genitori facessero sfoggio delle loro imprese, ma anche se ci avessero provato per tirarsi un po’ su il morale, sarebbero stati di sicuro fraintesi o presi in giro. Parlare delle loro origini era complicatissimo: dire da dove venivamo e perché avrebbe suscitato a seconda dei casi stupore, indifferenza, o un po’ di compassione.

Tanto valeva arrendersi all’evidenza: non eravamo adatti a una città lontana dal mare e con un clima continentale; tendenzialmente austera, Milano viveva in quegli anni all’insegna del lavoro, del denaro e dei valori familiari tradizionali.

 

Come vuole una regola infallibile, la più valida risultò essere anche la più fragile. Mia madre, che sarebbe stata capace di guidare una jeep tra le montagne dell’Afghanistan, non era in grado di fare la spesa. Nelle prime settimane l’ora di cena fu per lei (e per noi) una prova inattesa. Non ci mettemmo molto a capire che, se il cibo che ci presentava in tavola era sempre freddo – si trattava di picnic organizzati però con una certa originalità –, era perché non sapeva usare la cucina a gas. Così come a volte gli analfabeti tentano di nascondere la loro ignoranza, lei non voleva ammettere che la successione di gesti da eseguire per accendere il fuoco sotto una pentola le era completamente ignota. Aspettava che lo facesse uno di noi due.

«Ah, sì, potevo scaldarlo... buona idea».

Un giorno, con molto tatto, la presi da parte e le spiegai come si faceva, glielo mostrai due o tre volte; quella sera non disse niente, ma andò a letto prestissimo. Fu probabilmente a partire da quell’episodio che cominciò a mollare la presa.

 

 

 

Eravamo ai primi di settembre, il mese delle iscrizioni scolastiche. Dovevo assolutamente fare qualcosa. A un centinaio di metri da casa c’era un liceo, e così provai a fissare un appuntamento. Una simile iniziativa, da parte di una ragazza che non aveva un diploma, né alcuna attestazione degli studi fatti e, per il momento, neppure il certificato di residenza, sembrò del tutto incomprensibile alla giovane segretaria che avevo trovato tutta sola nel suo ufficio in quello scorcio d’estate. Mi parve anzi piuttosto ansiosa di riprendere quello che stava facendo; mi consigliò, se davvero insistevo per parlare con qualcuno, di tornare due settimane dopo: allora ci sarebbe stata la direttrice.

Uscii in preda a una leggera vertigine: non aveva tutti i torti, in fondo. Ma non c’era tempo da perdere. Santa Maria delle Grazie è la più bella chiesa di Milano: fu lì che un prete, prima di prendere posto nel confessionale, mi disse che, per quanto ne sapeva, in Italia non esistevano scuole di Notre-Dame de Sion, ma che non molto lontano c’era un buonissimo istituto femminile tenuto dalle suore Marcelline.

Conservo un ricordo affettuoso della persona che mi accolse, una novizia con uno strano accento. In seguito venni a sapere che era argentina e che era in Italia solo per sei mesi, nell’ambito di un programma di scambi fra istituti. Mi ascoltò. Avevo imparato a raccogliere le forze. Cercai di spiegare la mia situazione in modo semplice. Non mentii sulle mie immense lacune (non avevo mai scritto neanche una riga in italiano), dissi subito che non avevo con me i voti dell’anno precedente perché ero partita prima della fine della scuola; mentii solo sui miei genitori, «sì, sono cattolici», e per sembrare più credibile aggiunsi «non praticanti». A quel punto lei chiamò la madre superiora e, davanti a me, le riferì il mio caso.

Non so se i conventi siano luoghi particolarmente propizi alle decisioni impulsive. O se la prossimità con Dio comporti una sorta di disprezzo della burocrazia. O se invece, più semplicemente, le due sorelle ebbero pietà di me.

Sta di fatto che si allontanarono per una decina di minuti e tornarono nella saletta bianca in cui le aspettavo tremante di angoscia pronte a comunicarmi il verdetto. Potevo iscrivermi; avrei dovuto ripetere l’anno; durante il primo trimestre non mi avrebbero dato voti. Suor Gisella mi avrebbe seguito un paio d’ore tutti i pomeriggi per cercare di rimettermi in carreggiata. A un’unica condizione: volevano conoscere i miei genitori.

Quando uscii, il sole, filtrando attraverso le nuvolette tonde che si rincorrevano in cielo, disegnava sulla piazza delle macchie di luce.

Ancora una volta mi venne in mente Omero; due anni prima, in classe, la professoressa ci aveva fatto analizzare le sue similitudini in modo così approfondito che potevo imitarle senza difficoltà. Era una specie di gioco, e ci provavo gusto; quelle frasi interminabili e l’abbondanza di immagini ingenue e colorate mi divertivano e mi restituivano un po’ di equilibrio.

Perché non inventarne una adatta all’occasione?

Come quando, al termine di una notte di burrasca, dopo che l’albero maestro si è schiantato e le vele sono state lacerate da un vento di una violenza inaudita, l’aurora avvolta nel suo manto color zafferano riporta sul mare agitato una calma improvvisa, la nave entra in un porto ospitale, dove le barche ormeggiate le fanno posto e il marinaio posa il piede sulla banchina che luccica al sole; così la ragazza...

Con o senza Omero, avevo superato la prima tappa.

 

 

 

C’è un brano della Certosa di Parma che adoro. Gina dà a Fabrizio alcuni preziosi consigli, riferendogli fedelmente le parole del conte Mosca, a mo’ di viatico prima della sua partenza per l’accademia ecclesiastica di Napoli (lessi il romanzo pochi giorni dopo aver iniziato le scuole dalle Marcelline e pochi giorni prima di compiere diciotto anni). Quelle righe, in cui è condensata la visione stendhaliana, sono un distillato di giovinezza, arguzia e amoralità.

Potrebbero figurare in apertura a un trattato di sopravvivenza:

«“... il conte, che conosce bene l’Italia di oggi, mi ha incaricato di farti una raccomandazione. Che tu creda o no a ciò che ti insegneranno, non fare mai obiezioni. Fa’ conto che ti insegnino le regole del whist: ti verrebbe mai in mente di fare delle obiezioni alle regole del whist?”». E poco dopo: «“Un’altra cosa che il conte mi prega di dirti è questa: se ti viene in mente una risposta arguta, una obiezione schiacciante che potrebbe cambiare il corso della conversazione, sappi tacere: le persone sagaci te la vedranno negli occhi, la finezza di spirito. Per far sfoggio di finezza di spirito, aspetta di diventare vescovo”».

Ah, quanto mi piaceva il conte Mosca! La sua morale era elastica, il suo giudizio mai impacciato, la sua azione decisa. E tutte quelle doti non erano affatto in contrasto con la sua bontà, con la sua solidità; sapeva amare.

Dato che raccontava la giovinezza di Fabrizio seguendola a passo a passo fino alla maturità, il libro apparteneva forse alla categoria dei romanzi di formazione (genere letterario su cui era stata tenuta una lezione all’inizio dell’anno)? La Certosa però non aveva il tono malinconico e un po’ disilluso che promana dai libri di iniziazione alla vita. Nessuno dei personaggi del romanzo scendeva a compromessi con la società, e la dura regola che impone di adeguarsi alla realtà esistente non era mai rispettata fino in fondo. Veniva spiegata, aggirata, talvolta applicata. Ma era e-vidente che non veniva mai presa sul serio. Facevano solo finta!

Siccome non avevo letto niente di simile e non potevo confrontarmi con nessuno sulla mia interpretazione, rilessi diversi brani e sottolineai alcune frasi che sembravano darmi ragione.

Le regole, i codici di comportamento, le consuetudini: proprio come il whist, non erano altro che un gioco; un gioco a cui si poteva prender parte senza sentirsi umiliati. Per esprimere il proprio punto di vista bastava aspettare: aspettare di diventare vescovo; prima di allora, niente obiezioni schiaccianti. Per sopravvivere, conveniva non esprimere il proprio punto di vista. Uniformarsi. Dissimulare.

Riflettei a lungo su quelle idee finché non giunsi alla conclusione che avevo ragione. Non c’era nessun bisogno di fare salti mortali per piacere a chi non mi piaceva, bastava che non lasciassi trasparire, che nascondessi tutto ciò che avrebbe potuto disturbare, sorprendere o infastidire.

E, nel dubbio, conveniva pensare al conte Mosca.

 

 

 

Così, i primi giorni di scuola, mi sforzai di essere sempre concentrata e guardinga. Le mie compagne di classe erano per lo più belle e soprattutto ben vestite. Le milanesi sono famose per essere sempre perfette, per avere un’eleganza molto british; qualità che, anche in un liceo per ragazze di buona famiglia della fine degli anni Cinquanta, erano lungi dall’essere smentite. Lo stile non mi sembrò difficile da imitare: niente abiti eccentrici, mai più di due colori per volta, e sempre coordinati fra loro, scarpe impeccabili, unghie corte e ben curate. Le mie compagne non erano molto curiose; una frase del tipo: «Sì, mio padre ha lavorato a lungo all’estero e per comodità ho frequentato le scuole francesi» era parsa loro una spiegazione più che sufficiente per dar conto del mio incredibile ritardo sul programma. Quel liceo era il meglio che potesse capitarmi, mi sentivo protetta. Facevo pratica. Ben presto sarei riuscita a inserirmi nella società italiana e avrei fatto parte di un paese europeo in pieno sviluppo (erano gli anni del boom economico, celebrato ogni giorno dai quotidiani e dalla neonata televisione). Mi ero lasciata per sempre alle spalle l’Oriente, e l’Occidente mi accoglieva a braccia aperte; e forse era meglio così: l’Oriente non sarebbe stato mai più quello in cui eravamo nati.

Ogni giorno, tornando a casa da scuola, avevo la conferma che per mia madre l’idea di quel trasferimento definitivo in Occidente era molto più difficile da accettare di quanto non lo fosse per me. Una volta rimasta sola in casa, lei, di solito sempre molto attiva, passava la maggior parte del tempo sdraiata. A letto. Con una scusa pronta per la figlia: «... Ho fatto un sonnellino... Stavo leggendo... Avevo mal di schiena...».

