«Dimmi un animale, il primo che ti viene in mente».

«Un delfino».

«Dimmene un altro, subito, senza pensarci».

«Una tigre del Bengala».

«Dai, un ultimo sforzo, dimmene ancora uno, quello che vuoi».

«Un riccio di mare».

Risate.

 

Ripensavo a quell’episodio osservando una colonia di grossi ricci sotto il molo di Atrani. Definirlo molo è eccessivo, si tratta in realtà di cinque o sei metri di cemento a cui in estate viene fissato un pontile mobile. A tutte le ore del giorno c’è un continuo viavai di barche, cariche di famiglie al gran completo. Giovani o vecchi, gli uomini in genere stanno al timone. Sdraiata al sole, con gli occhi socchiusi, sento sempre le stesse cose:

«Le scarpe! Togliti le scarpe!».

«Ti avevo chiesto di portarmi giù la borsa! Ti dimentichi sempre tutto!».

«Dagli la mano! Se no cade!».

«Devo pensare a tutto io! Queste non sono vacanze!».

 

Vivo qui più di sei mesi all’anno; quando comincia a piovere sul serio e le giornate si accorciano, raggiungo Giacomo a Milano. In autunno andiamo un paio di settimane a Parigi: passeggiate, sopralluoghi, a volte anche qualche bella sorpresa. Se non ti lasci sopraffare dai rimpianti, l’agiatezza permette di trascorrere gli ultimi anni di vita in modo piacevole.

Ad Atrani non ci si sente mai soli. La gente si parla da un terrazzo all’altro e la sera vanno tutti a sedersi ai tavolini della piazzetta. In estate il baccano delle conversazioni, delle grida, della musica sale, anche a tarda notte, fino alle mie finestre.

 

Le ore passano senza che me ne accorga, mentre guardo le barche e i gommoni sfilare nella luce che cambia. Ogni mattina, quando apro la finestra e vedo i riflessi del sole che scintillano sull’acqua, penso al «mare dai mille sorrisi» degli antichi greci. I pensieri e i ricordi seguono l’andirivieni delle onde.

Come quella storia degli animali: era un test «psicologico» che mi aveva fatto un’amica. Mi aveva assicurato che, per quanto semplice, funzionava sempre. Era così elementare che lo usavano per indurre i bambini difficili ad aprirsi. Lei si occupava di disagio infantile, o meglio, quello sarebbe diventato presto il suo mestiere. Avevamo quasi venticinque anni; cominciavamo appena a lavorare.

 

 

 

«Allora, il primo animale sei tu. Quello che sei veramente, per natura. Un bel delfino, che guizza curioso fra le onde e cerca di farsi tanti amici. Non sei paurosa. Segui tutte le barche che incroci.

«Il secondo rappresenta quello che vorresti diventare, una tigre pericolosa e imperiale. La foresta del Bengala... L’avventura e tutto il resto. Ma non lo sarai mai, è impossibile, è un sogno. Resterai un delfino.

«Il terzo rappresenta quello che diventerai. Alla fine dei tuoi giorni. Ed è buffo. Non ho mai sentito nessuno rispondere “un riccio di mare”. Ci sono animali ben più affascinanti a cui assomigliare dopo aver vissuto una vita intera».

 

Stesa sul molo di cemento infuocato, sorrido. Ma certo, quel test per bambini diceva la verità. A più di settantasei anni (fra tre anni ne compirò ottanta: me lo ripeto nella speranza di riuscire prima o poi a convincermene) ne sono la prova vivente. Sono aggrappata a un pontile, l’agitazione intorno a me non mi turba, anzi, muovo i miei aculei con estrema lentezza, mi sposto appena, l’acqua di mare è il mio elemento.

 

La giovane moglie del noleggiatore di barche arriva con un bicchierino di caffè, appena uscito dalla moka e così concentrato che basterebbe un ditale a contenerlo tutto. È già zuccherato. Suo figlio è cresciuto molto quest’anno. Dieci, undici anni, l’epoca dei primi amori travolgenti. Soprattutto per i ragazzi. A quell’età le ragazze se ne vanno a passeggio in gruppo e ridono dandosi di gomito. Lui invece aspetta, con la testa girata verso la spiaggia e lo sguardo fisso da almeno un’ora: oggi la sua amichetta non è venuta.

