Ero diventata quello che non sarei dovuta diventare.

Mai trionfante, sempre accortamente dissimulata; mai fiera e diretta, sempre cauta ed elusiva; mai categorica, spesso umile, a volte perfino dolorosamente sottomessa. Tutta la mia impetuosità soffocata, la mia indole impastoiata, i miei sogni sopiti.

 

L’Oriente della mia giovinezza (con i suoi valori fantasiosi e la sua affascinante decadenza) era stato cancellato un po’ alla volta, un colpo di spugna dopo l’altro. Da quando ci eravamo trasferiti in Europa non c’era mai stato posto per la nostalgia: ma ormai i ricordi, divenuti anch’essi inerti, avevano smesso di affacciarsi alla memoria. Che cosa sarebbe successo se la Storia avesse aspettato un po’, due o tre decenni mettiamo, prima di scrollarci via come fa un cane con le pulci? Che fine avrei fatto, io? Mi sarei sposata, con in testa un cappello a tesa larga rosa confetto, con un giovanotto del liceo Saint-Marc? Avrei portato in spiaggia i miei figli in decappottabile? Avrei partecipato a qualche picnic nel deserto?

Mi ero adattata ai cambiamenti come un rampicante si adatta ai capricci del giardiniere; i miei genitori, invece, erano stati messi da parte, gettati in un angolo del giardino come arbusti da cui non ci si aspetta più granché, se non che muoiano senza dar fastidio. Leggevo sul giornale le notizie che arrivavano dall’Egitto, dal Libano o dalla Siria. Eravamo ancora molto lontani dalla devastazione che, all’inizio del nuovo secolo, avrebbe sfigurato luoghi e persone ma, nonostante tutti gli articoli ben informati e ottimisti dei miei colleghi giornalisti o grandi reporter, io, timidamente e senza che nessuno mi prestasse ascolto, provavo a dire che il peggio doveva ancora venire (ho constatato che l’opinione di chi conosce un po’ un certo argomento desta sempre sospetti, quando non provoca il riso, ed è comunque meno autorevole di quella dei cosiddetti esperti).

Quell’Occidente in cui avevo riposto ogni mia speranza, a cui mi ero uniformata con una buona volontà testarda e ingenua, e a cui avevo affidato il mio avvenire, non suscitava più in me alcun fervore: si era ridotto a un susseguirsi di uffici in un universo urbanizzato e monotono. Tutti gli sforzi, strenui e un po’ risibili, non avevano portato ad altro che a una grigia omologazione ottenuta a furia di impegno e rinunce. Anche su questa riva del Mediterraneo il mondo si stava ridimensionando: all’energia e agli slanci del passato era destinato a succedere un ponderato ripiegamento, forse graduale, ma irreversibile. La faglia sulla quale avevo vissuto lasciava intravedere una breccia appena mimetizzata. Il preludio di un crollo.

Non volevo più servire, ma fino a quel momento non ero stata capace di fare altro. La colpa era solo mia.

 

Ormai non più giovanissima, senza marito né figli, lasciai, con un colpo di testa, una situazione professionale che credevo di aver scelto e di amare. Rimettere in gioco la propria vita quando ci si avvicina al cosiddetto successo può sembrare una pazzia. Ma il mio corpo e il mio spirito reclamavano una tregua. Dopo una rottura sofferta, a singhiozzo, le settimane che seguirono le mie dimissioni inaugurarono un lungo periodo di convalescenza. Di calma piatta. Come uno sciopero.

 

Conrad descrive con precisione clinica questa condizione e quella che la precede nelle prime pagine del suo unico racconto autobiografico, La linea d’ombra: «E improvvisamente abbandonai tutto questo. Lo abbandonai nel modo, per noi irragionevole, con cui un uccello vola via da un ramo dove sta comodo». (La somiglianza tra me e la voce narrante era incredibile, tanto più che in varie occasioni e con la massima disinvoltura, fra mille altre parole brusche e inadeguate, il mio ex capo mi aveva detto che non avrei mai avuto il coraggio di abbandonare «un nido così confortevole»).

«E il tempo pure procede – finché si scorge di fronte a sé una linea d’ombra, che ci avverte che bisogna lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.

«È il periodo della vita in cui possono capitare di quei momenti cui ho accennato ... Parlo dei momenti in cui chi è ancora giovane è incline a commettere atti inconsulti, come sposarsi all’improvviso o abbandonare un lavoro senza motivo».

Con un nodo allo stomaco dovuto a una nausea persistente, compagna dell’agonia della mia giovinezza, optai per l’immobilità e l’attesa. Prima di varcare la mia personale linea d’ombra.

 

 

 

Ero sdraiata su uno degli enormi blocchi di pietra bianca d’Istria che, per chilometri, formano i murazzi del Lido di Venezia, quando sentii un refolo di gioia: come se la vita stesse ricominciando.

I murazzi sono una delle opere più sobrie e al tempo stesso più impressionanti che l’uomo abbia mai costruito. Si tratta di una diga eretta nel Settecento su tre cordoni lagunari per proteggere Venezia. Immense pietre poste di fronte all’Adriatico, sapientemente allineate davanti al mare aperto, un’impresa erculea la cui realizzazione richiese diversi decenni. Una lapide collocata alla fine dell’isola di Pellestrina recita: «Ut sacra aestuaria urbis et libertatis sedes perpetuum conserventur colosseas moles ex solido marmore contra mare posuere curatores aquarum» (I magistrati delle acque fecero innalzare questi argini colossali di solido marmo al fine di proteggere per sempre dal mare i sacri estuari della città e la sede della libertà).

Città e libertà: l’accostamento di quelle due parole garriva come una bandiera sbattuta dal vento. Ero arrivata a Venezia pochi giorni prima, con il treno della mattina, ben decisa a continuare il mio sciopero personale e a riposarmi in una pensione del Lido. Da una settimana vivevo in una camera vecchiotta, tutta gialla, che si affacciava sulla spianata davanti all’imbarcadero. Ogni mattina noleggiavo una bicicletta e partivo in direzione dei fari o lungo il sentiero che sovrastava i murazzi, mangiavo un panino con prosciutto e melanzane, schiacciavo un pisolino su una pietra riscaldata dal sole, se ne avevo voglia facevo un tuffo (avendo cura di bagnarmi bene i capelli, una ricetta infallibile per riconquistare la voglia di vivere), pedalavo senza fretta, fermandomi quando mi pareva. Certi giorni facevo una sosta a Malamocco, in un bar all’aperto, per bere una Coca - Cola ghiacciata e guardar passare i vecchi autobus. I tigli sputacchiavano il loro succo appiccicoso. Le petroliere entravano e uscivano dalla laguna, dirette al porto di Marghera o verso l’estuario di Alberoni. A volte arrivavano altri ciclisti, che appoggiavano le biciclette a un tronco d’albero e poi ordinavano pesce alla griglia e patatine fritte.

 

Avevo ricominciato a leggere La linea d’ombra : «Tutto l’insieme rafforzava in me l’oscura sensazione che la vita non fosse altro che uno sciupio di giorni, sensazione che in parte inconsapevolmente mi aveva fatto abbandonare un comodo imbarco, allontanato da uomini che mi piacevano, per sottrarmi alla minaccia del vuoto ... Fui colto da un grande scoraggiamento. Un torpore spirituale ... non ero più in collera ... Non ci si poteva aspettare dal mondo nulla di originale, nulla di nuovo, di sorprendente, di significativo: nessuna occasione di scoprire qualcosa a proposito di se stessi, nessuna saggezza da acquisire, nessun divertimento da godere. Tutto era stupido e sopravvalutato ... E così sia».

Non so se capiti solo a me, ma ho notato che a volte il mio corpo è in anticipo sulla mia mente; e così mi accade di percepire cose a cui solo in seguito arriverò con il ragionamento o con l’osservazione. La sera del giorno in cui, sdraiata su una pietra della diga, mi sentii lentamente rinascere, venni a sapere che due persone mi avevano cercata al telefono. Una mi invitava, per conto di un grande imprenditore milanese, a presentarmi con la massima urgenza a un appuntamento; la ragazza della reception me lo riferì tutta agitata: pare avessero insistito parecchio perché richiamassi subito. «Dicono che hanno fatto fatica a rintracciarla» aggiunse. L’altra era una chiamata di Giacomo. «Mi ha chiesto di dirle che arriva domani; ha prenotato la camera accanto alla sua». Richiamai solo il giorno dopo: ci tenevo a preservare la solitudine di quella serata e la sensazione di rinnovamento ancora così fragile che si stava facendo strada dentro di me.

Non dimenticherò mai quella giornata di settembre, tersa benché il cielo fosse rimasto leggermente velato fino alle dieci. Ricevetti un’offerta di lavoro del tutto inaspettata, che avrebbe cambiato il corso della mia vita; ottenni di poter rinviare di tre giorni l’appuntamento a Milano, che avrebbe sancito quel nuovo inizio. E verso mezzogiorno arrivò Giacomo, con la giacca gettata su una spalla, una borsa in mano e un sorriso incantevole: «Volevo capire che ci sta succedendo». Anch’io sorridevo: «Ho un sacco di cose da raccontarti».

 

 

 

Nuvole iridescenti, colline irte di casette e buffi campanili, aerei che solcano il cielo lasciando la scia, dettagli realistici trasfigurati da un tratto originale, il tutto pervaso da un sottile senso dello humour: i paesaggi che avevano reso famoso Giacomo costituivano il grosso della sua produzione di pittore e disegnatore. Ma aveva anche uno straordinario talento come ritrattista: gli piaceva disegnare gli artisti al lavoro – scrittori, musicisti, pittori – a china, su fogli scelti con cura, di carta spessa, a volte leggermente colorati. L’effetto, mai del tutto caricaturale, era potentissimo; mi aveva regalato un ritratto di Proust da giovane, con le palpebre pesanti, l’aria scombussolata, che riusciva a essere al tempo stesso spassoso e straziante.

All’epoca del giornale avevo fornito a Giacomo diverse opportunità di lavoro; con la sua fervida immaginazione aveva illustrato alcuni dei miei servizi, non sempre eccelsi, dedicati ai viaggi intelligenti, alle mete originali, al rigenerante dolce far niente... i suoi disegni raffiguravano e prendevano in giro con garbo tutti gli stereotipi della nostra epoca – così turistica e così culturale. Il suo talento dava originalità a pezzi non di rado mediocri, li sosteneva con quell’allegra eleganza che era il frutto spontaneo di uno sguardo impermeabile alla serietà. Il suo motto sarebbe potuto essere: « Illustro, ma sbeffeggio».