Non potevo immaginare che cosa le stesse succedendo, non avevo mai sentito la parola depressione. Non era malata. Aveva spesso freddo. Parlava poco, non manifestava segni di malinconia. Quando arrivavo mi rivolgeva un sorriso stentato, i miei racconti non suscitavano alcun commento da parte sua. Non passava pomeriggio senza che cercassi di trovare un pretesto per portarla fuori; per farmi piacere lei accettava, ma poi tornava a casa sfinita e correva subito a rimettersi a letto. Andò avanti così fino al giorno in cui mi resi conto che le faceva piacere andare al supermercato: come i tahitiani all’arrivo del capitano Cook e del suo variopinto equipaggio, spalancava gli occhi davanti agli scaffali pieni di mercanzie sconosciute. Finalmente qualcosa che suscitava il suo interesse. Decisi di insistere: saremmo andate al supermercato tutti i giorni. Scoprimmo i prodotti per la pulizia della casa (a parte il sapone e le pagliette per noi era tutto nuovo). L’abbondanza delle merci, i colori delle confezioni e dei flaconi, e tutte quelle etichette che assicuravano risultati strabilianti mi affascinavano. Il reparto bricolage dava voglia di sistemare un po’ il nostro appartamento, e noi confrontavamo martelli, chiodi, tenaglie, pinze. E i prodotti di bellezza! Snobbati nella nostra vita precedente, risplendevano adesso negli espositori, promettendo miracoli. Mia madre guardava ammirata la gamma degli smalti, degli articoli per la manicure, dei rossetti, delle creme per le mani, dei fermacapelli.

 

I supermercati continuano a piacermi molto: ogni volta che sbarco in una nuova città, per celebrare il primo incontro con il paese in cui sono appena arrivata vado a farci un giro, preferibilmente da sola. Ho bisogno di raccoglimento. Certo, è passata l’epoca in cui in ogni luogo si trovavano prodotti diversi, in cui bastava uno sguardo per cogliere abitudini alimentari, ricchezza e povertà, ossessioni e miti. Ma l’omologazione non è ancora assoluta: sussistono, e sono sempre significative, differenze di assortimento e di presentazione. I nomi vengono modificati o adattati in strani modi. I campioni del marketing nell’èra della globalizzazione vi aggiungono a volte un tocco personale che fa tanto «local».

A distanza di anni dalle nostre incursioni quotidiane all’UPIM di corso Vercelli, continuo a provare un senso di pace, a respirare meglio dopo un attento giro in un supermercato.

 

 

 

La mia vita era divisa in due: da un lato il liceo, dove le mie capacità di adattamento si erano rivelate portentose (i tre mesi di corso intensivo di suor Gisella avevano prodotto i risultati sperati: ero ben lungi dall’essere irrecuperabile, e di conseguenza il suo affetto per me non fece che aumentare), dall’altro l’appartamento in cui vivevo con la mia famiglia, dove mi toccava far fronte a una situazione per me inedita.

Nella mia nuova vita mi trovavo meglio che in quella passata. Concentrata com’ero sull’obiettivo di non dispiacere, non avevo neppure immaginato di poter piacere. E invece era proprio quello che stava accadendo. Sentivo nascere intorno a me un sentimento di amicizia, le compagne mi accettavano fra loro in modo naturale e persino affettuoso; la ricreazione era tutta una chiacchiera, il tragitto di ritorno a casa si allungava a furia di accompagnamenti reciproci. Sapevo bene di non essere esattamente io quella che piaceva, ma in fin dei conti... si trattava pur sempre di una parte di me, sebbene edulcorata e ammorbidita dai consigli del conte Mosca.

Lo stravolgimento era totale. Stavo cambiando lingua e questo comportava una rivoluzione interiore. Ci sono interi trattati di neuropsichiatria al riguardo. La nostra stessa voce suona diversa, diciamo cose che non avremmo detto, pensiamo in modo un po’ diverso, non reagiamo nella stessa maniera. La lingua che usiamo condiziona il nostro corpo e i nostri sogni. Un’altra cultura si fa strada in noi attraverso canali insospettabili, improvvisamente il mistero di una canzone, di una battuta diventa accessibile, capiamo i sottintesi, possiamo scherzare. Quando parliamo per tutto il giorno una nuova lingua può accadere che la nostra vita prenda un’altra direzione e che il nostro carattere si modifichi.

Anni dopo un amico mi ha consigliato La lingua salvata di Elias Canetti: l’ho letto con entusiasmo. Tutte quelle lingue nella sua infanzia (ancora peggio di me), per poi arrivare alla scelta esclusiva di una sola fra queste, la più ostica e l’ultima in ordine di acquisizione. Ebbi la sensazione che le sue identità dissociate coesistessero a fatica, a volte addirittura con rabbia. Descriveva con estrema precisione l’apporto di ciascuna lingua e le metamorfosi che induceva l’uso dell’una o dell’altra. Nel suo caso, sembrava che tutto questo avesse a che fare con l’arte della fuga e mascherasse un fondo di dolore. Lui, che non era né turco, né bulgaro, né svizzero, né inglese, né austriaco, aveva finito con l’eleggere a patria il tedesco, la lingua preferita dalla madre, la lingua dei suoi libri.

 

L’accettazione, nel complesso gioiosa, della mia nuova vita coincise con l’inizio della distruzione più o meno consapevole di quella passata. Le due lingue che non mi servivano ormai più a niente e che non parlavo più con nessuno, l’arabo e il greco, si dissolsero nel giro di qualche settimana (ricordo soltanto due canzoncine per bambini, una per ogni lingua, di cui tuttavia non conosco più il significato). Dai miei discorsi sparì ogni riferimento all’Oriente. Avevo la fortuna che Alessandria fosse anche il nome di una città del Piemonte, e più di una volta mi capitò di rispondere con un garbato sorriso di assenso alla domanda: «Alessandria? Sei piemontese?».

Abukir, le traversate del Mediterraneo, Napoleone e Nelson, l’asino che ragliava, Mohammed e i mendicanti, il deserto e le grandi tende marroni dei beduini, i sandwich al tonno che mangiavamo in barca, i racconti di guerre e di navi, lo stormire delle palme sotto la mia finestra, i dolci greci, la campagna del Delta e le piante di cotone, il canale di Suez – tutto ciò che ero, tutto ciò che costituiva la fitta trama del mio essere occupava ormai pochissimo spazio, lo stesso spazio che può occupare in uno scrigno un antico gioiello di famiglia. Accuratamente messo sotto chiave, accuratamente sistemato in un nascondiglio in fondo a un armadio. Sempre più dimenticato.

 

 

 

Nessuno riesce a controllarsi alla perfezione. Passando dall’andatura misurata e prudente dei primi tempi a un allegro trotto nei mesi successivi, e poi a un vivace galoppo l’anno dopo, acquistai fiducia in me stessa e mi lasciai un po’ andare. Inutile negare che i miei successi mi facevano piacere; ormai prossima alla fine delle scuole superiori, abbassai la guardia. Dimenticai il conte Mosca: mi precipitavo a consegnare il compito per prima, partecipavo a tutte le discussioni, non rinunciavo alle «obiezioni schiaccianti», osavo contraddire.

Qualcosa cambiò nello sguardo degli altri. Non in quello delle insegnanti, per le quali il mio buon rendimento scolastico era una soddisfazione professionale, ma in quello delle compagne. Capii che da un momento all’altro avrei potuto intravedere nei loro occhi espressioni infastidite o sentirmi rivolgere parole taglienti. La sola idea di non essere più accettata dalle mie amiche mi spaventava. La ragazzina un po’ selvaggia e battagliera, l’adolescente che nutriva sogni di gloria lasciarono il posto a una giovane donna ansiosa che più di ogni altra cosa temeva di essere esclusa.

Senza mortificare troppo il mio amor proprio, come una ginnasta alle prime armi in cerca di un difficile equilibrio, decisi di correggere all’istante il mio atteggiamento per recuperare stabilità. Basta con i temi consegnati con troppa sollecitudine, basta con i compiti perfetti, di latino o di matematica, basta con le verifiche impeccabili. Uno o due errori (mai comunque troppo gravi), aggiunti in modo sistematico all’ultimo momento, suscitarono le reazioni stupite delle insegnanti: «Ma che ti succede? È un peccato! In questo periodo sembri distratta. La prossima volta cerca di concentrarti. E, mi raccomando, rileggi il compito».

Con le mie compagne tutto tornò come prima.

Meglio un po’ distratta o deconcentrata che di nuovo sola.

 

Se mi pesa raccontare questo aneddoto, se in un certo senso me ne vergogno, è perché non so come catalogarlo. Come una prova di vigliaccheria? O di coraggio? Entrambe le ipotesi sono verosimili. Orgoglio? Umiltà? Ipocrisia? Forse tutt’e tre le cose. Risale a quel periodo l’inizio di un moto oscillatorio perpetuo in base al quale correggevo con zelo tutti gli eccessi verso cui mi portavano la mia indole e i miei sogni. A volte ancor prima che risultassero visibili a chi mi stava accanto. Visto da fuori può sembrare un comportamento curioso: nascondere i propri talenti come se fossero tare vergognose ha in sé qualcosa di stravagante e incomprensibile. Ma funzionava. Mi esercitavo nell’arte del mimetismo. Più mi dimostravo adatta al nuovo ambiente, più venivo accettata e più mietevo successi: agli esami, con i compagni di università, poi con i colleghi di lavoro.

Ma non mancavano gli inconvenienti: quando affioravano i tratti del mio vero carattere, anche i più anodini, i miei interlocutori restavano sgomenti, turbati; il più delle volte si convincevano che si trattava di una stranezza momentanea, confondendo in tal modo sostanza e apparenza, nucleo e superficie.

 

Molto più grave e inevitabile era il distacco che si stava creando fra me e i miei genitori. A mano a mano che diventava milanese, la loro figlia prendeva il largo. Navigavo col vento in poppa, mentre loro andavano alla deriva su una zattera di solitudine. Il loro letto ne era l’evidente metafora (da anni ormai avevano camere separate, ma a Milano dormivano insieme). Di sera se ne stavano seduti o sdraiati, appiccicati l’uno all’altra, con lo sguardo assente e gli occhi incollati allo schermo azzurrino del televisore, e aspettavano che arrivasse il sonno senza scambiarsi una parola. I due naufraghi guardavano per ore, senza batter ciglio, le trasmissioni più insulse dell’epoca, successi popolari come Lascia o raddoppia?, condotto dall’onnipresente Mike Bongiorno, o il festival di Sanremo o le sfide tra Mina e Milva.