La passione amorosa mi ha sempre fatto paura. Non ho mai saputo come comportarmi quando mi veniva offerta. Non ho mai dimenticato Pierre, allo Sporting Club di Alessandria; lui aveva undici anni, io, credo, nove o dieci: mi diceva in continuazione che mi amava e che da grande mi avrebbe sposata. Io gli rispondevo che, da grande, sarei partita per le isole Gilbert o per le Marchesi e che non mi sarei sposata perché, con tutte le avventure che mi aspettavano, non potevo. Ma che adesso, se voleva, potevamo giocare a badminton.

«E che cosa faresti, per amor mio?».

«Qualunque cosa».

«Mangeresti anche un verme?».

Il verme, tutto rosa, si stava avvicinando alla paletta di legno. Lo guardò disgustato.

«Sì».

«Sì?».

Glielo porsi sulla paletta con un po’ di terra. Pierre aveva la tempra dell’eroe: inghiottì il verme e anche un po’ di terra. Ero orripilata, avevo provocato qualcosa di spaventoso. Ero un mostro. Mi torcevo le mani, con gli occhi gonfi di lacrime: era troppo. L’amore era una catastrofe. L’amore spingeva a fare cose atroci. Non avrei mai voluto saperne niente.

«Che schifo!».

Povero Pierre, non soltanto non mi aveva sedotta con quella suprema prova d’amore, ma da allora in poi non volli mai più parlare con lui.

 

È un handicap: non ho mai saputo che cosa significhi essere preda della passione, «innamorata persa», come si dice in genere in un sussurro. Naturalmente ho avuto delle amiche che, a detta di chi le conosceva bene, rientravano in questa categoria; ma mi è difficile immaginare, dal di dentro, che cosa comporti. Donne intense, ipersensibili, alla ricerca dell’amore assoluto. Se fossi un uomo e avessi più di trent’anni, cambierei immediatamente marciapiede, salterei sul primo taxi e fuggirei via. A me la libertà! Se invece fossi una donna... ecco, ci risiamo, parlo sempre delle donne come se la cosa non mi riguardasse. Non riesco proprio a fare altrimenti. D’accordo, sono una donna, dovrei ammetterlo una volta per tutte. Quando qualcuno cerca di ricordarmi l’evidenza, istintivamente mi inalbero, ma è un errore, una debolezza, lo so, mi dichiaro colpevole. Alla base di tutto credo ci sia il mio scarso interesse per le altalene emotive su cui troppo spesso si costruiscono le storie d’amore. Passione, ardore, tedio, lacerazioni, lacrime.

Non mi piace né piangere né far piangere. Tutta la mitologia delle innamorate che se ne stanno accanto al telefono in trepidante attesa mi è sempre parsa piuttosto fastidiosa. Anzi, addirittura irritante. È inspiegabile il pregiudizio positivo che circonda queste figure femminili. Non sopporto né i rimproveri né i ricatti fatti in nome dell’amore; non capisco come si possa soffrire per il gusto di soffrire.

Ho un’idea primitiva dell’amore: possibile o impossibile, felice o tragico. Gli stadi intermedi mi paiono superflui.

In verità dovrei parlare al passato: «Ho conosciuto l’amore... ma ho avuto un handicap...».

 

Sul muro di fianco allo scoglio da cui tutti si buttano in acqua è affisso un cartello solennemente firmato dalla Capitaneria del Porto di Salerno, che notifica il divieto assoluto di tuffarsi, pena sanzioni di ogni genere. Viene da chiedersi perché: saranno secoli che bambini e ragazzi si tuffano da quello scoglio. Tutti vedono il cartello, qualcuno lo legge e nessuno ha mai pensato di staccarlo. La moglie del noleggiatore di barche ci scherza su: «Non lo faccia, mi raccomando, il vigile capirebbe subito che è stata lei...». Poi, guardando la figlia che si tuffa con i lunghi capelli lisci schiariti dal sole, aggiunge: «Per noi non è così importante: facciamo come se non ci fosse, tanto ci pensa la pioggia, in autunno, a farlo sparire».