Disegnava in continuazione: al bar, in treno, per strada; si sedeva come meglio poteva, tirava fuori dalla tasca il suo armamentario da acquarellista e, se non aveva a portata di mano l’acqua, si arrangiava con un po’ di saliva.

Non molto alto, ben piantato, non aveva un viso da salotto (intendo dire che era bello quando passeggiava all’aria aperta, mentre perdeva smalto in società, dove sprofondava in abissi di noia violenta). Aveva deciso di raggiungermi per annunciarmi le sue poche, incontestabili certezze: dovevamo sposarci al più presto, il matrimonio mi avrebbe fatto benissimo, e insieme ci saremmo divertiti un sacco.

Ridevo di gusto, le mie risposte si accavallavano: capitava davvero male, stavo per accettare un lavoro all’estero, a Parigi, di lì a poco mi sarei ritrovata al comando di una nave ammiraglia, che idea assurda quella del matrimonio, da quando in qua il matrimonio faceva bene a qualcuno, sì, stavo meglio ma ero in procinto di compiere un passo terribile, stavo per varcare la linea d’ombra, Conrad, era triste ma inevitabile, bisognava accettarlo, imboccando quella strada avrei rinunciato alla possibilità di percorrerne altre, ma l’angoscia sarebbe passata, avanzavamo tutti verso il vuoto, tanto valeva andarci di buon passo, sì, stavo meglio, che idea assurda quella di sposarmi, ero una donna libera, ero pronta a scommettere che non mi avrebbe amato a lungo, stavo per trasferirmi in una città praticamente sconosciuta, come potevamo fare, che fosse venuto a trovarmi era un dono del cielo, sì, stavo meglio, non ero ridotta poi così male, non avevo bisogno di essere protetta, ero perfettamente capace di cavarmela da sola, lo sapevano tutti, ero una tosta, non era il caso di preoccuparsi per me.

Scandendo le parole in modo esagerato, come si fa con i bambini mezzo addormentati o con chi è affetto da un lieve ritardo mentale, mi disse che dovevamo semplificare le cose; a tale scopo, il matrimonio era l’ideale, mi avrebbe resa per l’appunto più libera. Non ne avevo ancora abbastanza di tutti quei pistolotti sessantottini? Il Sessantotto aveva più che altro indebolito le donne, no? Scardinando l’ordine precedente e raccontando un mucchio di sciocchezze sul futuro della coppia, aveva fatto solo danni: bastava guardare le mie amiche, tutte in analisi e tutte litigiosissime. Se dovevo andare a lavorare a Parigi, lui sarebbe venuto con me, tanto per disegnare un posto valeva l’altro. «E per finire, bambina,» disse imitando Humphrey Bogart «non dimenticarti che i forti hanno bisogno di essere protetti più di chiunque altro».

Non trovai nulla da controbattere a quei paradossi. C’era qualcosa che mi sfuggiva; la sua teoria sul bisogno di protezione dei forti, ad esempio, era altrettanto strana e altrettanto poco cristiana di quella che mi aveva sussurrato mia madre in punto di morte: «Sta’ attenta: i deboli ci faranno la pelle».

Ma se io stentavo a capire, il mio corpo aveva afferrato, a grandi linee, il senso del discorso: senza aspettare me, senza aspettare che riflettessi e ricorressi al mio leggendario buon senso, si era liberato di ogni forma di diffidenza e di prudenza, e manifestava la sua felicità. Aveva anche molta fame, molta sete e molto sonno.

 

 

 

Ci sono alcuni libri che sono stati particolarmente importanti per me; voglio dire che erano al mio fianco nei momenti in cui la vita premeva sull’acceleratore e imboccava una svolta. Hanno avuto un ruolo fondamentale. A volte mi è addirittura sembrato di sentire voci amiche levarsi dalle pagine di Stendhal, Conrad o Proust, e ho fatto le mie scelte tenendo conto di quello che mi dicevano. A loro devo molto, mi hanno aiutato a decidere, spesso a partire. La cultura letteraria non c’entra, non saprei come spiegarlo a un amico intimo, o a degli studenti. Non è un sapere trasmissibile. È altro: un legame quasi familiare. Diciamo che ho fiducia nei testi degli autori che amo. E così, quando trovo qualcosa in cui mi riconosco, lo approfondisco per anni. Lo scandaglio per capire meglio, per coglierne meglio il significato e la bellezza. Leggo e rileggo, raramente sottolineo.

E quando il testo non solo sembra adattarsi alla situazione che sto vivendo, ma riesce persino a rendermela più chiara, alla fiducia si aggiungono meraviglia e gratitudine.

Avevo dunque accettato quel posto davvero insperato per importanza, prestigio e compenso, in parte perché mi dava la possibilità di andarmene da Milano e di cambiare paese; ma anche perché al mio fianco c’era Conrad con la sua malinconia e le sue avventure in capo al mondo: le sue parole mi infondevano coraggio.

Non avevo più paura di essere inadeguata, non «all’altezza» (dieci anni prima sarei stata torturata dai dubbi). Quella manna mi cadeva dal cielo quasi per caso, ma avevo deciso di accoglierla con leggerezza, senza andare troppo per il sottile, senza contrattare, senza chiedere tante spiegazioni. Giusto il minimo indispensabile per non sembrare indifferente. Una multinazionale italiana che, dopo aver investito in Spagna e in Germania, stava acquistando due società in Francia, o meglio, due assets (dovevo al più presto adeguare il mio lessico), aveva pensato di affidarne a me la direzione e mi aveva proposto di entrare a far parte del consiglio di amministrazione centrale. In quella mastodontica azienda l’esercizio del potere era regolamentato da tutta una serie di organi di controllo. Non avrei rimpianto la crudeltà felpata di un padrone legittimo.

 

Il fatto che mi sentissi relativamente a mio agio era dovuto a un inedito fatalismo; non aspiravo più a mimetizzarmi, non sognavo più di trasformare la società o di lasciare il segno. Quando ripensavo a Napoleone o a Lawrence, sorridevo: erano andati a raggiungere Achille ed Ettore, avevano preso posto accanto a loro nel pantheon dell’infanzia. Ora potevo abbandonarmi, lasciarmi trasportare dai flutti, fare il morto guardando le nuvole. E, al tempo stesso, lanciarmi in una nuova avventura. Successo o fallimento non avevano più molta importanza: ciò che contava era l’avventura in sé.

 

In quelle settimane di cambiamento lessi e rilessi La linea d’ombra. La voce narrante, solo leggermente deformata, riecheggiava dentro di me ripetendomi: «... mi interrogai sul mio stato d’animo. Come mai non ero sorpreso più di tanto? Come mai? Eccomi qua, investito in un batter d’occhio di un comando, non secondo l’ordine consueto delle umane cose, ma quasi per incanto. Avrei dovuto essere intontito dallo stupore. Ma non lo ero. Ero proprio come i personaggi delle fiabe. Nulla li stupisce, mai. Cenerentola non prorompe in esclamazioni di meraviglia quando da una zucca salta fuori un cocchio di gala attrezzato di tutto punto per portarla al ballo. Ci monta su tranquillamente e se ne va...». Facevo mie anche le frasi che accompagnavano quel nuovo inizio: «Una nave! La mia nave! Era mia ... Non ne avevo mai sospettato l’esistenza. Non sapevo che aspetto avesse, ne avevo udito appena il nome, eppure eravamo indissolubilmente uniti per una parte del nostro futuro, per navigare o naufragare insieme».

 

A onor del vero il parallelo fra me e il narratore della Linea d’ombra non era perfettamente tracciato. Conrad, o il suo personaggio, era sì stato nominato capitano per un caso che aveva del miracoloso, ma quell’investitura era comunque giustificata da ragioni concrete: il bagaglio di esperienze di un marinaio di lungo corso; la profonda conoscenza dei porti orientali; la lunga frequentazione di uomini e luoghi.

Io ero una giornalista; per quattro anni avevo gestito, senza fare danni, l’ammodernamento e la riorganizzazione di una grande tipografia; tutto qui: non molto, in confronto a quello che mi era stato proposto.

In ballo c’erano due rotocalchi femminili, di profilo piuttosto modesto, due sontuose riviste di arredamento, tre mensili di geografia e viaggi, una rivista di storia piuttosto ben fatta, una concessione pubblicitaria. Ho sicuramente dimenticato qualcosa, del resto il «perimetro» era destinato a cambiare seguendo «l’evoluzione del mercato». Il mio compito era di non far perdere denaro all’azienda e aumentare gli spazi pubblicitari, e di conseguenza il fatturato corrispondente. Senza trascurare le «sinergie» che imponevano, per quanto possibile, di riutilizzare reportage e foto già pubblicati in Germania e in Italia. Ovviamente adattandoli. Occorreva «rispettare le identità».

Ma accadde una cosa che non avevo previsto: un’ondata di emotività mi travolse. Ero la responsabile, dunque avrei preso le cose sul serio. Quella grande nave sarebbe stata mia. Capii di amarla ancor prima di assumerne il comando. La vita di tutti coloro che ci lavoravano, a qualunque livello, mi riguardava da vicino. Quello che avremmo fatto insieme aveva un’importanza relativa, ma non potevo esimermi dal pilotare l’imbarcazione con coscienza e fermezza. Nell’improbabile ipotesi che scoppiassero in contemporanea due incendi devastanti, uno a casa mia e uno in ufficio, sapevo benissimo dove mi sarei precipitata con il cuore in tumulto.

 

 

 

Gli eventi si susseguirono rapidi. Di quel periodo riaffiorano degli episodi, delle atmosfere. L’idea del matrimonio continuava a spaventarmi. Fra l’altro ero convintissima che fosse impossibile per ragioni burocratiche.

«Non posso sposarmi. Mi manca l’atto di nascita».

«In che senso? Ce l’hanno tutti, un atto di nascita».

«Non è mai stato trasferito. Sembra che dovesse arrivare ed essere registrato a Livorno, ma lì non c’è».