Era uno strazio.

 

 

 

Dell’università (mi iscrissi alla facoltà di Lingue e letterature straniere) ho un ricordo sbiadito, se si eccettuano i pochi mesi dell’ultimo anno in cui conobbi un giovane professore inglese, per l’esattezza gallese. Era lettore e titolare di un seminario, e dedicava il suo tempo a insegnare Shakespeare a un uditorio quasi esclusivamente femminile. Con noi ragazze faceva il playboy, ma io ero più brava di lui. Per quanto Thomas fosse navigato, io avevo istintivamente messo a punto un misto di distacco, ammirazione e timidezza con cui ero riuscita a farmi notare e amare.

E poi c’era Shakespeare.

Thomas aveva chiesto a ciascuno di noi di preparare una tesina di circa trenta pagine sul suo dramma preferito. Io avevo scelto Antonio e Cleopatra. Mi misi a scrivere abbandonando ogni precauzione: il liceo era finito da un pezzo, stavo per terminare l’università, non avevo più motivo di frenarmi, soprattutto parlando di un dramma così paradossale, incandescente, politico e, al tempo stesso, così intimo. Cleopatra, poi, dire che la conoscevo è poco. A furia di leggere e rileggere ogni scena, avevo l’impressione di capirla dal di dentro. A lei dedicai quasi tutta la tesina. Shakespeare, che aveva potuto consultare solo le fonti storiche dei vincitori, tutte testimonianze a carico, spesso piuttosto grossolane, le aveva interpretate con estrema libertà e si era astenuto dal formulare qualsiasi giudizio negativo. Il suo dramma metteva in scena lo scontro fra Roma e l’Oriente, due mondi che non parlavano la stessa lingua. Alla protagonista aveva attribuito doti e difetti contraddittori. Cleopatra ha una fantasia fervida; sprizza energia da tutti i pori; fa e dice cose strane, che dovevano aver stupito perfino i primi spettatori, pur avvezzi agli eccessi elisabettiani. Da dove viene fuori, ad esempio, e che significato ha l’immagine quasi commovente della regina (non più giovanissima, già matura, già madre) che saltella su un piede e poi si ferma per riprendere fiato nelle strade di Alessandria? È Enobarbo, l’amico di Antonio, a descrivere la scena:

 

L’ho vista una volta fare su un piede solo

quaranta passi sulla pubblica via.

Aveva perduto il respiro

e parlava con affanno ...

e senza alito

alitava un potente incanto.

 

Ma dopotutto, se dobbiamo credere a Bernard Shaw, dieci anni prima, per riuscire a incontrare e sedurre Cesare, non si era fatta avvolgere in un tappeto? Regna su un impero, eppure si comporta come una giovinetta. È crudele ed emotiva, generosa e gelosa («Nana e con la voce bassa ... la sua faccia ... troppo rotonda ... quasi tutti quelli di faccia tonda sono stupidi» dice di Ottavia, la moglie di Antonio). E pochi minuti dopo aver pronunciato una frase da bambina si esprime come l’onnipotente regina d’Oriente, una dea in terra. Si pensi, per esempio, a questi strani versi:

 

O anni miei teneri come lattuga

e verdi di giudizio...

 

(Sì, Shakespeare le fa dire proprio: «My salad days». È una graziosa facezia; la maggior parte dei traduttori cerca soluzioni che ne attenuino la stranezza).

E a questi altri, poco più avanti:

 

Io porterò il mio peso in questa guerra

e, capo del mio Stato, devo parteciparvi

come un uomo...

 

O alle iperboli di cui si serve per parlare di Antonio:

 

Il suo viso era come il cielo ...

Le sue gambe cavalcavano l’oceano ...

I suoi piaceri erano come i delfini...

 

O infine al suo costante desiderio di stupirlo:

 

... Se è triste digli che ballo,

se è allegro che un male improvviso mi ha colpita...

 

Trovavo al contempo bello e complicato l’ultimo atto, così lirico, in cui amore e morte si incontrano e si intrecciano con la naturalezza della fatalità. Il poeta non esita a interrompere l’incontro fra la regina e Ottaviano con una scena breve e amara in cui Seleuco, l’onesto tesoriere, tradisce la sua padrona, e lo fa dinanzi a lei, senza provare la minima vergogna. La tradisce semplicemente perché lei è stata sconfitta e lui, come tutti i poveri sciocchi, si sente anche la coscienza a posto.

Per farla breve, lavorai sodo; ne venne fuori una bella tesina, ben strutturata e molto personale. Il colmo della civetteria fu scegliere come chiusura le eloquenti parole di Enobarbo, un romano, ovvero un nemico di Cleopatra, che nonostante tutto non può nascondere l’ammirazione che nutre per lei:

 

Né l’età può farla appassire, né l’abitudine

consumare la sua infinita diversità.

 

 

 

I mesi trascorsi con Thomas furono mesi felici. Nei primi giorni della nostra convivenza mi controllavo molto per paura di spaventarlo. Poi, dapprima in dosi omeopatiche, quindi con cautela e infine senza più alcun freno, a mano a mano che alla passione si accompagnava la fiducia, cominciai a raccontargli quello che non avevo mai confessato a nessuno.

Entrambi dedicavamo il giorno allo studio, ma di notte l’aspirante Cleopatra lasciava il posto a una Sheherazade alle prime armi. Le ore passavano, noi bisbigliavamo a voce sempre più bassa. Thomas ascoltava, sorrideva, raccontava anche lui, si assopiva, mi stringeva forte a sé, parlava del futuro. E soprattutto non sembrava sconcertato, né imbarazzato da quello che gli dicevo. Non lo spaventavo affatto. Ne ero profondamente stupita. A volte addirittura lo facevo ridere. Non mostrò mai la minima perplessità neppure quando, mescolando il passato, il presente, le mie letture, i miei interessi, le cose che avevo perso, i miei sogni di gloria, le mie angosce, mi lasciavo andare fino a essere quasi del tutto me stessa. Una sera, come per sottoporlo alla prova decisiva, gli parlai delle battaglie navali e delle mie conoscenze tecniche in fatto di armi da fuoco antiche e moderne. La sua sola reazione fu un sobrio «mio padre apprezzerebbe molto», che ebbe l’effetto di mandarmi in estasi.

Qualunque fosse il clima, dormivamo con le finestre aperte; di mattina cercavo di prolungare il momento in cui i raggi del sole gli imbiondivano gli avambracci. Contemplavo le sue ciglia. A volte, per far durare più a lungo il suo sonno, e anche la mia gioia, agivo d’astuzia e, trattenendo il fiato, liberavo lentamente una spalla, raggiungevo la sveglia con la mano e spostavo la lancetta di un’ora.

 

La separazione fu orrenda. Penso che la colpa sia stata mia. Ogni volta che lui accennava al futuro, io restavo zitta. Eppure ero consapevole che a luglio il suo incarico di lettore in Italia sarebbe terminato e che avrebbe dovuto riprendere il suo posto di docente all’università, dove gli si prospettava una brillante carriera. Se non avevo detto niente era stato perché non sapevo come fare. A venticinque anni, sentivo che non potevo ripartire, abbandonare i due naufraghi sulla loro zattera, cambiare di nuovo lingua e paese. Non potevo.

Thomas piangeva, io scappai via in lacrime.

 

 

 

Il movimento sessantottino arrivò in Italia con un discreto ritardo. Su tutti i giornali si fece un gran parlare del Maggio francese, ma niente di più. Seguì un’estate tranquillissima in tutto il paese. Verso settembre, ottobre, a Milano cominciò a muoversi qualcosa, che tuttavia esplose solo l’anno successivo. Il Sessantotto, cominciato tardi e lentamente, durò moltissimo e, col passar del tempo, fu sempre più spesso segnato da episodi di terrorismo, attentati, violenza urbana, e da una profonda radicalizzazione dei movimenti studenteschi e operai.

Presi parte a quello strano periodo, che era iniziato con allegri cortei di studenti e «lavoratori» per le vie della città ed era poi continuato con scontri tra fazioni avverse, da una posizione privilegiata: la redazione di un giornale.

Avevo cercato lavoro e l’avevo trovato. Mi ero presentata, senza particolari raccomandazioni, in due giornali. Avevo capito che era quello che volevo fare nella vita: ai miei occhi, era il mestiere che meglio di qualsiasi altro mi avrebbe permesso di osservare da vicino le forze politiche in gioco, di viaggiare, di raccontare il mondo. Le due persone con cui avevo parlato mi dissero le solite cose che si dicono in questi casi: io non avevo esperienza, e loro non avevano bisogno di nessuno. Feci finta di non aver sentito e cominciai a mandare pezzi di attualità e recensioni di spettacoli teatrali che nessuno mi aveva chiesto, e intanto passavo regolarmente a salutare.

Quattro settimane dopo mi chiamarono da una delle due redazioni per dirmi che mi avrebbero pubblicato un pezzo sul teatro, mentre l’altro giornale mi mandò un contratto per un anno. Con tatto prudente e un falso ritegno cercai di sfruttare la concorrenza tra le due testate. Alla fine, senza contrattare lo stipendio, accettai l’offerta di quella che consideravo più prestigiosa. Apparteneva a uno dei due grandi gruppi a cui in Italia faceva capo l’universo dei media, proprietari di quotidiani e settimanali di ogni tipo, case editrici e quote nelle radio libere.

La sera in cui mi pagarono il primo stipendio fu una mezza festa. Corsi dai miei genitori ad annunciare la bella notizia sapendo che sarebbero stati molto contenti. Anche per me era una gioia potergli dire che volevo aiutarli e che da quell’anno in poi sarebbero andati di nuovo in vacanza. Non restava che scegliere il posto. Nominarono alcune destinazioni sulle quali non erano d’accordo. Mi chiesero se avevo intenzione di accompagnarli. Risposi di sì, ma che non mi sarei fermata. Proposi Antibes. Calò il silenzio. Un minuto dopo, con voce dolce ma ferma, entrambi dissero di no. Me ne andai, lasciandoli con un argomento di conversazione che li avrebbe tenuti occupati per diversi giorni.