 

Mi piace molto questo paesino. Mi piace la casa aggrappata al roccione che lo sovrasta. Risale al Duecento: un ampio stanzone a volta, lungo e alto. Sotto la volta, in rilievo, due croci dei templari. Ho fatto qualche ricerca: all’epoca delle crociate i templari avevano delle basi sulla costa. Sostavano qui giusto il tempo di recuperare le forze, prima del grande viaggio verso Gerusalemme, e di rifornire le navi di acqua, capre, pollame, frutta. Accanto all’ampia sala, sontuosa e spoglia, due piccole celle monacali; sul davanti, due terrazzi. L’insieme non ha niente di lussuoso, ma i muri, non cementati, sono spessi quasi un metro, e dentro casa è sempre fresco. All’alba il vento spira dalla valle, portando con sé un profumo di limone e rosmarino; a partire dalle due del pomeriggio, se è bel tempo, soffia invece dal mare. Le abitudini del vento sono molto regolari: quando cambiano, significa che il tempo si sta guastando o che la lunga estate è finita.

 

Qui non c’è assolutamente nulla da fare. A parte decidere ogni mattina che cosa mangiare a pranzo e a cena. Nulla di nulla. Io stessa mi sono stupita della facilità con cui sono passata dall’iperattività all’ozio più totale per un lungo periodo dell’anno. Come era scritto, sono diventata un riccio di mare. La cosa non ha influito in maniera particolarmente negativa sul mio equilibrio e sul mio umore; ho sempre saputo che niente di ciò che facevo era destinato a «restare». A dimostrazione della superiorità dei pittori, Giacomo non si è mai interrogato né sulla sua età né sul suo lavoro; non ha mai cambiato ritmo, e continuerà a disegnare e a dipingere fino alla fine dei suoi giorni.

Di me e del mio lavoro, invece, già sei mesi dopo la partenza non era rimasto nemmeno un granello di polvere. Qualcuno ha rifatto il piano triennale. Ecco tutto.

 

Ho comprato delle pinne. Di quelle moderne che vendono adesso: piuttosto corte, a pianta larga, facilmente regolabili mediante una cinghia. Niente a che vedere con quelle di una volta, che riuscivi a infilarti solo a costo di mille sforzi e contorsioni. In questo modo posso nuotare a lungo senza stancarmi e senza correre il rischio di ritrovarmi con il fiato corto sulla via del ritorno. Per quanto riguarda il resto, intendo dire il mio aspetto, non mi lamento. D’estate un paio di occhiali da sole, un cappello di paglia a tesa larga e un pareo bastano a ingannare le apparenze.

Quando mi tuffo per nuotare, la moglie del noleggiatore di barche controlla che vada tutto bene: un’occhiata alla figlia, una al figlio, una a me. Senza darlo a vedere. Ne sono commossa. Mi rendo conto che anche altri in paese calcolano le mie forze: le mattine in cui sono troppo carica, c’è sempre qualcuno che mi dice di lasciare lì i sacchetti della spesa; più tardi un ragazzo porterà su il sacco di patate, l’olio, le scatolette, i detersivi.

 

Per alcune settimane, quando sono arrivata qui, ho avuto la pretesa di «rendermi utile»; ho cercato di promuovere attività per adulti e per ragazzi, di organizzare eventi culturali, rappresentazioni teatrali o cose simili. Seduta ai tavolini all’aperto dei due bar del paese la gente mi stava a sentire e diceva: «Magnifico! Ottima idea!». Avevo in mente una serata Otello per la vigilia della festa del paese. Ma quasi tutto è andato storto: cinque volontari si accapigliavano per aggiudicarsi il ruolo principale, nessuno voleva interpretare Iago, una Desdemona carina si è presto scoraggiata e ha disertato le prove. Io stessa, a posteriori, ho pensato che era proprio una strana idea quella di rappresentare Shakespeare in una piazzetta fatta per le chiacchiere, le grida, i gelati al limone. Mi sono adattata, ho preso il ritmo giusto: qui tutto si fa e tutto si disfa senza coinvolgere la volontà di nessuno.

 

 

 

Verso le quattro del pomeriggio comincio a stufarmi del molo di cemento e del viavai dei gommoni, raduno le mie cose (le pinne, due parei e poco altro) e vado a sedermi all’ombra, al bar della piazza. È diventato un rito: ordino una Coca-Cola grande, ghiacciata. È una droga blanda, uno stimolante di cui non riesco più a fare a meno. In certi tavoli, compresi in un’area triangolare sulla sinistra, la connessione Internet funziona decentemente; è l’angolo intellettuale del paese. Occupato da clienti soli e concentrati, spesso studenti alle prese con gli esami di riparazione oppure stranieri che controllano la posta. Intorno è tutto un gocciolare di gelati.