Giacomo rideva. Io invece no, gli intoppi burocratici avevano il potere di farmi diventare lamentosa; mi provocavano accessi di panico e risvegliavano le mie insicurezze.

«Be’, per essere nata sei nata. Ne sono testimone. Affideremo la pratica a un’agenzia. Ad Alessandria non c’è nessuno che possa interessarsi della faccenda?».

«Nessuno».

«Dirò a quelli dell’agenzia di trovare il modo di risolvere la questione, li pagherò il triplo».

Era un sollievo non dovermene più occupare; e quando, cinque giorni dopo, venni a sapere che era spuntato dal nulla un atto di nascita, quasi non riuscivo a crederci.

 

Ci fu il giorno in cui dissi addio agli ex colleghi del giornale. Un addio frettoloso, con il sorriso sulle labbra.

Ci fu il giorno in cui tentai, senza riuscirci, di varcare il cancello del cimitero.

Ci fu il giorno in cui, alla macchinetta automatica sotto casa, mi feci le foto per il rinnovo della carta d’identità: sono venuta malissimo.

Ci fu il giorno in cui portai a rottamare la mia Mini Cooper bianca. Non sapevo che le avrebbero strappato via la targa. Mi vennero le lacrime agli occhi.

Ci fu il giorno del matrimonio. Nelle foto abbiamo un’aria allegra, io sono carina, indosso un vestito con le margherite bianche. Di lì a una settimana avrei compiuto quarant’anni.

Ci fu il giorno in cui mi comprai un magnifico trench rosso ciliegia, un paio di stivali di vera pelle e una giacca grigioazzurra a spina di pesce. Per partire con dei vestiti nuovi.

Ci fu il giorno del trasloco. Feci il minimo indispensabile. Anzi meno.

Ci fu il giorno in cui salutai la portinaia e il suo cane.

 

 

 

Avevo previsto molte cose della vita che avremmo condotto a Parigi, ma non avevo imaginato che avrei avuto problemi con la mia lingua materna, il francese. Ovviamente lo parlavo e lo leggevo con la stessa facilità di prima. Ma da un pezzo non era più la mia lingua d’uso. L’accento era ancora buono. Anche nello scritto, nessun problema. Ma nel frattempo si erano moltiplicati i modi di dire, le immagini, le espressioni figurate. Il mio francese era così impeccabile, così ingessato che sembrava appena uscito dal congelatore.

Nel corso della giornata mi capitava diverse volte di restare colpita da un’espressione che non conoscevo; di solito il senso generale della frase mi permetteva di proseguire la conversazione; memorizzavo facilmente la nuova recluta, la inserivo nel mio dizionario personale, e la cosa finiva lì. A volte invece il terreno era sdrucciolevole, non riuscivo a trovare un’espressione analoga in nessuna delle lingue che conoscevo, e il contesto non mi aiutava. Ed era ancora peggio quando il mio interlocutore faceva una battuta ridendo, mangiandosi le parole e rendendola incomprensibile.

Ricordo che mi aveva stupita il «bouche-à-oreille» in cui, da quando ero dirigente di un’azienda di comunicazione, mi imbattevo di continuo: ci misi un po’ per capire che era il telefono senza fili; ricordo i gomiti con cui all’inizio degli anni Ottanta tutti si facevano strada; le parodie degli slogan pubblicitari, divertentissime a patto di conoscere a memoria i filmati televisivi a cui si ispiravano; il baco che nessuno avrebbe mai voluto avere nel cervello. Alcuni dei miei collaboratori (a detta dei loro amorevoli colleghi) passavano il tempo a intorbidare le acque, quando non scoprivano l’acqua calda o non si lagnavano di aver fatto un buco nell’acqua o di avere il morale sotto i tacchi. Ogni giorno prendevo mentalmente nota di tutta una serie di metafore sportive ricorrenti ed enfatiche, delle allusioni alla micropolitica o alle spiritosaggini di qualche amministratore locale. A volte nella mia vita si intrufolava il ritornello di una canzone, altre volte mi disorientava un’onomatopea uscita da qualche fumetto di cui ignoravo l’esistenza. La ginnastica quotidiana con cui cercavo di ridare vigore al mio francese (per poter esercitare autorevolmente il mio ruolo) mi eccitava, ma aveva lo svantaggio di farmi perdere il sonno. Ogni sera avevo il cervello in fibrillazione, ero agitata, dormivo poco, le parole cozzavano l’una contro l’altra: divertente, ma faticoso.

All’epoca non ne ebbi il tempo, ma per curiosità sarei dovuta andare da un neurologo per fargli esaminare il mio caso, e cercare di capire che cosa mi stava succedendo. Era la seconda volta che capitava: ai miei sforzi, sempre coronati dal successo, corrispondeva sempre un impoverimento da qualche altra parte. Fu così che il mio inglese, piuttosto fluido e brillante, si irrigidì, si imbalsamò, si ridusse a una lingua scheletrica; la cosa non ebbe conseguenze sulla lettura, ma impoverì in modo significativo il lessico del parlato e mi rese impacciata nell’uso di una lingua che amavo profondamente.

 

La sera tornavo tardi a casa, in rue Monsieur-le-Prince. Attraversavo un cortile lungo e stretto e salivo di volata le scale dell’edificio di cui eravamo gli unici inquilini. A quell’ora, in genere, Giacomo puliva i pennelli e sul pianerottolo aleggiava un odore di trementina; amavo quell’odore quasi quanto quello delle stelle di mare essiccate della mia infanzia.

 

 

 

Fu a Parigi che, poche settimane dopo essermi trasferita, mi resi conto di essere «ebrea».

Certo, sapevo che nella mia famiglia, ad Alessandria, qualcuno si era sposato nella sinagoga e che alcuni dei miei antenati erano sepolti nel cimitero ebraico. (La zia di mia nonna riposava accanto a una prozia di Patrick Modiano; una certa Esther e una certa Dora conversavano amabilmente fianco a fianco e, da brave madri ebree, paragonavano le doti straordinarie dei rispettivi figli). Ma altri membri della famiglia si trovavano nel cimitero cattolico o in quello dei liberi pensatori; e c’era un ramo che veniva dall’India. I miei genitori non mi avevano mai parlato di religione, e io ero stata battezzata quando avevo all’incirca nove anni e avevo sempre frequentato le scuole cattoliche.

Nei lunghi anni trascorsi in Italia nessuno, ma proprio nessuno, si era mai sognato di farmi notare che probabilmente avevo origini ebraiche. Un garbato disinteresse circondava tutto ciò che aveva a che fare con il mio luogo di nascita, la mia famiglia, i miei antenati. Nessuno aveva mai accennato neppure al concetto di appartenenza a una comunità. Insomma, tutti se ne infischiavano.

 

A Parigi, invece, la questione assunse un certo rilievo; via via che conoscevo persone nuove e stringevo nuove amicizie, notavo un palese interesse per la «mia storia». La Francia era forse più sensibile dell’Italia al fascino dell’esotismo? Non c’era da stupirsene: se la Francia è stata un impero coloniale e un paese d’accoglienza, l’Italia, fino a tempi recenti, ha visto intere generazioni partire per andare a cercare fortuna altrove, anche in posti lontani, come l’America o l’Australia.

Quando le domande degli amici diventarono più insistenti, quando i sottintesi cominciarono a moltiplicarsi, quando addirittura conoscenze di recentissima data si presero la briga di telefonarmi per farmi gli auguri in occasione di feste ebraiche di cui ignoravo perfino il nome, allora cominciai a trovare tutte quelle attenzioni assillanti.

Una sera, nel bel mezzo di un evento mondano, un noto intellettuale mi disse:

«Ah, voi ebrei d’Alessandria siete il sale della terra».

Dunque un tizio che conoscevo da appena otto giorni sapeva meglio di me chi ero. Abbozzai un sorriso. In quella situazione era impensabile replicare o cercare di spiegarsi a meno di non volersi impelagare in una discussione senza via d’uscita. In parte me ne facevo una colpa, avrei dovuto indagare più seriamente sulle mie origini.

Ma ci furono anche episodi più destabilizzanti. Rimasi senza parole quando la mia compitissima assistente mi accolse con aria costernata il giorno in cui, nel Sud della Francia, fu profanato un cimitero ebraico:

«Ah, che cosa terribile, non ho potuto fare a meno di pensare a lei...».

Ci misi un po’ prima di capire che mi stava facendo le condoglianze.

 

Confessai il mio imbarazzo a una nuova amica, una donna spiritosa e seducente, fiera delle proprie origini ebraiche. Come potevo fare? Che cosa potevo dire in certe circostanze, dal momento che il mio passato era così vago, e io non riuscivo a risalire così indietro nel tempo? E poi, di che cosa stavamo parlando esattamente? Di pratiche religiose, dell’appartenenza a una comunità o di razza? Non sapevo se ero davvero ebrea; per pura cortesia mi ero abituata a non obiettare, ma ogni volta mi chiedevo se facevo bene.

«Ah, questo è tipicamente ebraico!» esclamò lei.

Non avevo scampo.

 

Giacomo brontolava, come a dire «di che s’immischiano?». Una sera trovai ad attendermi sul letto, dalla mia parte, un piccolo ritratto a china che mi raffigurava in atto di contemplare, con comica perplessità, un enorme candelabro a sette bracci.

Anche lui cercava di capire la società nella quale eravamo approdati. Nei primi tempi era estasiato dalle serate fra amici, ne usciva sempre con mille aneddoti su cui amava ricamare ridendo. Aveva individuato un certo numero di argomenti di conversazione che rimbalzavano da una cena all’altra, in modo trasversale, anche in ambienti leggermente diversi: il conferimento di un’onorificenza (meritata o no?), la vita in provincia (auspicabile o deprecabile?), la vita a Parigi (davvero molto più interessante o il contrario?), le case di campagna in comproprietà (inesauribile fonte di conflitti familiari oppure no?).