Quella sera l’immenso sollievo di avere un lavoro e per di più proprio quello che desideravo fu in parte guastato da una sensazione spiacevole. Ormai da tempo avevo capito che ogni passo avanti, ogni nuova tappa restringevano il ventaglio delle mie possibilità. Ogni volta che raggiungevo un obiettivo rinunciavo a migliaia di altre cose e mi allontanavo da quello che fino a quel momento avevo considerato il mio destino. So che è stupido dirlo, ma avevo cominciato a intuire che anch’io, come altri miliardi di biglie colorate, stavo entrando in un imbuto e che quanto più profondamente mi ci fossi incanalata, fra gli applausi di un pubblico immaginario, tanto più mi sarei lasciata inesorabilmente alle spalle le «idee inesprimibili e inconsistenti» che avevano segnato la mia giovinezza.

Per molto tempo non mi ero resa conto di quanto fosse, per così dire, penalizzante appartenere al genere femminile: l’idea, innegabile, che fosse difficile per una donna figurarsi un destino come quello di Lawrence d’Arabia non mi aveva minimamente sfiorata. Del resto, non mi era stato fornito al riguardo nessun indizio. Poiché ai miei genitori non era mai venuto in mente di vietarmi nulla, non avevo mai sentito parlare di cose che, in quanto femmina, non potevo fare. L’aver trascorso l’infanzia e la giovinezza in una città del Medio Oriente sprofondata in un apparente torpore non poteva aprirmi gli occhi su quella realtà. La differenza tra uomo e donna, infatti, veniva in qualche modo oscurata da quella sociale, ben più significativa: da una parte c’era chi nasceva fra i cosiddetti ricchi «europei», dall’altra chi nasceva in mezzo al popolo e viveva più o meno come ai tempi della Bibbia. E l’essere andata a scuola dalle suore, in classi tutte femminili, mi aveva privata del confronto fisico e intellettuale con i maschi, rafforzando paradossalmente quello che definirei senz’altro uno stravagante equivoco.

 

 

 

Le prime settimane di lavoro mi piacquero a tal punto che quasi non riuscivo a capacitarmene. La mattina saltavo con entusiasmo sul gradino del tram (all’epoca erano di un orribile verde bottiglia e non avevano più di una vettura). Ogni malinconia esistenziale svaniva, sconfitta dalla sensazione di rigoglioso benessere che mi pervadeva al pensiero che la vita vera stesse cominciando. Era un periodo emozionante. La città era scossa da tumulti quotidiani. Le assemblee di redazione si susseguivano. Tutti parlavano di politica. Sembrava di vivere una prolungata e agitata ricreazione. Mi guardavo bene dal farlo notare: l’atmosfera era improntata alla gravità e i miei nuovi amici avevano i volti stanchi e preoccupati dei combattenti all’alba di una rivoluzione, o almeno di chi si appresta a scrivere una nuova pagina di storia.

Il giornale usciva regolarmente, ma gli articoli pubblicati tendevano a forzare ora da una parte ora dall’altra la linea editoriale. Il direttore, che era tenuto a rendere conto dell’orientamento del quotidiano ad azionisti che si presumevano conservatori, si destreggiava come poteva. Era una brava persona, e io gli ero grata di avermi assunta. E così cercavo di conciliare entrambe le cose, la passione per il lavoro e la partecipazione ai dibattiti austeri e fumosi che si svolgevano in mensa.

Si era formata una coppia che, un po’ alla volta, aveva preso le redini del movimento all’interno del giornale (è sempre difficile dire da quale complicatissima alchimia nasca una leadership). Vittoria e Paolo erano entrambi sposati, con tanto di figli piccoli credo, ma la passione politica aveva mandato all’aria il loro «comfort borghese». Questa era la versione dei fatti che davano, e tutti pensavano che fosse una cosa bella, un gesto quasi eroico, e comunque consono al periodo in cui vivevamo. Avevano fama di essere stati bravi giornalisti, ma ormai il lavoro era l’ultimo dei loro crucci. Erano giorno e notte al servizio della lotta di classe, a cui sacrificavano anche quell’amore sincero e reciproco. Di conseguenza, nella pausa pranzo, ci dovevamo sorbire, in religioso raccoglimento, la lettura delle opere di Gramsci, stando attentissimi a non fare troppo rumore con le posate per non turbare la concentrazione e la riflessione. Gramsci, che per me fu una scoperta, mi appassionava, ma nutrivo qualche dubbio sul metodo e trovavo esagerata l’istituzione di una sorta di messa quotidiana obbligatoria.

Alcuni giorni dopo mi chiesero di tradurre dal francese un testo di Ho Chi Minh. Lessi le dodici pagine in questione – un’accozzaglia di idiozie scritte in un linguaggio incomprensibile, ingenuo e pomposo – e decisi di avvertire in privato i due leader del fatto che mi sembrava un testo senza grande valore, forse addirittura un falso. Se ne ebbero a male: «Ce lo hanno mandato i compagni di Boulogne-Billancourt». Confesso che, incapace di dissuaderli, feci ciò che mi veniva chiesto senza più obiettare. Con una stretta al cuore, e non perché dovessi tradurre la falsa lettera di Ho Chi Minh, ma perché per l’ennesima volta mi toccava fare i conti con il modello imposto dall’ambiente circostante e tentare tutte le acrobazie possibili per evitare di apparire diversa. Solo il contesto era cambiato: non più una classe di ragazze di buona famiglia, ma un manipolo di guerriglieri autoproclamatisi tali, di zeloti cocciuti, profeti e soldati di un mondo nuovo.

Eppure Vittoria era una donna colta, credo fosse stata sempre la prima della classe: la tipica brava ragazza su cui si può fare affidamento. Non avrebbe sfigurato al liceo delle Marcelline. Era un po’ il genere della guida scout, coraggiosa e sportiva, con l’immancabile coda di cavallo e le scarpe basse. Era diventata la guardiana dell’ideologia; l’amore per il suo compagno era rafforzato dalla sconfinata ammirazione che nutriva per lui; di tanto in tanto ci richiamava al silenzio, severa: «Paolo ci sta dicendo qualcosa di importante».

Paolo le aveva generosamente delegato tutte le incombenze; piuttosto simpatico, un po’ furbacchione, non mancava certo di fascino, eppure ancora non mi spiego l’ascendente che aveva su Vittoria e su tutta la redazione. Tanto più che aveva colto al volo l’occasione offerta dagli eventi storici per non scrivere più neppure una riga per il giornale. Quando dalla redazione gli chiedevano un articolo, assumeva un’aria amichevole e accondiscendente per rispondere più o meno sempre la stessa cosa: «Se proprio insistete, d’accordo, perché no, ma con tutto quello che sta succedendo, mi chiedo che senso abbia...». E la cosa si fermava lì.

Ogni tanto provavo a convincere il direttore ad assegnarmi alla «Politica interna». Senza alcun successo; non riuscivo ad affrancarmi dalla redazione culturale e, quasi senza volerlo, per il semplice fatto che ero entrata al giornale attraverso quel tramite, cominciai a specializzarmi nella critica teatrale. Decisi di aspettare un po’, di non forzare la mano e di cercare di capire se per caso avrei potuto un giorno, incontrando il principale azionista, convincere i miei superiori che ero tagliata per scrivere di politica.

 

 

 

I miei genitori scelsero come destinazione delle loro prime vacanze Lugano. La località offriva molti vantaggi: vicina com’era, mi permetteva di andare a trovarli di tanto in tanto senza fermarmi da loro più di mezza giornata. La camera che avevano preso in affitto in un garni era minuscola, ma costava poco ed era impeccabile. Mi tornò in mente una frase di mia nonna: «Quando diventi vecchio, cominci a preferire la Svizzera a qualsiasi altro paese». La città era tirata a lucido; incassata fra due montagne boscose che digradavano dolcemente, si estendeva lungo le rive di uno dei più piccoli laghi prealpini; sui marciapiedi era un susseguirsi di caffè, banche e pasticcerie.

Nella vita di mio padre e mia madre tutto si stava ridimensionando: il destino li aveva costretti a rinunciare ai grandi porti e ad accontentarsi di vaghe imitazioni lacustri. Al posto dei marosi e dei forti venti, il placido sciabordio dell’acqua sotto i pontili. Al posto dei piroscafi e dei dock, bianche imbarcazioni da operetta adibite al «giro del lago» e pedalò variopinti a forma di automobile. Ma a loro andava bene così (intuivo che Lugano sarebbe diventata una meta fissa; non mi sbagliavo: ci tornarono ogni anno). Ed ero quasi sicura che, fra le maggiori attrattive del luogo, ci fosse la vicinanza di un casinò.

Chi non frequenta i casinò pensa che siano locali destinati a ricchi giocatori pronti a rischiare l’intero patrimonio. In realtà sono i poveri a trarne il maggior piacere. Vestirsi bene, aspettare l’orario di apertura, puntare piccole somme riflettendo a lungo (chissà poi su che cosa, diamine...), rallegrarsi di una vincita modesta, parlarne come se si trattasse di una cosa seria, mettere in atto una successione di complicati rituali, commentare l’inatteso ripetersi di un numero, di un cavallo, di una terzina: ce n’è abbastanza per occupare i pomeriggi. E se sei un giocatore, lasciare il tavolo della roulette a un’ora prefissata, indipendentemente dall’andamento del gioco e dallo stato delle tue finanze, è un atto eroico che dà soddisfazioni inimmaginabili per un profano.

Non ho mai rimproverato ai miei genitori di aver speso in quel modo una parte dei loro miseri risparmi. Anzi, mi sembrava che fosse una cosa buona, coerente con la loro vita passata e con il loro atteggiamento irriverente nei confronti del denaro. Lugano e il casinò di Campione d’Italia esercitavano sull’umore di entrambi, specialmente su quello di mia madre, un influsso benefico. Quando mi raccontava dei pomeriggi trascorsi a giocare si animava e ricominciava a interessarsi ad altro, in primo luogo alla pittura e alla scultura, per le quali aveva non solo grandi doti, ma anche una sensibilità e una memoria visiva eccezionali.