Per prima cosa leggo i giornali, in tre lingue diverse. Metto da parte gli articoli e gli editoriali di politica che rileggerò di sera. L’interesse per la politica, che si era sopito quando ero diventata amministratore delegato e mi ero lasciata convincere che le cose importanti succedevano nel cosiddetto mondo del lavoro, si è risvegliato tardi. Ho votato una sola volta, subito dopo essere diventata maggiorenne, in Italia. Poi, dal Sessantotto, ho lasciato perdere. Riconosco che, per un’appassionata di politica, è piuttosto strano.

 

Avrei votato in Francia. Se fossi stata francese. Ma non è successo. La mia richiesta di cittadinanza è stata respinta per questioni burocratiche che avrei potuto sbrogliare telefonando a destra e a manca, facendo ricorso come mi avevano consigliato. Non era ragionevole il desiderio cocciuto di ottenere un passaporto di cui non avevo nessun bisogno, e non è stata equilibrata la reazione di profondo sconforto quando ho aperto la lettera di rifiuto della Questura. Quel desiderio mi aveva plasmata, o meglio, avevo plasmato me stessa intorno a quel desiderio e intorno alla lingua che amavo più di ogni altra al mondo. La mia vita, e prima ancora quella dei miei genitori, era stata governata da scelte ben precise, proprio perché sognavamo in francese. Con tutte le mie arie disinvolte di cittadina europea socialmente affermata, non avevo fatto altro che correre dietro a un simbolo familiare. Correvo come una forsennata perché la nostra storia, così incerta e traballante, trovasse finalmente un attracco. Perché i percorsi a zigzag delle generazioni che mi avevano preceduto avessero finalmente un senso, giungessero a una meta. Per rientrare in porto.

Era puerile, ingenuo, inutile. Nessuna certificazione di appartenenza attestata da un libretto di carta può risolvere quel genere di problemi. Che cos’era quella smania? Da dove veniva quella vergogna che mi era salita alle labbra? Come se nessuno volesse saperne di me, quasi fossi indegna di quella grande nazione, congedata per lettera, rimessa al mio posto.

Una decisione burocratica non è nulla, è una disavventura meno grave di tante altre, eppure le avevo attribuito un potere supremo. Aveva risvegliato in me sentimenti cupi e ricordi strazianti; mi ero perfino sorpresa a rallegrarmi del fatto che non ci fosse un aldilà e che i miei genitori non avrebbero mai saputo che la porta era rimasta chiusa; proprio loro che quando d’estate partivamo per le vacanze annunciavano a tutti: «Torniamo in Francia».

 

Ho passato la vita a schivare la Burocrazia o a cercare di mentirle. La Burocrazia: un orrendo moscone intento a sfregarsi le zampe, mentre mi fissa con i suoi grandi occhi sporgenti. Ogni mia pecca viene radiografata dalle miriadi di faccette da cui sono composti. Impossibile sfuggire a quei venticinquemila recettori:

«Ah, ah... lei non sa dov’è sepolta sua nonna?».

«Ah, ah... lei non ha un atto di nascita?».

«Ah, ah... lei non conosce la data di matrimonio dei suoi genitori?».

Non c’è da stupirsi se non ho seguito la tendenza generale che vorrebbe che tutti, con l’andare del tempo, si allineassero al modello Law and Order. Non fa per me: ho istinti sempre più libertari; pulsioni sempre più romantiche; anche se sono vecchia, la Legge e l’Ordine mi danno sui nervi. Sto constatando che uno dei problemi della vecchiaia, se si eccettuano la malattia o il rammollimento cerebrale, è che si invecchia restando giovani, e a volte addirittura si muore giovani. La giovinezza torna come un vento caldo perché le costrizioni sociali si sono volatilizzate. L’aspirazione alla libertà trova spazi aperti. A tarda ora rende legittime idee, speranze di cui nessuno sa più che farsi. Ed è triste almeno quanto morire rimbecilliti.