 

 

 

Ai miei successi lavorativi Giacomo non dava molto peso. Guardava con condiscendenza i servizi che di tanto in tanto mi venivano dedicati su «Challenges», su «Les Échos», sul «Corriere della Sera» o sulla «Frankfurter». Commentava le fotografie: «qui sembri una rompiscatole», «questa è carina, sembra che tu sia in vacanza», «ti preferisco di profilo, hai un’aria diligente e simpatica». Tutto quello che aveva a che fare con il top management, le banche, i piani triennali, la ristrutturazione, le revisioni di bilancio, l’analisi dei rischi e delle opportunità, i margini di profitto, i forecast, i patti fra azionisti lo faceva sbadigliare di noia. Era molto ingiusto da parte sua, tanto più che evitavo di parlargli di queste faccende e di raccontargli le mie giornate in ufficio. Ma c’erano cose che non potevo risparmiargli; dato che il cellulare non aveva ancora fatto la sua comparsa, ero, ahimè, costretta in caso di urgenza a parlare ai miei collaboratori, agli azionisti o ai clienti importanti dal telefono fisso: gli capitava così di assistere a conversazioni telefoniche che si metteva a mimare con una tale enfasi da costringermi a voltarmi per non scoppiare a ridere.

 

Quello che di me amava, quello che gli interessava apparteneva a un’altra sfera. Tutto ciò che era malfermo, imperfetto, incoerente, e che rivelava le mie involontarie stranezze, i miei difetti, le mie debolezze: era questo che gli piaceva davvero. Che lo inteneriva. Adorava le mie dimenticanze, le mie distrazioni, i miei lapsus. E i miei errori di valutazione. Ad esempio aveva molto apprezzato la scelta dell’appartamento. Quando, un po’ in ansia, glielo feci vedere per la prima volta, si entusiasmò e si mise a tesserne le lodi con parole che ebbero il solo effetto di accrescere la mia ansia.

Ero stata precipitosa: un’agenzia immobiliare specializzata in alloggi di rappresentanza, che aveva sede in lussuosi uffici sulla Rive droite, mi aveva proposto una dozzina di appartamenti impeccabili nel XVI, nell’VIII e perfino nel I arrondissement (per un attimo mi ero fatta tentare dall’infilata di stanze di un sottotetto che affacciava direttamente sui giardini delle Tuileries). Avevo chiesto di vedere qualcosa sulla Rive gauche; avevano arricciato il naso. Mi avevano detto che gli appartamenti disponibili con vista sulla Senna erano pochi e superavano il mio budget, ed era rimasto soltanto un appartamentino in rue Monsieur-le-Prince, che però non rientrava nella «fascia di prezzo» adeguata a un direttore generale.

Il nome della strada mi mise allegria, la vicinanza ai giardini del Luxembourg anche, e poi l’idea che l’affitto fosse di molto inferiore al tetto fissato mi piaceva. Firmai il contratto quella stessa sera, sotto lo sguardo costernato del direttore dell’agenzia.

 

L’appartamento era davvero insolito; l’edificio, in pessime condizioni, si trovava in fondo a un cortile che sarebbe stato delizioso se solo ogni sera non l’avessero invaso i bidoni dell’immondizia di un ristorante che ne occupava una buona parte. Da lì, alle ore dei pasti, salivano odori di ogni sorta, tranne quando veniva azionato un aspiratore le cui vibrazioni facevano tremare le finestre. Attraverso una fragile porta a vetri si accedeva a una scala stretta che portava al terzo piano; la parte posteriore dell’appartamento, la cui fantasiosa struttura era il risultato di una serie di interventi poco ispirati, si affacciava su un terrazzino in pendenza. Era un vecchio palazzo, vicinissimo a quello in cui Blaise Pascal, all’età di dieci, undici anni, di nascosto dal padre, aveva riscoperto la geometria euclidea.

All’agenzia nessuno mi aveva detto che eravamo gli unici inquilini: tutti gli altri erano scappati? Temevano un crollo? Quando visitai le cantine, prive di illuminazione e con i corridoi ingombri di matasse di vecchi cavi elettrici e cassette sfondate, ebbi paura. Mi sembrò di sentire dei rumori. Una mattina, mentre uscivo per andare in ufficio, vidi un enorme topo che se ne stava beato su un gradino della scala che saliva in soffitta; mi guardava con aria affabile e intanto si toccava con una zampina rosa il musetto fremente; imperturbabile, lui.

 

Giacomo disse che stavo facendo un sacco di storie per niente, che andava tutto bene così com’era, nel suo studio c’era la luce giusta, l’appartamento era perfetto, i camerieri del ristorante erano pieni di attenzioni (a mezzogiorno gli portavano sempre un piatto con contorno che sceglievano loro stessi), e i topi non davano nessun fastidio.

Mi spiegò, con tanto di dimostrazione pratica, come dovevo fare: «Prima di uscire, batti i piedi una o due volte, così, come faccio io; sono animali intelligenti e capiscono in fretta; ti eviteranno, vedrai».

Presi l’abitudine di battere i piedi ogni mattina, nell’aprire la porta, per poi correre via, di ottimo umore, nel mio ufficio con vista sulla Senna.

 

 

 

Furono anni felici. Certe cose si capiscono quando ci si guarda indietro. La fatica quotidiana non intaccava il mio profondo benessere. A volte ero talmente esausta che apprezzavo perfino gli ingorghi, soprattutto quegli ingorghi colossali in cui ci si imbatte a fine giornata se dall’aeroporto si prende l’autostrada in direzione di Parigi: mi toglievo le scarpe e schiacciavo un sonnellino sul sedile posteriore della macchina che avevo trovato ad attendermi a Roissy. In quei momenti avevo la sensazione di essere irraggiungibile. Mi piacque molto anche lo sciopero a oltranza del 1995: per un mese intero si fermò tutto (e all’epoca non c’erano ancora né cellulari né Internet). Durante quelle settimane in cui la Francia restò paralizzata, uscivo dagli uffici deserti e raggiungevo Giacomo in un bistrot: ai clienti abituali andava ad aggiungersi gente esausta per le lunghe marce, a volte loquace, non di rado spaesata: era una festa.

Vivevo due vite parallele che mi mantenevano in equilibrio (ma, in fin dei conti, non mi ero trovata sempre in quella situazione?). Di giorno lavoravo in uffici asettici con l’ardore di una paladina del capitalismo; di sera rientravo nell’appartamento, provvisto del bonus topi, di rue Monsieur-le-Prince con l’animo e il passo di una liceale.

Nel frattempo i lavori di Giacomo avevano varcato l’Atlantico: ormai aveva un gallerista newyorkese ed esponeva ogni anno, alternativamente a Milano e negli Stati Uniti; di tanto in tanto il «New Yorker» gli commissionava dei disegni. Ricordo un breve viaggio a Washington in occasione di un vernissage; ricordo la camicia bianca di piqué, molto sobria, che indossavo mentre percorrevo Pennsylvania Avenue per raggiungere il luogo dove si teneva la mostra; ricordo che il sole stava tramontando e che quella sera pensai che la vita valeva la pena di essere vissuta.

 

Giacomo mi aveva alleviato il peso dell’esistenza. Non ero più venuta al mondo per essere responsabile dei miei genitori, dei miei collaboratori. Era lui a farsi carico della mia persona, e ne godeva. Grazie a lui avevo finalmente incontrato la mia giovinezza.

 

Un po’ alla volta avevo smesso di fare salti mortali per piacere, ma non troppo, per esprimere la mia opinione, ma senza troppo espormi. Spesso le persone che avevo conosciuto erano parte di una storia dai contorni indistinti, sulla quale avevo poca presa. Giacomo invece era reale. Era contento di risvegliarsi accanto a me, contento di camminare al mio fianco, mai preoccupato se tardavo, contentissimo di portarmi in braccio per le scale quando mi ruppi un piede, libero di ridere o di annoiarsi a morte quando gli raccontavo qualcosa. Se ne infischiava della psicologia, non dissezionava ogni mio gesto, ogni mia frase. Il suo corpo parlava al mio con naturalezza. E non c’era distinzione, in lui, fra la vita del pittore e quella dell’uomo: osservava le cose, si concentrava sui particolari, a volte in modo ossessivo; i visi e gli oggetti che destavano il suo interesse finivano puntualmente nei suoi disegni. E grazie a lui li vedevo anch’io, oppure ne vedevo altri, ancora più sorprendenti. Tutto acquistava rilievo.

Avevo la sensazione che, come accade ai veri scrittori, l’esercizio e il raccoglimento imposti dalla volontà di scrutare i particolari gli permettessero di avere, a tratti, delle intuizioni sul mondo. E lo ammiravo perché quelle folgorazioni non erano il frutto della sua cultura, non riflettevano le idee correnti. Venivano dal profondo: da uno sguardo solitario e originale. Lui me ne parlava come se niente fosse, senza dargli troppa importanza. E così l’orlo di un abito, l’odore della metropolitana, un ladruncolo in fuga, uno strano riflesso in una vetrina diventavano come schegge di avventure.

 

Poiché a entrambi piaceva camminare, il sabato o la domenica attraversavamo la città a piedi. Per scendere da Montmartre alla Senna è possibile seguire diversi itinerari e scegliere fra varie attrattive; io avevo una particolare predilezione per le camminate della domenica mattina, quando Parigi dorme e le poche macchine in circolazione le senti arrivare da lontano, come in un vecchio film. La cucina orientale e quella maghrebina non erano tra le preferite di Giacomo, ma una volta su due, per accontentarmi, mi teneva compagnia davanti a un piatto di couscous o di polpettine libanesi.

Il mercato delle pulci di Clignancourt esercitava su di noi un’irresistibile malia. Passavamo lì ore e ore senza neppure accorgercene. Giacomo osservava, e a volte schizzava su un taccuino, i dettagli di un mobile, prendeva nota di un colore; frugava nelle scatole di cartone in cerca di qualche disegno di architettura; sollevava pesanti tende polverose a caccia di tesori di cui lui per primo ignorava la natura; girava i quadri per vedere se l’etichetta del corniciaio era leggibile; si fermava, pensieroso, davanti a pile di vecchi giornali o alle enormi vertebre di una balena.