In una lussuosa villa in riva al lago c’era una bellissima collezione aperta al pubblico. Era la collezione Thyssen-Bornemisza, che qualche anno fa è stata trasferita dalla Svizzera in un palazzo di Madrid. Quei quadri di dimensioni piuttosto ridotte, come spesso accade nelle collezioni private, per lo più ritratti, fra i quali alcune opere notevoli, erano diventati lo scopo principale delle sue frequenti visite. Rassicurato e sollevato, mio padre la seguiva. Mia madre parlava con una foga che non le sentivo più da dodici, tredici anni e che le coloriva il viso. Ricordo in particolare un ritratto di ragazzo di Raffaello, molto più audace e insolente di tutto il resto della sua produzione. Era una meraviglia. Mia madre mi fece notare la bravura del pittore che aveva scelto di dipingere il soggetto di tre quarti affinché lo sguardo risultasse obliquo ma franco, e poi la fossetta sul mento e il labbro superiore leggermente sollevato. In quello sguardo provocante c’era una punta di ironia. «È così bello» mi disse «che non credo sia soltanto di mano sua».

Nella stessa sala un bambino biondo dipinto da Piero della Francesca, con indosso un manto di velluto color porpora e una manica ricamata con il filo d’oro, guardava invece qualcosa in lontananza.

E davanti a un Carpaccio che raffigurava un giovane in posizione frontale, solo e pensoso dinanzi a un paesaggio stilizzato, rivestito da un’armatura e intento a estrarre dal fodero la grande spada, mia madre mi disse con aria maliziosa: «... hai visto come ti assomiglia?».

 

 

 

Convincere la direzione e ottenere almeno un colloquio al mese con un politico era un’impresa ardua. Le provavo tutte e avanzavo qualunque proposta mi venisse in mente: interviste, ritratti, confronti a due, e ogni volta promettevo che non avrei trascurato né i miei soliti pezzi sul teatro né il lavoro redazionale. La tecnica che avevo usato per farmi assumere – scrivere di mia iniziativa, senza autorizzazione alcuna, e poi sottoporre al giornale il mio lavoro – in questo caso non poteva funzionare. Mai e poi mai avrei chiesto un’intervista a un ministro sapendo che probabilmente non sarebbe stata pubblicata.

È una delle strade che ho tentato di intraprendere con maggiore determinazione: pensavo che avrebbe potuto aprirmi diverse porte, permettermi di viaggiare, farmi correre qualche rischio. Le attribuivo un’importanza esagerata; lottavo per non farmi ingabbiare nelle pagine culturali alle quali era evidente che i miei dirigenti continuavano cocciutamente a destinarmi.

Tutti i miei tentativi fallirono. Ma portarono a una svolta imprevista.

Ero riuscita a ottenere un colloquio con il proprietario, che era il figlio del fondatore del giornale. Aveva classe, era colto, si diceva che, vent’anni prima, la sua tesi di filosofia avesse lasciato il segno. Alcuni dicevano anche che era bello. Personalmente non mi sarei spinta così in là: era elegante, quello sì. Strizzava spesso gli occhi, come le lucertole. E come le lucertole girava di scatto la testa, lanciava uno sguardo all’interlocutore e di colpo si fermava. Poi, cercando di sorridere, faceva domande che esulavano dall’argomento della conversazione e non ascoltava le risposte (che erano, necessariamente, altrettanto fuori luogo), si alzava o si sedeva senza motivo. Sembrava che facesse sforzi inauditi per non annoiarsi. Il primo incontro durò abbastanza a lungo, ma non parve sbloccare la situazione, e io uscii dalla stanza convinta di non essere riuscita né a parlargli come avrei voluto né a ispirargli fiducia.

Due settimane dopo mi mandò a chiamare. Per una buona mezz’ora tenne discorsi piuttosto sconclusionati: parlò dei suoi collaboratori cercando di essere spiritoso ma risultando invece per lo più malevolmente sarcastico; accennò a certi cambiamenti di ufficio; insistette sul fatto che stavamo attraversando un periodo turbolento, per non dire catastrofico. Dopodiché arrivò la proposta. Mi fu fatta in modo autorevole e, per una volta, senza tanti giri di parole. Aveva bisogno di un direttore per la tipografia (in quegli anni i giornali avevano ancora ognuno la propria). Andavamo incontro a «grandi trasformazioni», bisognava sostituire tutte le macchine, il numero di operai per macchina sarebbe diminuito, nei mesi successivi c’era motivo di temere agitazioni sindacali. Mi propose di dirigere tutta la baracca. Duecentottanta operai e quindici impiegati. La tipografia si trovava nella periferia est. A proposito: sapevo guidare?

 

Un mese dopo ero su un aereo, seduta accanto a un tecnico gentile e rassegnato, in volo per Düsseldorf, dove si teneva un salone delle macchine tipografiche. Avevo accettato. Tutte le riserve che avevo espresso (non avevo nessuna competenza in materia e la mia mancanza d’esperienza sfiorava il ridicolo) erano state liquidate con noncuranza.

Non era quello il problema. Per dirigere, mi aveva detto con un lieve sorriso il proprietario, occorre saper stupire. Solo prendendo uomini e cose in contropiede si guadagnano punti.

Mai mi sarei immaginata una situazione del genere. Una ragazza, una giornalista che scriveva soprattutto di teatro, che era a digiuno di finanza, e ancor più di logistica, che aveva preso parte alle letture rivoluzionarie in mensa ed era assolutamente priva di esperienza su ciò che allora si cominciava a chiamare management... Ecco chi era la persona che il capo aveva scelto per dirigere una grande tipografia, la futura interlocutrice dei rappresentanti dei lavoratori, la garante della buona gestione finanziaria della fabbrica, la dirigente che avrebbe dovuto farsi rispettare. C’era poco da discutere. E difatti nessuno fiatò. In fondo, si diceva, era raro che prendesse delle decisioni, in genere preferiva lasciare che la baracca andasse avanti da sola, ma quando ne prendeva una era quasi sempre quella giusta.

Ancora non lo sapevo: un capo è la versione edulcorata di un tiranno. Il mio non vuole essere un giudizio morale: è così e basta, è parte integrante del ruolo, e conosco ben poche eccezioni a questa regola. Un grande imprenditore (proprio come i tiranni del mondo classico) ha bisogno di circondarsi di un’equilibrata mescolanza di individui a lui totalmente devoti e di personalità forti e intraprendenti. Finché l’equilibrio si mantiene stabile, il successo è quasi assicurato. Se fra i suoi stretti collaboratori le personalità originali diventano troppe, c’è il rischio che il motore si imballi e subentri il caos. Se invece prevale il numero dei devoti, significa che il capo è stanco o vulnerabile, o che, molto semplicemente, sta invecchiando; si entra allora in acque burrascose in cui l’azienda corre rischi mortali.

All’epoca in cui -- con una docilità inspiegabile e un’angoscia invece molto comprensibile -- accettai quell’incarico inaspettato, il punto di equilibrio del mio capo era ancora pressoché soddisfacente.

 

 

 

Alla fine degli anni Sessanta, Einaudi pubblicò una breve raccolta di poesie di Constantinos Kavafis. Erano i mesi in cui mi stavo adattando al mio nuovo ruolo di dirigente di una grande tipografia, e così non feci caso all’uscita del libro, che suscitò un certo scalpore nell’ambiente che continuavo ancora a frequentare per quanto possibile. «Tu che sei nata in Egitto non puoi non conoscerlo» mi disse molto tempo dopo uno dei miei ex compagni di letture gramsciane. No, non ne avevo mai sentito parlare. Quando chiesi di lui ai miei genitori, mi risposero con il tono noncurante che riservavano alle cose del passato. «Sì, mi avevano detto che lavorava all’Ufficio irrigazioni» fu la risposta di mio padre. «Be’, insomma, lavorare... Pare se ne stesse alla scrivania a non far niente tutto il giorno». «Credo di essere troppo giovane per averlo conosciuto» ammise mia madre, lasciando intendere che, se fosse stato davvero un personaggio così importante, lo avrebbe saputo.

La traduzione di Nelo Risi e Margherita Dalmàti era splendida. Le poesie diventavano come trasparenti. Un’acqua limpida, ingannevolmente limpida, in cui si riflettevano l’Alessandria del passato recente e quella dei tempi andati, la povera gente e qualche personaggio storico, comparse ed eroi, rovine e palazzi rivestiti d’oro. Grazie a uno stile terso e preciso al servizio di cronache rarefatte, si intravedevano minuscole storie di personaggi minuscoli, ritratti in un preciso istante o giorno della loro vita. Si aveva la sensazione quasi fisica dello scorrere del tempo, dell’accumularsi della polvere, dell’erosione prodotta dal vento sui muri. Come Omero, di cui è lontano discendente – quello che non ha avuto la fortuna di vivere tempi eroici ma si è dovuto adattare a un’epoca di sgretolamento e di decomposizione –, Kavafis rende eterne le persone e le cose che nomina. Con mezzi deliberatamente sobri, riesce a far emergere una commovente vibrazione dai resti del passato, dal fantasma del passato, verrebbe quasi da dire dal fantasma di un fantasma.

La sua città, quella in cui ero nata pochi anni dopo la sua morte (nello stesso Ospedale greco, peraltro), era nominata o presente in ogni pagina. Di notte, quando lo leggevo con trasporto, potevo illudermi che si stesse rivolgendo a me:

 

Non troverai altro luogo non troverai altro mare.

La città ti verrà dietro ...

non c’è nave non c’è strada per te.

Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto

tu l’hai sciupata su tutta la terra.

 

Alessandria era nata proprio quando era iniziata la decadenza della Grecia classica. E fin dalla sua fondazione, ovvero da due millenni a questa parte, era diventata una specialista in decadenza. Contribuendo, nei suoi periodi bui, a trasformare o a cancellare almeno in parte storie vere e leggende, era sopravvissuta grazie alla sua capacità di adattamento. Quello spirito alessandrino, di cui Kavafis è l’erede perfettamente consapevole, era troppo mutevole e accomodante per sparire del tutto. La sua forza risiedeva nella sua elasticità. E in un singolare fatalismo:

 

E se non puoi la vita che desideri

cerca almeno questo

per quanto sta in te: non sciuparla

nel troppo commercio con la gente

con troppe parole e in un viavai frenetico ...

fino a farne una stucchevole estranea.