 

Mentre sorseggio la mia Coca - Cola seduta a uno dei tavoli dell’unico angolo della piazza in cui è possibile connettersi, mi dedico, ogni pomeriggio, al mio svago del momento: le ricerche su Internet. In questo periodo ci sono poche cose che trovo altrettanto piacevoli. (Sono costretta a lavorare al bar, su in casa manca la copertura di rete). I motori di ricerca funzionano un po’ come la nostra memoria. Sono una sorta di colossale gomitolo. Bisogna saper individuare e tirare i fili giusti, immettere combinazioni di parole, invertirle, spostarle, aggiungere nuovi termini; e poi annodare e intrecciare. Imparare a sorvolare le occorrenze omologhe e a rilanciare la ricerca quando si ha per le mani qualcosa di interessante o di veramente nuovo. Più si cerca e più la cosa si fa avventurosa. Si procede come in un fitto bosco, per cui è meglio annotare sempre su un taccuino i percorsi seguiti così da non rischiare di perdersi, di ripercorrere le stesse strade o di ritrovarsi in un vicolo cieco. Le mie ricerche altro non sono che il prolungamento delle mie antiche passioni, che si sono manifestate presto e si sono poi sviluppate per anni, a volte in modo sotterraneo, altre volte invece alla luce del giorno.

 

Ho dunque potuto dare un nuovo impulso ai miei entusiasmi infantili. Fra l’altro, ho ampliato le mie conoscenze sulle grandi battaglie navali e sulla loro presenza nella pittura europea. Senza queste ricerche, che hanno la pigra indolenza dei sogni a occhi aperti, non avrei mai potuto scoprire un quadro straordinario del Rijksmuseum di Amsterdam; il pittore olandese Cornelis Claesz. van Wieringen vi rappresenta l’esplosione della nave ammiraglia spagnola nella battaglia di Gibilterra, combattuta il 25 aprile 1607 contro i danesi. La confusione, le fiamme, il fumo invadono la tela; il pittore non esita a mostrare i membri dell’equipaggio proiettati fuori dalla nave. E non sono solo le persone a saltare in aria: per effetto dell’esplosione, ai corpi, ritratti nelle pose più innaturali, si mescolano scope, botti di vino, cappelli, ceste di pane e una commovente scaletta. Il cielo è azzurro, impassibile, striato da pallide colonne di fumo. L’effetto è eccentrico e, nonostante tutto, molto buffo.

 

Da circa un mese, a tenermi occupata per due ore al giorno è una corvetta dell’Ottocento, La Triomphante. A Parigi ho trovato e comprato da un piccolo antiquario una serie di disegni a matita firmati Ed. Jouneau. Vi sono raffigurate le navi a bordo delle quali quel marinaio francese è stato imbarcato, a partire dalla metà del secolo. È un abile artista. Ha un’ottima mano. Nel corso degli anni, immagino quasi inconsapevolmente, Jouneau ha tenuto una sorta di diario per immagini, annotando accuratamente le date, le condizioni del mare, i nomi delle altre imbarcazioni ormeggiate; in certi casi ha rilevato i fondali, illustrando le variazioni di profondità con aloni concentrici circondati da nuvolette di cifre. Vuole conservare memoria dei suoi viaggi e così, in calce agli schizzi a matita, scrive: «sabbia nera», «canale pericoloso», «scogli bianchi», «vulcano spento», «laghetto costiero». A volte la firma è tracciata con inchiostro rosso e abbellita da un’ancoretta sormontata a sua volta da una corona reale. Nei suoi lavori a grafite tutto è grigio tranne la firma e le bandiere, che spiccano chiassose con il loro blu, bianco e rosso.

È chiaro che La Triomphante è la sua nave preferita. Ne è innamorato, deve aver pensato a lei ogni giorno per anni, anche in punto di morte. È la nave della sua giovinezza. La ritrae piegata da venti tempestosi o con le vele flosce a causa della bonaccia, davanti al profilo di una costa o in mare aperto, a volte da sola, a volte alla testa di una flottiglia. I suoi cannoni, dodici per lato, sono sempre ben visibili. Mi sforzo di immaginare; cerco di udire gli ordini, di vedere il mio marinaio al posto di manovra, oppure a riposo, con la matita in mano, sdraiato sull’amaca, assorto nei suoi pensieri.