 

Fu lì che un giorno, quasi per caso, cominciai a selezionare, scegliere e acquistare cartoline d’epoca. I rigattieri le tengono esposte in scatole di legno suddivise in scomparti, in modo che sia più facile raccapezzarsi: Parigi, le altre province francesi, l’Europa, l’Italia, l’Algeria, la Tunisia, il Vietnam, la Cina, la Cambogia... quasi sempre c’era una sezione dedicata all’Egitto, alla Siria o al Medio Oriente. Compravo d’impulso. Ben presto mi resi conto che ad attrarmi di più non erano le immagini riprodotte sulle cartoline, quasi sempre rovinate o colorate senza grazia. E non mi interessavano neppure i francobolli. Quello che assorbiva per ore la mia attenzione erano i nomi, gli indirizzi, le rare frasi, le diverse grafie. Negli anni Novanta (dopo un po’ meno) se ne trovavano moltissime nei mercatini dell’antiquariato francesi, ben più che in quelli degli altri paesi europei; non era poi così strano, pensavo, c’erano ragioni ben precise: gli spostamenti dei funzionari distaccati nelle colonie, le interminabili guerre con i loro campi di prigionia, i primi viaggi turistici dell’alta borghesia, l’influsso, ancora forte, di una cultura della conversazione e infine abitudini familiari molto radicate.

Quante Mademoiselles, rimaste a Parigi o nelle città di provincia, erano destinatarie di quelle missive... A volte i loro nomi (Amélie, Y vette, Augustine, Léone, Élise...) erano preceduti da un titolo professionale, scritto per esteso, in segno di ossequio. Quanti soldati, marinai, impiegati dei porti c’erano fra i mittenti. In poche frasi, quelle cartoline raccontavano l’amore che sboccia, la nostalgia, la felicità, la noia, la malattia, la paura.

Riemergevo da quelle lunghe esplorazioni frastornata e sopraffatta dalle traiettorie, dall’intrecciarsi dei sentimenti, dai sogni e dalle speranze, dai racconti di viaggio, da tutte quelle cose che era stato così importante e urgente descrivere, da tutti quei progetti di vita di cui ormai restavano solo poche parole.

Trovate per caso. In una scatola di legno. Su un marciapiede.

 

 

Verso la fine degli anni felici di rue Monsieur-le-Prince, per l’esattezza nella primavera del 1997, Giacomo decise che doveva accompagnarmi ad Alessandria, che dovevo rivedere la mia città natale. Era diventato improvvisamente curioso, e sapeva che l’idea di quel viaggio mi intimoriva.

Dal momento che le navi di linea in partenza da Marsiglia non esistevano più da almeno quarant’anni, prendemmo l’aereo. Al nostro arrivo al Cairo i doganieri ci fecero compilare dei moduli, guardarono solo di sfuggita il mio passaporto (il timore che potessero additare con sospetto il mio luogo di nascita era assurdo, eppure ce l’avevo); tutto mi sembrò stranamente familiare. La sera stessa, percorrendo la strada del deserto, arrivammo a destinazione e ci sistemammo in un appartamento vicino a quella che un tempo si chiamava place des Consuls, e che poi era diventata piazza Mohammed-Ali quando io ero bambina, e adesso piazza el-Tahrir.

Ero prudente, stavo all’erta, mi auscultavo. All’alba, sentendo il caratteristico sferragliamento dei vecchi tram quando prendono una curva, il cuore ebbe un sussulto.

Quel primo giorno mi ci volle un po’ a prepararmi per uscire. Dopodiché decisi di fare un giro, mentre Giacomo, con la più assoluta naturalezza, prendeva posto in un bar chiassoso, chiedeva un po’ d’acqua per mescolare i colori, mangiava dolci appiccicosi, il tutto dopo aver cercato di spiegarmi come la Coca e la Pepsi si erano spartite il mercato nei vari porti del Mediterraneo.

Attratta dagli odori, mi ero intrufolata in mezzo alla folla di un mercato e guardavo trasognata le vetrine delle drogherie e le pile traballanti di barattoli colorati. Bevvi un succo di canna da zucchero ascoltando strepitare gli altoparlanti delle moschee che chiamavano i fedeli alla preghiera; proseguii la passeggiata saltellando per evitare i rigagnoli d’acqua sporca e rossastra attorno ai banchi dei macellai; più tardi, quando giunsi sulla Corniche e vidi il sole dietro la fortezza di Qaitbay mi dissi che cominciavo a stare meglio: a parte lo spasmo causato dal tram al risveglio, il mio cuore era rimasto assolutamente calmo, non ero né eccitata né triste.

 

L’indomani partimmo in cerca della casa della mia infanzia: avenue Fouad 275, di fronte allo Sporting Club. Pensavo che il numero civico fosse cambiato (dal momento che era cambiato il nome della via), ma che avrei riconosciuto la casa a prima vista. Accadde esattamente il contrario, il numero era rimasto lo stesso mentre la casa era irriconoscibile. I terrazzi erano spariti, all’edificio erano stati aggiunti tre piani. Fui certa di non essermi sbagliata solo quando, dopo aver varcato il portone semidivelto, riconobbi le cassette delle lettere. Di legno, numerate alla maniera occidentale, con gli scomparti protetti da vetri a mezzaluna. Risalivano agli anni Trenta, erano sopravvissute.

La scuola delle suore di Notre-Dame de Sion, invece, non era cambiata: sempre imponente, con le sue grandi finestre a ogiva. Ma sembrava spoglia, tutta sola in mezzo a una foresta di palazzi smisurati e minacciosi; una moltitudine di balconi stipati di oggetti la guardavano dall’alto. Il grande giardino che la proteggeva era stato divorato dai nuovi edifici; sul retro, dove le bambine di un tempo giocavano a tennis in gonnellino bianco, stavano costruendo un capannone. Una suora copta, che parlava un francese stentato, mi prese per mano e mi condusse nel corridoio del primo piano, dove facevano lezione le più piccole. Il pavimento era lucido e impeccabile come una volta. Si sentivano voci infantili che cantavano in arabo.

 

Il terzo giorno noleggiammo una macchina per andare ad Abukir, che mi sembrò straordinariamente vicina ad Alessandria; speravo di essere una brava guida, e invece non trovai niente di quello che ricordavo. Il perimetro della baia era una successione di cubi di cemento, il vento faceva vorticare cartacce e brandelli di plastica, la spiaggia era desolata, il mare sembrava ricoperto da uno strato oleoso. Pranzammo in un grande ristorante bianchissimo e completamente vuoto. Ci fecero scegliere il pesce; in quel momento mi venne alle labbra una parola, che riaffiorava da chissà quali profondità e si impose con prepotenza: barbuni, triglia. Perché proprio quella? Certo carina (anche se non particolarmente utile), l’orfanella era venuta a galla da sola. Dunque non ero del tutto una straniera.

Il sole entrava dalle ampie vetrate. Quando viaggio ho sempre fame e così, quando mi portarono le barbuni alla griglia, le trovai deliziose e chiesi un’altra porzione di riso. Giacomo, leggermente inquieto davanti al suo piatto di calamari, mi chiese se ero triste o delusa. No, anzi. Stavo piuttosto bene, ero contenta di rivedere quei luoghi e di non provare neppure un’ombra di amarezza.

 

Sulla strada del ritorno gettai uno sguardo all’Ospedale greco, che mi parve in buona salute, e facemmo una sosta all’altezza del vecchio cimitero ebraico. Era chiuso, ma da un casotto sbucarono due bambine graziose e allegre che si offrirono di aprirlo. C’era un’atmosfera bella e grave, soprattutto per via dei cani che vi abitavano: era il posto ideale per sfuggire al traffico micidiale, alle sassate, ai calci. Sulla maggior parte delle tombe stava seduto o sdraiato un cane giallo. Ci guardavano senza alcun timore, uno di loro era intento a leccarsi una ferita aperta sulla zampa. Altri facevano finta di dormire, solo uno agitò la coda senza troppa convinzione. Riconobbi alcuni nomi che mi erano familiari: De Botton, Servadio, Menasce, Pinto, Gabbai... Chiesi a Giacomo di disegnare un cane su una tomba. Ma preferì scattare qualche foto.

 

Quella sera, seduta accanto a lui sul muretto che fiancheggiava la Corniche, in mezzo alle luci e all’animazione di un venerdì sera, lievemente inebriata da impressioni contraddittorie, dissi che mi sarebbe piaciuto partire e andare altrove, visitare un posto nuovo. Non avevo voglia di giocare con i ricordi, di resuscitarli, di cullarli.

In molti tornano nei luoghi della propria infanzia o della propria giovinezza; la gioielleria del padre è diventata nel frattempo un negozio di maioliche, il giardino della nonna una discarica, il cortile della scuola un garage; allora sentono una stretta al cuore, pensano che niente sarà più come prima, ma già lo sapevano, già presentivano quello scempio... Non avevo voglia di giocare a quel gioco. Non volevo visitare la casa di Kavafis, né tornare all’Atelier, dove un tempo mia madre lavorava alle sue sculture, non volevo andare in cerca dell’ufficio di mio padre dalle parti di quella che una volta era la Borsa, né in pellegrinaggio al ristorante Élite – e meno che mai alla spiaggia di Agami.

Era così, e basta. Avevo lasciato quella città, ed erano passati decenni. Lì avevo trascorso gli anni dell’adolescenza sognando la Francia, vagheggiandola come la mia vera patria, eppure sul ponte della nave che mi portava via per sempre avevo pianto la perdita di Alessandria. L’avevo lasciata, non dimenticata; anzi, forse una parte di me non si era imbarcata a bordo dell’Esperia in quell’estate del ’56. Era rimasta qui; non avevo sofferto troppo per l’amputazione, e la cicatrizzazione era stata perfetta. Ma ormai ero incapace di tentare un trapianto con il fantasma della mia giovinezza.

Giacomo ascoltava, paziente.

 

L’indomani ci facemmo condurre in macchina prima al Cairo, poi a el-Fayyum. Già all’epoca era una meta sconsigliata ai turisti: venivi fermato a un posto di blocco e dovevi mostrare i documenti prima di poter proseguire. Il nostro autista scese e si lanciò in una lunga spiegazione indicando più volte Giacomo, e mostrando le cartelle piene di disegni e tutto l’armamentario da pittore nel portabagagli. Quando tornò, capimmo che l’aveva spuntata. «Verremo comunque scortati da una macchina della polizia». Gli chiesi se era per sorvegliarci; rispose con un certo orgoglio che, al contrario, era per proteggerci.