 

In quest’opera molte sono le poesie narrative nelle quali la Storia è trattata con il rispetto che si riserva alle anziane signore bugiarde. La poesia Re alessandrini, che racconta dell’incoronazione dei tre figli di Cleopatra, è un esempio quasi miracoloso delle qualità del poeta. Il contrasto fra la messinscena ufficiale e la realtà storica è violento e genera un sentimento di precarietà intenso e sottile. Non una nota di scherno. Solo la serena accettazione del lato ridicolo dell’esistenza:

 

Cesarione stava più avanti

agghindato di seta rosa...

 

Viene consacrato Re dei Re, ma nessuno prende la cosa sul serio:

 

Gli alessandrini si rendevano ben conto

ch’era tutto un frasario da teatro.

 

Però il giorno era mite e melodioso,

il cielo di un azzurro stemperato...

 

E poi ci sono le poesie intime, d’amore, che parlano della solitudine o del desiderio. Come quella che mi piaceva tanto e che oggi mi fa un po’ paura:

 

Mezzanotte e mezza. È passata presto l’ora

dalle nove quando accesi la lampada...

 

e che finisce così:

 

Mezzanotte e mezza. Com’è passata l’ora.

Mezzanotte e mezza. Come sono passati gli anni.

 

L’alessandrino, come hanno presto cominciato a chiamarlo i suoi ammiratori, probabilmente conosceva sia la lieve ebbrezza della mondanità sia la segreta tensione che può suscitare una grande solitudine. Kavafis non sceglie mai. Nelle sue opere non si danno consigli di vita. Non si parla né di bene né di male, e non si fa differenza fra le cose importanti e quelle banali. Il ritratto che ne traccia E.M. Forster, che lo aveva conosciuto da giovane quando era soltanto l’ozioso impiegato dell’Ufficio irrigazioni e l’autore di una ventina di poesie stampate su fogli volanti, mi pare colga nel segno: «Poteva capitare di incontrarlo a un incrocio. Era un gentleman greco con la paglietta in testa, che se ne stava in piedi, immobile, leggermente di sbieco rispetto all’universo».

 

 

 

Da sempre, ovunque mi trovi, nella città in cui abito o in un luogo di passaggio, vengo puntualmente fermata da qualcuno che mi chiede indicazioni stradali. Con amici e parenti abbiamo cominciato a scherzarci sopra: si potrebbe scommettere sul numero di persone che si rivolgeranno a me per avere lumi sul percorso da seguire per raggiungere una destinazione, un ristorante marocchino nei dintorni, il giardinetto più vicino, la farmacia di turno la domenica. Col passar del tempo ho acquisito una certa esperienza, per esprimermi uso poche parole, accompagnandole con gesti precisi – destra, sinistra, sempre dritto. Se mi trovo in una città che non conosco e di cui non parlo la lingua, abbozzo un sorriso di rammarico e allargo le braccia in un atteggiamento di desolata impotenza.

Mia madre, che si divertiva un mondo, ipotizzava a seconda dell’umore spiegazioni contraddittorie: intuiscono che hai la stoffa del generale, sembri più disponibile degli altri, non temono di farti perdere tempo, hai quest’aria perbenino... Thomas diceva che ero rassicurante, che avevano tutti voglia di parlare con me. Altri sostengono che ispiro fiducia.

Secondo me dipende dal fatto che do l’impressione di sapere dove sto andando. Con l’età questo può essere diventato quasi vero, ma per tanti anni rivolgersi a me era non meno incongruo che chiedere la strada a un bambino smarrito. Anch’io venivo da un crocevia decentrato, anch’io ero «di sbieco rispetto all’universo».

Ma facevo finta di sentirmi a casa.

 

 

 

L’avventura della tipografia durò quasi quattro anni. Mi costò molta fatica, poiché le sole armi che avevo a mia disposizione erano curiosità e nervi saldi.

Dal momento che avevo confessato apertamente la mia scarsa competenza, i miei collaboratori erano a loro agio, si facevano le scarpe a vicenda, si sentivano superiori a me nei loro ambiti specifici, mi mettevano a parte delle loro preoccupazioni, non dissimulavano i potenziali rischi e si rallegravano insieme a me dei successi. Per loro fu un buon periodo; e lo fu anche per me, in fin dei conti. Non ci furono gravi catastrofi.

Di tanto in tanto quella lucertola del mio capo chiedeva notizie; poiché non c’era niente di particolare da segnalare a parte qualche sciopero, non perdevamo soldi e i miei collaboratori, interrogati a mia insaputa, non sparlavano troppo di me, pensai che fosse contento. All’epoca non ero ancora abbastanza smaliziata per immaginare e per capire che, se viceversa la situazione si fosse rivelata critica o addirittura drammatica, non sarebbe stato del tutto scontento.

Probabilmente avrebbe trovato la cosa più divertente.

 

Ricominciai a lavorare come giornalista; mi vennero affidati articoli di costume, stavolta senza che li avessi sollecitati; ne ero felicissima. Avevo un sacco di idee per delle serie di articoli da pubblicare durante l’estate. Per ampi reportage. Alle grandi inchieste avremmo pensato più avanti, mi disse il boss (a cui non sarebbe affatto piaciuto essere chiamato boss). Per la prima volta notai la sua bocca così sottile, che gli conferiva un’espressione al contempo debole e autoritaria. Una traccia di saliva bianca alla commessura delle labbra. Ancora una volta mi ripeté che difficilmente in un’altra azienda avrei potuto fare un’esperienza altrettanto vasta e varia.

Era la pura verità.

 

Mi sono sempre piaciute le grandi aziende. C’è chi le paragona agli eserciti, ai battaglioni. Si usano spesso metafore militari. Non credo che le similitudini vadano cercate in questa direzione. Quando penso a un’azienda privata mi viene in mente piuttosto un grosso borgo medioevale. Con tutta una serie di riti consolidatisi nel corso del tempo, con la vita di paese, con la meticolosa distribuzione dei ruoli, che si completano a vicenda e si incastrano perfettamente. È un essere vivente, che ha bisogno di movimento, di scossoni, di feste rituali, di drammi purificatori. Al suo interno alcuni personaggi ricorrenti che si ritrovano uguali dappertutto. Veri e propri archetipi: il principe, il gran ciambellano, il granduca o la granduchessa, l’ipersensibile votata al sacrificio, il burbero bonaccione, il nevrotico subdolo, la Cassandra disperata, il saputello che scalpita, il traditore sorridente, il traditore triste, la kapò, il prode cavaliere, il tipo brillante, il buontempone, il cavilloso o la cavillosa che non mollano mai la presa.

Nel caso di una società più grande, o di una multinazionale, si passa al modello della città high-tech, con tanto di risvolti fantascientifici. Dal momento che non c’è un principe o, se c’è, è necessariamente di passaggio, il potere è avvolto nella nebbia; il linguaggio è più codificato; i momenti di festa o quelli di tragedia seguono rituali più complessi. Eppure anche qui si ritrovano gli stessi archetipi, con il medesimo modo di esprimersi, i medesimi rapporti di forza, a volte addirittura (ed è sorprendente) con corpi, atteggiamenti o volti simili.

 

 

 

Fu durante un’estate a Lugano – ricordo ancora il colore delle mie espadrilles – che mi accorsi di come mia madre avesse sempre meno fiato. Cinquanta passi appena e dovevamo fare una breve sosta sul marciapiede. Un profondo senso di sollievo quando ci sedevamo al tavolino di un bar. Sorrisi forzati. Il giorno dopo a Milano non ci pensavo già più.

E fu sempre a Lugano, in una primavera fredda – avevo un impermeabile azzurro con il cappuccio –, che ebbe luogo, in una pasticceria, una scena muta. Un uomo slanciato, agile, con il viso spigoloso, accompagnato da un uomo più giovane che gli assomigliava molto, entrò e si avvicinò al bancone per scegliere dei pasticcini. Lo riconobbi, anche se non lo vedevo da molto tempo: era venuto diverse volte a trovarci ad Antibes, era presente al vernissage della mostra a Roma, mi aveva regalato una collana di turchesi, era un amico di lunga data, sempre leale e affettuoso, insegnava architettura a Zurigo. Ero già balzata in piedi, pronta a chiamarlo e salutarlo, quando mi girai verso mia madre. Lei mi strinse il braccio con forza e, senza dire una parola, mi ingiunse di rimettermi a sedere. Si era nascosta dietro il giornale aperto. Il mio «Corriere della Sera», che aveva afferrato con rabbia.

Non capivo, ma cominciavo a capire. Nel giro di pochi, lunghissimi minuti, quell’uomo e suo figlio presero il pacchetto, pagarono senza voltarsi verso i tavoli della sala da tè e, a grandi passi dinoccolati, si diressero verso la porta girevole. Anche le lacrime erano silenziose, dietro quel povero «Corriere» tutto spiegazzato. Ci volle un bel po’ prima che dicessi a mia madre che poteva finalmente posare il giornale: Werner se n’era andato.

Lasciai passare ancora qualche istante, mi alzai per pagare il conto, tornai al tavolo, le asciugai il viso con il tovagliolo, come se avesse avuto tre anni e le dissi con fermezza di alzarsi. Dovevamo andare a fare due passi.

Mezz’ora dopo ruppe il silenzio e disse: «... non volevo che mi vedesse così, non sono più io».

Quando, dopo cena, ripresi l’autostrada per Milano al volante della mia Mini Cooper bianca di cui andavo fierissima, mi tornarono in mente alla rinfusa molti episodi della mia infanzia e della mia adolescenza. I pezzi sparsi tornavano al loro posto, a blocchi, senza difficoltà. Ripensavo anche a tutte quelle buste che erano conservate nell’armadio a muro della cucina, sul ripiano in alto, dietro le spezie: su ognuna c’era scritto il nome di mia madre e l’indicazione «fermo posta». Ce n’erano parecchi fasci, e provenivano da paesi diversi; la data sul timbro a volte era vecchissima, altre volte piuttosto recente.