 

Mi sembra di cominciare a conoscerlo bene, il caro Ed. Jouneau. Si chiama François de Sales, Guillaume, Édouard; nel settembre del 1836 si piazza sedicesimo su trentacinque, esattamente nella media, all’esame finale dell’École royale de marine e diventa allievo di seconda classe. È certamente lì che impara a disegnare. Il 1° gennaio 1841 si imbarca a bordo della Triomphante che fa rotta per l’Oceania al comando di Marie-François Sochet. Nell’aprile del 1842, ne sono praticamente certa, partecipa alla conquista delle isole Marchesi. Disegna, disegna ovunque si trovi e ogni volta che ne ha la possibilità. Alacre e talentuoso.

Quanto a me, grazie a questo marinaio incontrato per caso da un antiquario di rue de Seine (chissà quale dei suoi discendenti ha deciso di vendere questo pacchetto di ricordi, opera di una vita intera, magari senza neppure dargli un’occhiata), navigo ormai da settimane sugli oceani, esattamente come sognavo di fare da piccola. Ho scaricato su una chiavetta USB estratti di annali marittimi o coloniali, lettere di comandanti e ufficiali, memorie, articoli del «Journal officiel», e sono andata a stampare il tutto in un bartabacchi di Amalfi. Una impressionante quantità di documenti su quegli anni. Li organizzo in fascicoli. Confronto le informazioni. Cerco di mettere ordine nel mio ricco bottino.

 

Com’è lontana l’epoca in cui una nazione inviava una squadra navale in un remoto arcipelago per annunciare a un re, e ai suoi seicento sudditi, che la Francia gli faceva l’onore di concedergli la sua protezione. Qualche tafferuglio e qualche sparo accompagnavano lo sbarco; poi arrivava il gran giorno, ed era un susseguirsi di marce militari, messe e canti religiosi, sfilate di marinai in alta uniforme, salve di cannone. Le firme dell’ammiraglio e del re delle isole venivano apposte l’una accanto all’altra in calce ai documenti solennemente redatti; era necessario che qualcuno firmasse per il re (nel 1842 il monarca delle isole Marchesi era un certo Iotete, obeso, coperto di tatuaggi, bonario e ostinatamente refrattario a qualunque nuova divinità potesse mettere in ombra le sue). Chi gli aveva spiegato in che cosa sarebbe consistita la famosa protezione che gli veniva offerta? Di sicuro non i missionari, scandalizzati dal suo abbigliamento e dalla giuliva schiera di spose di cui andava fiero.

Come sembra lontana l’epoca in cui si poteva battezzare a cuor leggero una nave con un nome così eroico, squillante, carico di certezze. La Francia era forte, espansionista e sicura della propria superiorità.

In fin dei conti è stato quel nome a sedurmi; evidentemente sono come Jouneau: anch’io come lui avrei desiderato più di tutto imbarcarmi su una nave francese che mi garantisse futuri trionfi. Per quanto potesse essere furibondo il mare, angosciosa la solitudine, irti di pericoli i porti, deludenti i ritorni a Cherbourg, nulla di tutto questo avrebbe avuto importanza, dal momento che il trionfo era scritto.

Ho vissuto come meglio ho potuto; non mi sono limitata a sopravvivere: ho avuto fortuna.

Ma per me non c’è stata nessuna Triomphante.

 

 

 

Alle sei e mezza del pomeriggio le campane di Santa Maria Maddalena suonano con foga. È l’ora del vespro. Ed è anche l’ora di portare giù la spazzatura. Dalle diciotto e trenta alle venti, né prima né dopo. L’intero paese si dedica alla raccolta differenziata dei rifiuti con un entusiasmo e un impegno davvero inspiegabili. Solo fino a pochi anni fa le stradine che risalgono i fianchi della minuscola valle (una sorta di imbuto) erano piene di sacchetti di plastica sventrati dai gatti, in attesa che qualcuno venisse distrattamente a raccoglierli. Oggi invece regna l’ordine: tutti scendono alla stessa ora con vari sacchetti di diversi colori. La cernita è minuziosa; le grandi capitali che si limitano a separare il vetro dalla carta e dalla plastica dovrebbero ammirarci e prendere esempio da noi. Qui ricicliamo separatamente i barattoli di conserva dopo averli sciacquati e facciamo lo stesso con i vasetti di yogurt; l’olio usato per friggere e quello dei motori vengono raccolti in contenitori distinti; una sorte specifica avranno i pannolini, le lampadine elettriche... Tutti si attengono a queste regole ferree. Non so quanto durerà, ma per ora il paese sembra andarne fiero; è il primo della classe a livello regionale e lo proclama nei manifesti che esortano la cittadinanza a non abbassare la guardia e a continuare la crociata per la quale si è mobilitato addirittura un manipolo di «guardie ecologiche». La raccolta differenziata è diventata il progetto principale del paese, oltre a essere uno degli argomenti di discussione più frequenti. Solo pochissimi recalcitrano, quelli che un tempo sarebbero stati libertari di estrema sinistra. E, in certi giorni, anch’io. La settimana scorsa, per un attimo, in piazza si è accesa una discussione: si trattava di stabilire se l’ecologia fosse da considerarsi di destra o di sinistra.