I quattro figuri stipati dentro una macchina nera piuttosto malconcia sembravano contenti di avere finalmente un diversivo. Ci seguirono ovunque mantenendosi a qualche metro di distanza e dando così una certa solennità al nostro giro turistico. Dovevano aver ricevuto consegne precise, perché non scendevano mai tutti insieme dalla macchina e aspettavano fermi sotto il sole, sudando eroicamente, senza mai mangiare né bere. Di tanto in tanto gli portavamo delle bottigliette d’acqua; e la sera chiesi al personale del vecchio albergo in cui ci fermammo di preparare per loro panini e tè caldo.

I tre giorni trascorsi a el-Fayyum sono per me un ricordo così forte che per un po’ ho evitato di parlarne. I frutteti, i piccoli appezzamenti di terreno fiancheggiati da palme, i carretti carichi di ceste di cetrioli, gli autocarri agonizzanti nel traffico infernale, gli enormi fasci di erbe e prezzemolo, i vasai che impastavano l’argilla lungo i canali, i motorini inzaccherati che facevano lo slalom fra le capre e i bambini – tutto questo era insieme la Bibbia e l’Egitto della mia infanzia.

L’ultima sera, sempre scortati dai nostri angeli custodi, andammo verso le rovine, ai margini del deserto. Lì c’è un tempietto quadrato, isolato da tutto il resto, assolutamente privo di interesse; a meno che non abbiano ragione gli egiziani (lo chiamano qasr, castello) e non sia un’antichissima costruzione difensiva erosa dal vento. Quella sera, dalla terrazza di Qasr Qarun, guardammo verso ovest e trattenemmo il fiato davanti a una colonna di sabbia arancione che si avvicinava, ondeggiava, si allontanava. D’un tratto accelerò, fischiando, e poi di colpo scomparve. E di colpo calò anche il vento.

Presa dall’entusiasmo quasi gridai, rivolta a Giacomo: «Guarda, mamma!». Lui mi abbracciò, mi sollevò da terra e mi diede un bacio: «Doppio lapsus! Una donna normale avrebbe detto: “Guarda, papà!”».

Da dentro la macchina nera, i poliziotti se la ridevano.

 

 

 

Quell’episodio diede il via a tutta una serie di variazioni sul tema. Fu all’origine di scenette intime e scherzose. E ci indusse a rievocare, con grande franchezza, vecchie storie familiari. Riparlammo degli amori dei nostri genitori. Le nostre storie erano molto simili; lo avevamo scoperto solo dopo il matrimonio, e la cosa ci aveva divertito parecchio. Mi raccontò per l’ennesima volta il miscuglio di felicità e d’infelicità con cui aveva accolto la notizia di non essere figlio di suo padre. Era felice perché conosceva e stimava il suo vero padre, infelice perché, dopo quella rivelazione tardiva, provava pena per il padre legittimo.

Gli ripetei che anche io lo avevo scoperto tardi: dopo la morte di mia madre e poco prima di quella di mio padre. Le analisi del sangue, così frequenti negli ultimi mesi della loro vita, non davano adito a dubbi. Andavo a ritirarle io stessa e le archiviavo insieme alle mie; fatta eccezione per i rispettivi medici, non ne avevo mai parlato con nessuno.

«A differenza di te, io non saprò mai. Mia madre non mi ha detto niente. Non ha lasciato nessun indizio».

«Ti rendi conto? Quattro padri in due! E uno dei quattro è un fantasma. Un bel record!».

«Per fortuna non do tanta importanza alla cosa».

«Magari sei svizzera». (Gli avevo raccontato l’episodio di Werner).

«Non credo: le date non coincidono».

«Argentina? Ho conosciuto delle argentine dall’aspetto vagamente mediterraneo che ti assomigliavano».

«Non vedo come».

«Allora inglese: me lo sento. Un’inglese tutta selfcontrol! Chiusa a doppia mandata!». (Mi posò una mano sullo stomaco).

Pochi giorni dopo mi regalò un esilarante ritratto nel quale ero raffigurata su un’isola deserta, in mezzo alle palme, mentre brandivo un cartello con su scritto: MAMMA???

 

 

 

Ancora oggi mi chiedo come fosse possibile che il mio lavoro di dirigente venisse apprezzato e che riuscissi a svolgerlo senza contrasti. Io, che nel corso degli anni avevo perduto tante lingue, mi ritrovavo a parlare senza difficoltà quella dei miei azionisti e dei miei collaboratori. Avevo una certa predilezione per i responsabili delle risorse umane: si erano messi in testa, alla fine del ventesimo secolo, di occuparsi di «organizzazione del lavoro», dicevano di avere a cuore il «benessere dei dipendenti», e a volte era vero. In genere avevano un modo di esprimersi concreto; fra loro mi è capitato di incontrare qualche collaborazionista (sono i rischi del mestiere), ma pochissimi sadici.

Quanto ai direttori finanziari, da alcuni anni il loro linguaggio aveva cominciato a degenerare in un gergo pieno zeppo di metafore; si autodefinivano «creativi», si lanciavano in sproloqui esaltati degni di cronisti sportivi. Passavano le giornate (soprattutto nei periodi cruciali di «elaborazione dei budget») a disquisire di performance, mix di apporti, impatti positivi, stalli imprevisti, sfide all’ultimo sangue, orizzonti temporaleschi, nuovi tasselli portanti, strappi dolorosi o piste nere. Che razza di assurdo bivio mi aveva condotta a trovare il mio posto in questo universo?

I CFO, i DACF, o comunque li si voglia chiamare, sono una categoria trasversale: possono lavorare indifferentemente nelle multinazionali di Milano, Francoforte, Londra, Parigi; se, per esigenze aziendali, vengono trasferiti, si rimettono senza indugio a preparare le loro slide, quasi imperturbabili di fronte al cambio di paese, di macchina, di casa, di scuola dei figli.

 

Avevo sempre avuto la sensazione di essere un’abusiva – che ci fosse, diciamo, una profonda incoerenza fra me e il mio lavoro. Ma con l’andar del tempo avevo acquisito una certa esperienza e imparato a usare il buon senso; il disagio si era attenuato, e nessuno aveva mai messo in discussione la mia autorità. In compenso, la sensazione di fallimento personale era sempre in agguato, ben radicata nonostante gli apparenti successi.

Anni dopo, per puro caso, mi capitò fra le mani il dossier che i cacciatori di teste avevano fornito agli azionisti e che era stato decisivo per la mia assunzione. Redatto in uno stile che meriterebbe di essere ripreso e parodiato da un grande scrittore comico, diceva che in effetti non avevo grandi competenze in ambito finanziario, né una specifica preparazione universitaria, ma faceva leva proprio su queste lacune per elogiare la mia straordinaria capacità di circondarmi di persone esperte, la mia totale assenza di suscettibilità, il mio zelo indefesso per il lavoro, eccetera. Il «profilo», eccellente, era una tale caricatura della mentalità dell’epoca che leggerlo mi gettò nello sconforto. Ero la perfetta incarnazione di tutti gli stereotipi della fine del ventesimo secolo. Venivano più volte ricordate le mie origini cosmopolite, si insisteva sulla mia attitudine a instaurare uno spirito di squadra, sulla mia elasticità, sulla mia capacità di inserirmi in ambienti difficili e promuovere progetti, oltre che sulla mia naturale empatia con i collaboratori, empatia che avrebbe di sicuro favorito proficue interazioni partecipative.

Le uniche considerazioni interessanti si trovavano nella parte dedicata all’analisi grafologica (andava molto di moda e in genere la si faceva senza informare il candidato, di cui non veniva reso noto né il nome né il sesso). Custodito in una busta con su scritto «confidenziale», il rapporto si concludeva con queste precise parole: «Il candidato presenta una debolezza di carattere. Attraversa cicliche fasi di abbattimento dovute a crisi di profonda stanchezza esistenziale. Fortunatamente le dissimula e le supera rapidamente grazie a una forza di volontà fuori del comune».

 

 

 

Gli ultimi mesi del secolo furono segnati da crisi di profonda stanchezza. E sfortunatamente la forza di volontà poté farci ben poco.

In municipio avevano finito per accorgersi delle condizioni fatiscenti del nostro palazzo, in pieno VI arrondissement. Il nostro strambo proprietario – che quando era in imbarazzo aveva l’abitudine di tormentarsi il berretto, ridere come uno sciocco alzando gli occhi al cielo, mordersi le labbra e poi farfugliare parole incomprensibili tra le quali si riusciva a distinguere solo qualcosa che suonava pressappoco come «esagerato» o «esagerano» – era già stato messo in mora più di una volta. Fra i gestori dei ristoranti giapponesi della zona correva voce che non avesse mai pagato la tassa sugli immobili e che, a forza di ritardi e multe, la somma da versare fosse diventata così alta che non avrebbe mai potuto onorare il suo debito. Insomma, dovevamo trovare al più presto un’altra sistemazione.

 

I quasi vent’anni trascorsi a Parigi erano volati; mi era parso che avessimo trovato una vera e propria stabilità. Giacomo era sempre più quotato; disegni e acquarelli erano più apprezzati dei quadri di grande formato. Le mostre, a Milano o negli Stati Uniti, sapientemente distanziate nel tempo, erano sempre eventi degni di nota; a Parigi, sebbene fosse il luogo dove lavorava di più, non ne aveva mai organizzate.

Ma ormai vivere a Parigi cominciava a pesargli. Quando gliene chiedevo il motivo si lasciava sfuggire a volte frasi un po’ illogiche:

«Non sopporto più i pedoni. Non fanno altro che chiedere scusa, in tono stressato. “Pardon” di qua, “pardon” di là, dopodiché ti danno una spinta, ti piantano un gomito nelle costole e ti pestano i piedi.

«... Per non parlare dei bistrot! Ti sei accorta di come si mangia male ultimamente? Hanno preso il vizio di mettere la panna dappertutto! E il rumore? Non si riesce più a parlare: con tutti quei tavoli minuscoli a cinque centimetri l’uno dall’altro...».

Una volta aveva fatto un commento che, venendo da un uomo che non dava la minima importanza al denaro e non ne parlava mai, mi aveva lasciata interdetta:

«Hai visto quanto costa il riso Arborio? Il triplo che in Italia».

Il giorno in cui gli dissi che avevo intenzione di chiedere la cittadinanza francese (sebbene fosse un gesto tardivo, lo consideravo coerente con la mia vita passata e con l’amore per certi versi irragionevole che avevo sempre nutrito per quel paese), ebbe un moto di stizza:

«Non vorrai ricominciare con i certificati di nascita e di matrimonio? È assurdo! Mi rifiuto di partecipare all’ennesimo calvario burocratico».