Lo sapevo già: l’amore può attraversare le esistenze come un fiume sotterraneo; irrigarle senza mai salire in superficie. Ma, quando si avvicina la fine, tutto si complica.

 

 

 

Il grande capo lucertola mi aveva fatto un bellissimo regalo, autorizzando il direttore del giornale a nominarmi responsabile delle pagine di «Costume e Società». Alternavo argomenti seri ad altri meno seri, stabilivo collegamenti con l’attualità politica senza calcare troppo la mano, condivo le mie pagine con qualche informazione di tipo culturale, evitando però ogni sorta di pedanteria. La squadra che dirigevo era davvero esigua se paragonata a quella degli anni precedenti. Ritmi diversi, nessun problema di gestione del personale, reporting e responsabilità finanziarie ridotte all’osso.

Ero contenta. Decisi di essere prudente.

Se mi fossi lasciata andare al mio vero stato d’animo, avrei fatto salti di gioia. Dentro di me fremevo di piacere. Stavolta il conte Mosca non si dimenticò di me. Mi ispirò un atteggiamento posato, di cauta fiducia in me stessa. Sparsi la voce che ero ben lungi dall’esser certa di poter soddisfare le aspettative che avevo suscitato; non era facile avviare un processo di rinnovamento; trovare il cocktail di ingredienti giusto per riempire quelle pagine, giorno dopo giorno, era una questione delicata.

Avevo bisogno di aiuto e di idee; li chiesi a tutti, in particolare al mio benevolo direttore; quanto a colui che «con grande generosità mi aveva già offerto tante occasioni professionali» (erano parole sue, riferitemi da un’amica), non appena ebbi modo di parlargli, gli lasciai intendere che non ero sicura di cavarmela e gli chiesi di concedermi un anno prima di esprimere un giudizio; avrei fatto di tutto per non deluderlo, ma forse il compito, che richiedeva al contempo una grande inventiva e una buona dose di resistenza, entrambe indispensabili per garantire un rinnovamento che non rompesse con la tradizione, era troppo arduo per me.

Ne fu sorpreso, ma non lo diede a vedere. Per una frazione di secondo gli vidi brillare negli occhi grigi un lampo di diffidenza. Ma subito dopo scomparve, e le sue palpebre si strinsero in un sorriso.

Mi ero guadagnata un anno di pace.

 

Conservo un bel ricordo di un servizio estivo in cinque puntate in cui provai a uscire un po’ dal solco. Era dedicato a cinque città dell’antichità accomunate dal fatto di aver prosperato sotto il regno di una donna. Un’idea un po’ scontata magari, diciamo niente di veramente nuovo: Cartagine e Didone, Alessandria e Cleopatra, Palmira e Zenobia, Ravenna e Teodora, Costantinopoli e Irene. Tutte erano state regine o governanti accorte. Per un istante fui tentata di aggiungere alla lista Giuditta, soprattutto pensando al potente «oratorio militare» di Vivaldi, Juditha triumphans, ma mi sembrò una forzatura. Dopotutto Giuditta aveva trionfato solo su Oloferne, ubriaco fradicio e innamorato. Nel corso dei secoli il racconto di quel gesto compiuto a tradimento è stato ammantato di un’incredibile aura, ha ispirato decine di quadri e di opere d’arte: e tutto per aver sgozzato un condottiero nemico. Il mio pensiero andò per un istante alla Lucertola; tradirlo forse, perché no... ma non me la sarei mai sentita di accopparlo nel sonno. Uscita di scena Giuditta, mi concentrai sulle vere conquistatrici.

 

Lasciai Alessandria a un giornalista brillante (io non me la sentivo di affrontare l’argomento); assegnai ad altri colleghi le altre città e presi un aereo per Damasco. Dopo aver trascorso una giornata in giro per i suq a comprare tovaglie ricamate in filo d’argento, partii in macchina alla volta di Palmira insieme a un fotografo e a un’arabista con gli occhi da cerbiatta. Nel bel mezzo delle rovine sorgeva un albergo che, colmo di originalità, si chiamava Zenobia (di recente è stato saccheggiato, devastato, incendiato). Ormai vetusto, aveva ospitato nelle sue camere arredate con letti e comodini da dormitorio o da ospedale di campagna intere generazioni di archeologi. Dalla terrazza la vista spaziava sul complesso della città antica, delle necropoli e della fortezza araba. La sera del nostro arrivo due asini se ne stavano appoggiati contro il muro di cinta. Un piccolo scorpione sonnecchiava sotto la mia sedia.

Ci alloggiarono in una stanza tripla. La cosa mi piacque perché dava alla nostra avventura il sapore di una vacanza da adolescenti. La seconda sera dissi ai miei compagni che pensavo di dormire sotto le stelle dentro la cerchia muraria della fortezza araba. Volevano unirsi a me? Era pericoloso? Preferivano senz’altro dormire in un letto. Alla seconda domanda Farid rispose: «No, non più pericoloso che altrove». La sua faccia tonda, le sue belle mani curate, la sua conoscenza, mai ostentata, della storia del suo paese mi ispiravano simpatia.

Mi accompagnarono lungo la ripida strada che saliva in cima alla collina, chiacchierammo un po’, dopodiché rimasi sola. La fortezza che domina l’area archeologica è impressionante, rude e squadrata, ma è stata sventrata e non presenta al suo interno niente di particolarmente interessante. Scelsi un angolino più o meno pulito e mi sistemai a ridosso di un muro.

Quella notte non dormii. Il cielo pulsava. Il freddo cominciò presto a farsi pungente. In netto contrasto con le carezze di un vento mite. Di tanto in tanto si sentivano dei lievi rumori, che però non mettevano paura. Il tempo scorreva tranquillo. Tremavo. Prima dell’alba il paesaggio fu coperto, per qualche minuto, da una coltre violacea. Poi avvampò di rosa e porpora. E all’improvviso tornò il caldo, a ondate che picchiavano via via più forte.

 

A colazione, sulla terrazza dell’albergo, ero di buon umore. Ero fiera di me. Ero riuscita a dimostrare a me stessa che si poteva benissimo lavorare, molto e seriamente, controllarsi, adattarsi a ogni situazione, ma che con un po’ di organizzazione era possibile, di tanto in tanto, eclissarsi. Tagliare la corda.

L’indomani ci rimettemmo in macchina alla volta di Damasco. Il servizio era pronto. L’autista (soprannominato «grandi orecchie» per via della sua presunta appartenenza alla polizia) ci sentì soprattutto cantare a squarciagola. Ottenni un discreto successo con la mia interpretazione di Emmenez-moi e delle parole di Aznavour: «Un beau jour sur un rafiot craquant de la coque au pont...». La bella arabista si produsse in gorgheggi degni di Asmahan, modulando Ya habibi in tonalità ora vellutate ora stridenti.

 

A metà strada, in mezzo a una distesa arida, vidi un cartello ammaccato che indicava a est, in direzione dell’Eufrate: «Baghdad, 400 chilometri». Ventiquattr’ore dopo ero al giornale, nel bel mezzo di una riunione di redazione.

 

 

 

Mia madre ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita sdraiata su un fianco, con la testa sollevata da cuscini e una bombola d’ossigeno accanto al letto. La bella nuotatrice era ormai un povero pesciolino, arenato sulla spiaggia, che tentava coraggiosamente di respirare; le costole sporgenti si sollevavano a scatti nello sforzo, per poi riabbassarsi di colpo per un tempo brevissimo. Era uno spettacolo straziante.

Facevamo tutto il necessario: visite, controlli, analisi. Lei sapeva benissimo che non c’era molto da sperare e cercava di opporsi a tutti quegli spostamenti, ma alla fine, per farmi piacere, acconsentiva. Rispondeva con precisione alle domande dei medici, a cui aveva chiesto una volta per tutte di non raccontarle frottole e di dirle quando sarebbe finito quel calvario. I medici più giovani le prendevano la mano e le dicevano che doveva farsi coraggio. Un giorno un nuovo acquisto del reparto le chiese la data di nascita per completare la sua cartella clinica. A lui fu dedicato il suo ultimo guizzo di civetteria: «Mi spiace, dottore, ma ho mentito tante di quelle volte al riguardo che non me la ricordo più».

Il giovanotto si voltò verso di me, ma non ottenne nessuna risposta. Avrei voluto congratularmi con lei.

 

Quando fu tutto finito, all’indomani di una notte interminabile eppure brevissima (l’immagine della clessidra si impose, terribile, durante quell’attesa: ancora poche ore, pochi minuti, pochi secondi, pochi granelli di sabbia), preparai il caffè a mio padre, cominciai a darmi da fare, chiamai il medico – provando una triste sensazione di sollievo. Aprii le finestre e feci il giro dell’appartamento.

Nell’armadio a muro della cucina, sul ripiano in alto, dietro le spezie, non c’era più niente, neppure una lettera. Dalla libreria erano spariti tutti gli album di fotografie. Una grande scatola rossa, che avevo visto piena fino a scoppiare di foto sparse e di ricordi accumulati nel corso del tempo, era vuota. Mia madre doveva essersi fatta aiutare da qualcuno per distruggere e bruciare non solo quello che era suo, ma anche i ritratti di famiglia, le nostre lettere, tutti i nostri ricordi. Siccome esagerava sempre un po’, erano scomparsi anche le denunce dei redditi, le bollette di condominio, le patenti e i passaporti. Una badante, una donna di servizio, forse la portinaia, doveva averle obbedito senza dirci niente.

In compenso trovai ben in vista nel cassetto del suo comodino una busta indirizzata a me. Conteneva poche righe:

 

«Tesoro mio,

«desidero essere cremata (dopo la mia morte, ovviamente).

Gaby».

 

Sono sicura che avesse preparato ogni cosa da tempo: un’incinerazione generale, di corpo e beni, accompagnata da una battuta delicata. Per farmi ridere.

Per poco non ci è riuscita.

 

 

 

Il figlio della Lucertola non assomigliava affatto a un lucertolino. Era un giovanotto ben piantato, con lo sguardo schietto, avviato a una carriera in ambito scientifico. A quanto ricordo era già assistente universitario in una grande città. Suo padre, che all’epoca stava attraversando, come spesso accadeva, una crisi ipocondriaca, lo convinse a lasciar perdere tutto per intraprendere un percorso di formazione nell’azienda e poter così raccogliere un giorno il testimone. Era figlio unico, dopotutto era suo dovere.