Non siamo più ai tempi dei templari e dei saraceni.

 

L’orario della raccolta dell’immondizia crea qualche problema a chi vuole prendere parte alla preghiera serale, in quanto dovrebbe prima scendere a buttare i sacchi e poi tornare su per andare in chiesa. Ogni tanto lo faccio, prendendo posto in un banco al centro della navata; il sole infuoca le vetrate e io ascolto il prete farfugliare fiaccamente le preghiere.

Il mio livello di spiritualità è pressappoco equivalente a quello di una limanda. Capisco la religiosità negli altri; avendo letto parecchio sull’argomento, sono perfettamente in grado di descrivere i loro fervori. In breve, so molto, ma non sento niente.

Avevo quasi dimenticato di essere stata io a decidere di diventare cattolica, molto tempo fa. Un giorno, al ritorno da scuola, nella grande sala che si affacciava sullo Sporting Club annunciai ai miei genitori che volevo essere battezzata. Non sono più tanto piccola quel pomeriggio, ho otto o nove anni. Ho i capelli corti, indosso l’uniforme. Mia madre, tutta abbronzata, porta un foulard color melanzana legato a mo’ di cintura sul vestito bianco.

«Battezzata? Cattolica?».

Certo, cos’altro? D’accordo, lei non ha nulla in contrario. Da parte di mio padre nessuna reazione. Si sente solo il rumore del ventilatore. Flap flap flap. Lui è immerso nella lettura del giornale, non riesco a vederlo bene in faccia, è nascosto dietro «Le Progrès Égyptien». Mia madre ripete:

«La piccola dice che vorrebbe essere battezzata...».

Dopo un silenzio che mi sembra eterno, la sua voce affettuosa, calma e come sempre un po’ distaccata:

«Mi pare una buona idea».

 

La sera, dopo cena, lavo e stendo il costume e i parei. Uso un detersivo al gelsomino. L’indomani saranno asciutti, morbidi e profumati. Dopo le telefonate mi aspetta una sedia a sdraio sistemata su uno dei due terrazzi. Giacomo chiama regolarmente; senza di me non si annoia, ma intuisco che è un po’ preoccupato. Non per la mia salute: mi dice di continuo che ho una bella voce, il che lo tranquillizza e lo fa sentire sollevato. No, sono le mie passioni, le mie «fissazioni marittime», che gli sembrano un po’ esagerate. Chissà, forse teme che tutte queste storie di battaglie navali ed esplorazioni siano i primi sintomi di una qualche forma di stanchezza mentale. Credo non gli piacerebbe se mi trasformassi in un’anziana signora svampita. Devo dire che, spinta dalla fiducia e dall’amore che provo per lui, gli ho raccontato, infervorandomi, tutte le mie recenti scoperte sulla colonizzazione dell’Oceania e dell’Africa occidentale, nonché sulla vita a bordo in quei tempi che sembrano ormai così lontani. L’ultima volta che è venuto a stare qui per una settimana non ha certo rischiato di annoiarsi: le avventure dei missionari alle prese con i «selvaggi» degli arcipelaghi e con Iotete che difende la sua seminudità e la sua poligamia lo hanno molto divertito. Le lettere ampollose degli ammiragli che, per il bene della Francia, propongono al loro ministro di trasformare quelle isole paradisiache in luoghi di deportazione per criminali o per nemici dello Stato lo hanno fatto ridere fino alle lacrime.