Avevo previsto quella reazione e, temendola, ero già andata in Questura senza dirgli niente. La trafila era spaventosa: la lista dei documenti da produrre era lunga sedici pagine. In originale e in copia. Le richieste erano quasi poetiche per quanto erano inattuabili. Mai e poi mai sarei riuscita a risalire alla data di matrimonio dei miei genitori... L’unica cosa che mi avevano raccontato era che il pomeriggio stesso del grande giorno, all’inizio degli anni Trenta, erano andati all’ippodromo e avevano dato fondo a quasi tutti i loro risparmi; tanto che avevano dovuto rinunciare al viaggio di nozze in Europa. Nulla, insomma, con cui potessi sperare di convincere un ufficiale di stato civile.

 

L’addio a rue Monsieur-le-Prince coincise con la fine di un bel periodo. Avevo la nausea per giornate intere.

 

 

 

Un giorno una mia amica, una giornalista italiana che un tempo spopolava sui settimanali femminili, mi aveva detto in tono risoluto: «I cinquanta sono la vecchiaia della giovinezza, mentre i sessanta sono la giovinezza della vecchiaia». Quella formula mi piacque a tal punto che decisi di tenerla a mente; rendeva meno brusco il passaggio da un’età all’altra e stabiliva un doppio legame con l’avanzare degli anni. In entrambi i casi compariva il termine «giovinezza»; il confine restava incerto.

All’inizio del secolo feci, dunque, il mio ingresso nella giovinezza della vecchiaia, e mi trasferii in un nuovo appartamento (senza topi, questa volta, e con una splendida vista sulle torri di Saint-Sulpice). Sul pianerottolo non si sentiva più aleggiare l’odore di trementina. Giacomo lavorava la maggior parte del tempo a Milano, dove era tornato a stare nel suo vecchio appartamento; una volta a settimana prolungavo i miei viaggi d’affari per cenare con lui e passare la notte insieme. In apparenza non c’era stato nessun cambiamento profondo: aveva preferito tornare a vivere a casa sua, senza dare a quella decisione né un carattere definitivo né un valore simbolico. Voleva sentirsi libero, e io lo capivo. Il ristorante all’angolo si chiamava Il cinghiale, la sua specialità erano i piatti a base di polenta e quelli a base di porcini (questi ultimi davvero insuperabili). La mattina presto un taxi mi accompagnava all’aeroporto di Linate.

 

Un tempo amavo gli aeroporti, i ritorni a casa, i bagni caldi prima di andare a letto. Apprezzavo perfino l’estetica dei terminali; facevo colazione o a volte consumavo una cena leggera nelle sale riservate; ero un’assidua frequentatrice delle boutique che vendevano prodotti di bellezza (a Milano ce n’era una così «trendy» che ci facevo sempre una capatina).

Ma ormai tutto era diverso. La stanchezza che leggevo sul volto dei miei colleghi che si concedevano una mezz’ora di sosta al bancone di un bar o nei negozi, la triste smania che li spingeva a controllare e leggere le e-mail ogni cinque minuti, i discorsi al cellulare che vertevano immancabilmente sui margini di contribuzione o i break even, e quasi mai sulla loro vita personale, non mi lasciavano più indifferente. Lanciavo sguardi irritati alle vetrine, numerosissime: quello che vedevo riflesso non mi piaceva affatto. Per non parlare poi di quell’odore tremendo, identico in tutto il mondo occidentale, dei negozi che vendono insieme prodotti gastronomici e profumi: l’odore di formaggio mescolato a quello di patchouli era disgustoso in qualsiasi ora del giorno.

Lo associo alla sensazione che la trama della mia vita, fitta e resistente finché Giacomo aveva vissuto con me in rue Monsieur-le-Prince, si stava allentando e disfacendo, un filo dopo l’altro. Mi restavano il forte legame con il mio lavoro e quello con la Francia e il francese. Destinati a essere senza ombra di dubbio gli unici due punti fermi della mia vita.

 

 

 

Ding dong... «Il professor Van Hook, che doveva tenere una conferenza sull’attività vulcanica nelle isole del Pacifico, sfortunatamente è indisposto. La conferenza non avrà luogo; è rimandata al prossimo martedì 21 giugno alle ore 21. Il professore si scusa...».

Ding dong... «Per quale motivo è stata spostata la data della conferenza? a) Perché il conferenziere è malato; b) Perché la sala non è disponibile; c) Perché il conferenziere ha perso l’aereo; d) A causa di un’eruzione vulcanica...». Ding dong...

Era una delle trenta domande che avevo sentito risuonare nell’aula dell’Alliance française di boulevard Raspail. Un mese e mezzo prima mi ero iscritta al test attitudinale di francese, obbligatorio per ottenere la cittadinanza. Le voci si susseguivano in fretta, bisognava annerire la casella corrispondente alla risposta esatta; i candidati avevano trenta minuti per venticinque domande. Dovevamo ascoltare attentamente, evitare i piccoli tranelli, avere buona memoria; sulla scheda che ci avevano dato non c’era scritto niente, ci facevano sentire il testo di ogni domanda una sola volta e gli argomenti erano i più svariati: la pensione, la pace nel mondo, le panetterie, le amministrazioni locali, le carte-fedeltà.

Pensai per un attimo a Giacomo e ai miei amici. Chissà come avrebbero riso di me. Chissà se avrebbero mai capito per quale motivo ero lì. Era troppo difficile da spiegare.

Ero seduta accanto all’uomo più anziano; aveva mani da operaio e portava la cravatta. I quaranta candidati presenti nel piccolo anfiteatro provenivano da mondi diversi. Sette, otto donne velate, diciamo più o meno velate; tre belle bionde con la minigonna e i tacchi alti, probabilmente russe, o comunque di origine slava; alcuni giovani maghrebini con le scarpe da ginnastica; una donna fra i quaranta e i cinquanta di un’eleganza discreta; due libanesi – le riconobbi subito dall’accento – che erano venute insieme e avevano l’aria di essere assidue frequentatrici del posto.

Mi sembrò di intuire che l’uomo alla mia destra fosse turco. A partire dalla terza domanda mi parve spaesato e triste. La sua penna esitava fra le varie caselle. Arrivato alla domanda relativa alla conferenza sull’attività vulcanica nel Pacifico, mi guardò con aria implorante. Spinsi il mio foglio verso di lui per mostrarglielo senza fare rumore. Una delle sorveglianti, una bella ragazza antillana, arrivò sbattendo i tacchi, mi lanciò uno sguardo di rimprovero e si piazzò proprio lì accanto, facendolo andare in confusione.

Il ritmo delle domande era incalzante; era una specie di gioco, semplice e perverso; sarebbe stato un computer a vagliare le schede e a stabilire il coefficiente di comprensione orale di ciascun candidato. Noi avremmo dovuto telefonare di lì a uno o due mesi per sapere se il certificato era pronto e se potevamo andare a ritirarlo, di persona, muniti di un documento di identità. Non c’era modo di sapere neppure la data approssimativa. Né di delegare qualcun altro. Né di ricevere la comunicazione per posta. Era un esame serio, quello.

 

 

 

Da quando Giacomo aveva trasferito altrove la sua dimora e soprattutto il suo studio vivevo come a metà. Il lavoro mi assorbiva solo superficialmente; a livello più profondo, avevo inserito il pilota automatico.

Per la carta stampata cominciavano tempi difficili, soprattutto per i femminili di livello basso. In un primo momento la strategia fu quella di lanciare nuove formule editoriali, accompagnate da slogan energici e ottimistici del genere «sbaraglieremo la concorrenza, si salvi chi può». I formati diventavano sempre più smilzi, e per vendere gli spazi pubblicitari si dovevano fare i salti mortali; i DG si ostinavano a cercare di creare sinergie fra le varie riviste; i direttori di redazione (che il più delle volte erano delle direttrici) andavano e venivano; anche ai piani alti era un continuo susseguirsi di discorsi inaugurali e brindisi di addio. L’atmosfera stava diventando tesissima. Quando fu chiaro che le nuove formule non bastavano si passò a soluzioni drastiche: alcune testate furono soppresse, altre accorpate, altre ancora vendute. Ma tutto sembrava inutile. E le riviste si assomigliavano sempre di più.

Non mi piaceva affatto sovrintendere a tutta quella frenesia. Sentivo riaffiorare i ricordi. Un tempo, nei quartieri borghesi delle capitali e delle città di provincia, esistevano piccoli atelier per signora, dove le sarte ricevevano le clienti per la prova dei vestiti; accorciavano una gonna «perché faceva più giovane», oppure la allungavano «perché era più chic», scavavano una scollatura «senza esagerare», aggiungevano una pince «per dare un tocco di classe». Le clienti si guardavano nello specchio a tre ante, strizzando gli occhi. Sfogliavano nervosamente le grandi riviste internazionali da cui avevano tratto ispirazione per ordinare l’abito o la giacca. Si sforzavano di non dare a vedere la delusione che cresceva a mano a mano che l’indumento prendeva forma.

La sarta si metteva d’impegno; ma più ritocchi apportava e più l’abito assomigliava a un sacco con i buchi, identico a quello della cliente di prima. Sospirando, faceva quello che poteva: che non era poi granché, dato che era impossibile adattare un sogno di stoffa a un fisico normale. Per fortuna sono arrivate le grandi catene di abbigliamento, e così tutti hanno potuto comprarsi vestiti a buon mercato, di discreta fattura, disegnati con un certo gusto e una certa varietà. In una manciata d’anni l’ingrato lavoro delle sarte a domicilio è stato spazzato via. Sono stati i corpi ad adattarsi agli indumenti, non il contrario. Le clienti hanno sostituito con giretti rilassanti per i negozi quei pomeriggi deprimenti in cui se ne tornavano a casa con una misera tunica ritoccata in ogni dove nella vana speranza che potesse somigliare, sia pure alla lontana, a un inarrivabile modello di Dior o di Givenchy.