Aveva trovato la formula vincente. Io e il figlio avremmo lavorato in tandem, e a noi si sarebbe aggiunto un direttore finanziario che avrebbe dovuto fornirci i suoi accorti consigli e al tempo stesso sorvegliarci. Per farla breve, a seconda dei giorni, saremmo stati un duo, un trio, un direttorio. Quanto a lui, avevamo la sua parola: pochi mesi dopo aver posto a capo del suo gruppo editoriale due persone di fiducia e il proprio figlio nonché erede, si sarebbe progressivamente fatto da parte; con l’animo in pace e la coscienza a posto.

Io ero titubante, non mi entusiasmava l’idea di abbandonare il giornalismo per il top management. Le pagine di «Costume e Società» erano apprezzate, godevo di una certa libertà d’azione, potevo scrivere e far scrivere ciò che volevo. Di tanto in tanto, potevo anche eclissarmi. Del denaro, poi, avevo imparato a diffidare. Perciò rifiutai esprimendo la mia gratitudine, dicendo che non me la sentivo di garantire la codirezione, in ogni caso non da subito.

 

Cominciò una guerra subdola. Non c’era più niente che filasse liscio come prima. Ogni giorno scoprivo che era stato messo in atto un nuovo espediente per rendere la mia vita quotidiana più cupa e insidiosa. Il paesaggio che conoscevo e amavo si trasformò in uno di quei boschi stregati che popolano le fiabe: i prati diventarono paludi, gli alberi benevoli si mutarono in orchi malefici e i fiori in belve feroci. Ombre minacciose si allungavano su giornate banali, per poi dileguarsi, a volte, come per incanto. I miei collaboratori non sapevano più come comportarsi ed erano diventati circospetti. Era un’esperienza interessante ma insostenibile.

Mi arresi, accettai quella «nuova sfida», come si suol dire nel linguaggio imprenditoriale, perché per la prima volta in vita mia ero davvero stanca. Era la soluzione migliore: un nuovo, arduo periodo di fatiche e di adattamento mi avrebbe aiutato a tenere lontane le perturbazioni dell’animo e le loro inutili tempeste.

 

Mi sbagliavo. In capo a sei mesi il lucertolino aveva gli occhi profondamente cerchiati e arrivava in ufficio sempre più tardi, il direttore finanziario non faceva che ingoiare pillole contro l’ulcera, scuotendo la testa e io dimagrivo a vista d’occhio. L’unico che stava davvero bene era il capo. Delle crisi di ipocondria non vi era più traccia.

 

 

 

Quando, un anno e mezzo dopo, morì mio padre ripetei con la stessa triste determinazione le tappe successive agli ultimi istanti di vita di mia madre. A voce non mi aveva comunicato nessun desiderio particolare e così, senza pensarci troppo, organizzai di nuovo la sobria cerimonia della cremazione.

Di lì a tre settimane, aprendo per puro caso un libro illustrato sui grandi campioni di trotto (negli ultimi mesi di vita mio padre aveva rimpiazzato il casinò con una inopinata frequentazione dell’ippodromo, non molto distante da casa sua), trovai un biglietto nel quale mi chiedeva di risparmiargli la presenza di preti e rabbini, diceva di non voler essere cremato, bensì sepolto in un cimitero a nord di Milano.

Ebbi un attimo di smarrimento: non si poteva certo riavvolgere il nastro, gli era toccata una messa cattolica, la cremazione e il colombario. Come potevo saperlo?

Ma nella busta c’era anche un regalo per me. Una piccola fotografia, ovviamente in bianco e nero, con il bordo dentellato come tutte le foto degli anni Trenta e Quaranta. Doveva essere stata custodita in mezzo alle sue cose, se era riuscita a sfuggire alla distruzione generale.

Sono sicura che è stata scattata ad Agami, la spiaggia di moda all’epoca, a cinquanta chilometri da Alessandria. Ridono. Gioventù al sole. Lei è seduta, con le belle gambe nude ben in vista, gli occhi neri rivolti all’obiettivo. Lui è in ginocchio, di profilo; elegantissimo: pantaloncini bianchi e pullover di seta grezza infilato negli shorts, con le maniche morbide. Ha la fronte appoggiata alla guancia di lei. In lontananza si intravede il mare.

È l’unica foto che mi sia rimasta di loro due insieme.

 

 

 

So bene che è impossibile capire gli amori altrui. So bene che fissare un’immagine con intensità non basta a infonderle la vita, come per magia. Purtroppo.

Eppure ci ho provato.

Mi sarebbe piaciuto sapere che cosa si erano detti subito prima o subito dopo quella foto; mi basterebbero pochi elementi: uno spezzone di frase, un’intonazione. Vorrei sentire soprattutto la voce di lui. Mia madre non mi è mai sembrata molto affidabile quando parlava dei suoi sentimenti, a venticinque anni doveva essere già capace di abbindolare tutti. Sorridente, ben corazzata, astuta e sorniona.

Il giorno in cui un amico o un parente, ad Agami, ha scattato quella foto io non ero ancora nata. Prima del bagno, vestiti, con i capelli asciutti. A interessarmi è soprattutto mio padre: per lui l’ipocrisia non era uno sport quotidiano. Nei miei ricordi occupa uno spazio limitato; senza volerlo, mia madre lo ha spinto in un canto, in un angolo saturo di vapori che rendono irrimediabilmente incerte le mie supposizioni. Sono una traduttrice di immagini a cui sono stati forniti pochissimi indizi. Ho poche certezze su cui basarmi. Appare contento, fiero, ma il suo sorriso è quello di un uomo timido. Credo che provi per la moglie un amore pieno di soggezione.

Che cosa sapeva di lei all’epoca? E che cosa faceva nei cinque, sei mesi che ogni anno lei trascorreva in Europa? Anche prima della nascita della figlia (che aveva tanto bisogno di respirare l’aria dei climi temperati), ogni primavera lei prendeva il volo, più cocciuta di una rondine. Lui si concedeva qualche «flirt» per riempire il vuoto, come dicevano le mie zie? Moltissimo tempo dopo, quando vivevano appiccicati l’uno all’altro nella loro tetra solitudine, ebbi modo di cogliere un’allusione sprezzante di mia madre a proposito di «un’orribile bionda con le unghie smaltate». Mio padre mi sembrò infastidito da quelle parole ingiuste. Ma nessuno dei due volle rispondere alle mie domande.

Risale a quel periodo un aneddoto che mia madre raccontava sempre ridendo e che nel corso degli anni aveva infiorettato ogni volta un po’ di più. Ufficialmente il suo obiettivo era quello di istruirmi sul modo migliore, per una donna giovane e bella, di sbarazzarsi di un pretendente. Occorrevano fantasia e fermezza. Tatto e decisione. Lei stava guidando; sul sedile accanto c’era un uomo che si era messo in testa di convincerla a lasciare il marito per sposare lui. «Parlava, parlava, non sapevo più come fare. Ormai stavamo arrivando a casa, la situazione era imbarazzante. Volevo che scendesse dalla macchina. Io ero tutta la sua vita, d’accordo, ma avevamo già incrociato diverse macchine, fra cui la Buick di mia sorella Arlette. E lui mi diceva che non aveva nessuna intenzione di scendere prima che mi fossi decisa a dirgli chiaramente un sì o un no. Eppure gli avevo già risposto di no, e lui non mi aveva creduto...».

A quel punto aveva avuto un’idea geniale; lungo la strada era fermo un grosso carretto carico di frutta e verdura; il proprietario stava chiacchierando sul marciapiede, a pochi metri da lì. Mia madre aveva fatto sbandare la macchina di proposito, senza rallentare, ed era piombata sul carretto. «Che scompiglio, tesoro mio! Che scompiglio! C’erano cipolle, meloni e pomodori sparsi su tutta la carreggiata! Gente che gridava! Non ti dico il traffico, i bambini e i mendicanti si buttavano a capofitto sulla frutta; c’era odore di melone in tutto il quartiere!».

La fine della storia era laconica: il pretendente «che non aveva voluto darle ascolto» se n’era andato senza dire una parola e non si era fatto mai più vedere. Lei aveva chiesto scusa al venditore ambulante giurando che la cosa non si sarebbe più ripetuta. Mio padre, che stava rientrando proprio in quel momento, era sceso dalla sua macchina per risarcirlo del disastro.

Quella storia faceva parte del loro patrimonio comune; mia madre la raccontava insistendo sulla composta di frutta; mio padre aggiungeva dettagli tecnici non meno gustosi. Povero pretendente: perché mai si era infilato in quel ginepraio?

 

 

 

Quando annunciai al mio capo che stavo prendendo in considerazione l’idea di lasciare l’azienda, lui non mi diede ascolto. Era avvezzo a quei complicati esercizi che consistevano nel distruggere gli equilibri interni, per poi costituirne altri, da scompaginare di nuovo qualche mese dopo. Si stupiva quando cadeva in disgrazia qualcuno di cui lui stesso aveva provocato la rovina, promuoveva a sorpresa uomini e donne che poco prima aveva demoralizzato e reso più deboli, dichiarando ogni volta che lui era solo di passaggio e che in realtà il potere era nelle nostre mani. Tutte quelle manovre, che gli procuravano gioie segrete, non avevano intaccato la prosperità del gruppo. La capacità che hanno gli impiegati occidentali di sopportare situazioni inutilmente vessatorie è molto più grande di quanto si possa immaginare. Come pure è incredibile il loro amore per un lavoro ben fatto a dispetto di tutto e di tutti.

Sicché lui era abituato a mandar via le persone, ma non a essere piantato in asso. La cosa non gli piacque affatto. Passai diversi giorni a dibattermi come una formica invischiata in una goccia di miele (quando mi prometteva meraviglie) o immersa in una pozza di aceto (quando mi preannunciava una successione di terribili sventure o penosi fallimenti).

 

Una sera la formica, un po’ acciaccata, se ne andò chiudendosi la porta alle spalle. Preferiva andare a sciupare la sua vita altrove.