Siamo felici e ciarlieri quando siamo insieme, Giacomo e io, eppure non siamo affatto tristi quando siamo separati. Abbiamo scelto quello che la moglie del mio dentista, con una punta di invidia, definisce un tipo di vita «moderno»; c’è da dire che suo marito, taciturno come una tartaruga, non è il colmo dello spasso.

 

In primavera e in estate le serate sul terrazzo sono deliziose. Non leggo, ascolto i rumori che arrivano dalla piazza, il vento si infila tra le case, il mare riflette qualche luce tremula. I pipistrelli (che qui sono piccolissimi e inoffensivi) cominciano i loro strani caroselli: svolazzano volteggiando senza meta, poi sbattono all’improvviso contro muri invisibili, come se urtassero una parete di vetro. Frastornati, si fermano un istante prima di riprendere la loro febbrile attività.

È curioso pensare a tutti coloro che lasciano passare gli anni senza fare commenti, senza levare proteste, senza esprimere pareri; senza aver voglia di scrivere la benché minima nota in calce per attenuare la laconica rigidità degli attestati burocratici che li riguardano. Arrivano al crepuscolo della vita e continuano imperterriti a mantenere un umile silenzio. Per non parlare di coloro che, come mia madre, ricercano ogni traccia del passato per poi calpestarla e distruggerla. Affinché, dopo l’ultimo distacco, anche gli oggetti tacciano in eterno.

Sono quasi certa che sia meglio lasciare dietro di sé qualche riflessione, qualche commento. Annotarli, se possibile. E non distruggere niente. Non ho avuto figli o nipoti che si sarebbero potuti divertire rovistando nel guazzabuglio dei ricordi stipati dentro le scatole. I miei tesori verranno ridistribuiti senza passaggio generazionale; finiranno sui banchi dei mercatini o nelle vetrine degli antiquari. Un giorno forse qualcuno ricomincerà a sognare trovando per caso le mie cartoline del Canale o di Aden, i disegni dei viaggiatori, le foto antiche che ho posseduto o quelle che ho scattato. Palmira, Abukir o el-Fayyum faranno parte di un mondo scomparso per sempre: luoghi devastati, violati o troppo pericolosi.

 

Via via che la notte diventa più scura, la strana sagoma che appare sullo spuntone di roccia di fronte al terrazzo si fa più nitida. Il riflettore posizionato dietro la chiesa di Santa Maria Maddalena mette in risalto le sporgenze e le rientranze della falesia. Un volto umano di tre quarti, sorridente, con un occhio socchiuso, i baffi, un fazzoletto intorno al collo. È stato Giacomo ad accorgersene; spesso vede le cose prima di me. All’inizio aspettavamo che facesse buio con una punta di inquietudine, per paura che lui non rispettasse l’appuntamento. Lo abbiamo battezzato «il pirata». Lo si vede bene solo a partire dalle nove di sera.

È un’apparizione così effimera; basterebbe che un impiegato comunale decidesse di risparmiare e giudicasse quel grande riflettore costoso e inutile; basterebbe che fosse spostato di uno o due metri. Il gioco di luci e ombre cambierebbe; il nostro pirata svanirebbe; su quel roccione prenderebbe forma un’altra sagoma, oppure un insieme illeggibile di macchie nere. O magari niente.

Prima o poi succederà, è inevitabile. Allora ho deciso di fotografarlo con il mio iPhone, all’inizio e alla fine della stagione, perché non se ne vada anche lui senza lasciare tracce e continui a frequentare il più a lungo possibile la parte alta del paese. E anche per non dimenticarlo. A volte mi capita di mostrare a qualcuno la sua foto e chiedo: «Che cosa vedete?». Tutti vedono il volto di un uomo sorridente e beffardo; e aggiungono: un principe, un guerriero, un moschettiere, un pirata...

 

Resto seduta ad aspettare il sonno. Respiro, non leggo, guardo, guardo.

Neppure una virgola della Storia sarà stata scritta da me; la mia vita non avrà cambiato né aggiunto niente al destino del mondo. Le tracce che ho lasciato sono irrisorie. Le «idee inesprimibili e inconsistenti» che hanno attraversato la mia giovinezza non hanno prodotto niente. Tutto sarà presto dimenticato.

Ma questo mondo l’ho guardato molto.