Anche io provavo una sensazione di malinconica impotenza: tagliavamo e ricucivamo i settimanali, modificavamo la distribuzione degli spazi, cambiavamo titoli, titoletti, colonne, copertina. Per cercare di piacere a un ipotetico acquirente. Gli azionisti ormai non ci concedevano più né il tempo né la fiducia necessari a trovare idee capaci di soddisfare un certo gusto e determinati bisogni. E che potessero avere vita lunga e diventare «prodotti stabili».

 

In fondo anch’io, come tutti gli impiegati del mondo, aspettavo ormai con impazienza l’arrivo delle vacanze. Sebbene un po’ tardi, avevo scoperto l’oceano. Quanto ci era piaciuta, a me e a Giacomo, la Bretagna. Ci addormentavamo beati in camere da cui si sentiva il vento che agitava le fronde degli alberi. Io avevo sempre fame e mi dimenticavo della mia età; lui aveva ritrovato il sorriso, si abbronzava in un baleno, mi faceva assaggiare il sidro.

L’unica cosa che proprio non mi piaceva erano quei porticcioli moderni con attraccate decine di barche a vela tutte uguali. Ma dov’erano andati a finire i pescherecci di una volta? Era per questo, mi disse Giacomo, che dovevamo andare una settimana in Marocco: lì la luce dell’oceano era proprio quella che a me piaceva tanto, e in più avrei potuto vedere le vecchie barche di una volta entrare e uscire dal porto. Essaouira resuscitò emozioni che credevo morte e sepolte. Tutte le sere, prima del tramonto, andavamo ad assistere allo spettacolo dei pescherecci che rientravano. Arrivavano dal mare aperto, con la pancia gonfia di sardine, leggermente inclinati, scortati da nugoli di gabbiani in preda a un’agitazione frenetica. I loro fianchi malridotti avevano gli stessi colori di quelli delle navi descritte da Omero nel suo catalogo: vermiglio, nero, blu scuro.

Per tornare in albergo passavamo da una strettoia vicino a un fosso dove i pescivendoli gettavano teste e viscere. Il tanfo era insopportabile. Giacomo si tappava il naso con fare ostentato, simulando un irreprimibile conato di vomito. Io lo prendevo in giro. Conoscevo gli odori dei porti fin dall’infanzia.

I negozi lungo la strada erano pieni zeppi di lunghe collane di perline colorate appese su cavalletti; dopo un’accurata scelta ne compravamo qualcuna; la salsedine e la polvere non ne offuscavano la bellezza selvaggia, ma le rendevano incredibilmente appiccicose; le lavavamo con lo shampoo nell’acqua tiepida del lavandino.

È vero: eravamo entrambi quasi vecchi, ma in vacanza non si vedeva.

 

 

 

Dalla Questura mi era arrivata un’ultima richiesta relativa alla pratica per ottenere la cittadinanza: volevano una lettera autografa in cui Giacomo dichiarava sul suo onore di non avere alcuna intenzione di associarsi alla mia domanda. Costretta a dirgli che la trafila era a buon punto, preparai io stessa il testo che lui ricopiò e firmò. Quella sera eravamo a Milano, io cercai di minimizzare e di tagliare corto. Senza alcun risultato.

«Lo vedi che ho fatto bene ad andarmene: di me non ne vogliono proprio sapere!».

Da vera donna d’esperienza, gli spiegai che la burocrazia non ha sentimenti, nessuno ce l’aveva con lui, nessuno si era mai augurato che lui se ne andasse. Ma dal momento che eravamo sposati quella formalità era necessaria per chiudere la pratica.

«Hanno paura che voglia usufruire della loro previdenza sociale! Che chieda il ricongiungimento familiare. Pensano che sia un artista di strada. E che mi faccia mantenere da te, col tuo lavoro di dirigente di una multinazionale. Ma ti sembra normale che io sia costretto a dichiarare sul mio onore che non chiederò mai la cittadinanza francese, quando non l’ho mai voluta e non me ne è mai importato niente?».

A questo punto il tono non era più scherzoso. Feci in modo di cambiare argomento e parlai a lungo di lui e del suo lavoro, con l’entusiasmo di sempre.

Quando tornai a Parigi spedii anche l’ultimo documento. Tirai un sospiro di sollievo: erano trascorsi quasi venti mesi da quando avevo cominciato a radunare le carte. Quell’odissea, in fin dei conti inutile, mi aveva stremata. Ora potevo considerarla conclusa.

Tre mesi dopo, mentre varcavo la soglia dell’ufficio postale di rue Vaugirard per ritirare la raccomandata della Questura, mi sorpresi a pensare se non era il caso di organizzare una festicciola. Avrei invitato tutti gli amici che erano al corrente della cosa; potevo indossare il tricolore. Pantaloni blu, camicia bianca e cintura rossa, perché no? Una mia conoscente, una ragazza slanciata, molto elegante e famosa per il suo french touch, aveva fatto lo stesso quando le avevano conferito la Legione d’onore; e tutti avevano trovato l’idea divertente.

 

Esistono diversi stili burocratici. Quello più contorto utilizza frasi negative del tipo «pur non sottovalutando...», «non v’è alcun dubbio...», accompagnate spesso da perifrasi ipotetiche come «nel caso in cui...», «non è escluso che...», «fatta salva la circostanza...». La lettera della Questura che avevo appena aperto, invece, era scritta in uno stile napoleonico. Diretto, deciso, stringato. «Si stabilisce» diceva nella prima riga. «Dopo attento esame. In ottemperanza all’articolo tal dei tali». Inutile tirarla per le lunghe. La mia domanda era stata respinta.

Nella sua grande magnanimità il rappresentante del questore mi diceva che, se lo desideravo, potevo presentare una nuova domanda di lì a due anni. Non dimenticava inoltre di restituirmi ciò che mi apparteneva. «In allegato, l’originale e la traduzione dei documenti attestanti il suo stato civile, la sua fedina penale all’estero e la prova di lingua da lei sostenuta».

 

Non so descrivere le sensazioni che mi travolsero quando lessi quella lettera. Sorpresa, sbalordimento, rabbia, delusione, tristezza, angoscia, sconforto, stanchezza non sono le parole giuste. E sono comunque eccessive, dal momento che quella non fu che una piccola disavventura in una vita ormai lunga. Se oggi, a tanti anni di distanza, dovessi definire con precisione il mio stato d’animo di quel giorno, direi che il sentimento dominante era la vergogna: una vergogna ingiustificata, infantile. Il nastro si riavvolgeva a tutta velocità, e mi ritrovavo d’un tratto sul ponte dell’Esperia. Senza però il conforto di mio padre e di Lawrence d’Arabia.

 

Giacomo non poté esimersi dal farmi notare che mi aveva avvertita.

«E non te l’ho detto solo io: com’è che si chiama quel tuo amico scrittore, quello che sostiene che “è meglio non fidarsi mai troppo dei francesi”? E quell’altro che ti aveva detto che, se volevi a tutti i costi un altro passaporto, ti conveniva chiedere quello kazako... sarebbe stato più divertente».

Ben presto però decise di lasciar perdere, di cambiare discorso e di portarmi nel suo studio.

 

 

 

«Mi chiamo Corto Maltese. Sono un marinaio». Quante volte avevo letto quelle due frasi nelle avventure disegnate da Hugo Pratt. Punteggiavano le storie sfrenate e piene di colpi di scena che Oreste del Buono mi aveva fatto scoprire su «Linus», il giornale che dirigeva a Milano, e che mi piacevano tanto. Era l’unico fumetto che leggessi dagli anni Settanta. Il protagonista di quelle storie andava in fretta, troppo in fretta, sfrecciava tra guerre e leggende, attraversava l’Atlantico in tutte le direzioni; di tanto in tanto, fra un’avventura strampalata e l’altra, faceva scalo a Venezia. Nato a Gibilterra, figlio illegittimo di un’ebrea di Siviglia e di un ufficiale di Sua Maestà britannica, era un bastardo romantico, e un bugiardo di prima categoria. E non era affatto uno stinco di santo: se le circostanze lo richiedevano uccideva senza rimorsi. Pratt gli metteva in bocca di continuo frasi a effetto, da maschio sentimentale; citavo spesso una delle mie preferite: «Le donne sarebbero meravigliose se potessimo cadere tra le loro braccia senza cadere nelle loro mani».

Mi ero comprata un berretto come il suo, che indossavo al mare. E appeso alle pareti del mio ufficio di Parigi c’era un grande poster che si faceva notare in quell’ambiente così formale. Corto si tirava su il collo del maglione nero, nascondendosi il mento e la bocca, e guardava dritto davanti a sé, tranquillo e sfrontato.

Ebbene, stavolta avrei deciso io per lui: mi avrebbe seguito senza fare tante storie. Avrei portato via da lì il mio marinaio formato poster; insieme a un tappeto a righe arancioni e rosa trovato in un bazar tunisino. Era ormai ora di smetterla con tutta quella frenesia, di allontanarsi. Bisognava saper uscire di scena al momento giusto.

 

Da un pezzo non programmavo nulla. Ma, nell’arco di pochi mesi, molte cose erano giunte a una svolta: la partenza obbligata da rue Monsieur-le-Prince, il ritorno di Giacomo in Italia, il mio calo di interesse per il lavoro, il rigetto della mia domanda di cittadinanza che suonava come una campana a morto. In quella successione di eventi scorgevo un segno del destino.

Pensavo a tutto questo una domenica mattina, mentre percorrevo da sola uno degli itinerari che conoscevo a menadito da Montmartre alla Senna. Guardavo i palazzi con affetto. Ci sono giardinetti che non dimenticherò mai, caffè in cui avevamo fatto colazione, un minuscolo negozietto in cui avevo scelto un cappello color fragola, dei ristoranti indiani dove ordinavo sempre il piatto più piccante, una piazza un po’ in discesa dove un vecchio clarinettista mi aveva spezzato il cuore suonando un brano di Sidney Bechet. Era bello, ma non era più come una volta.

Inutile ingegnarsi per cercare di descrivere o spiegare in che modo il tempo e i sentimenti influiscano sulla percezione dei luoghi. Nessuno lo dirà mai meglio di Proust nell’ultima pagina di Dalla parte di Swann:

«I luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio dove per semplicità li collochiamo. Essi non erano che una parte esigua del complesso di sensazioni confinanti che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto di un certo istante; e le case, le strade, i viali sono, ahimè, fugaci come gli anni».