Sono stato un affezionato lettore della poesia di Bandini, dell’ultima soprattutto, da quando, come lui dice, dopo aver molto creduto e tenuto fissi gli occhi al «barbaglio» del futuro, quasi a voler sistemare il mondo, si è calato nel mondo della memoria, assecondando quel suo «bisogno / di parole e di fole» (Meridiano di Greenwich, Frammento di lettera), per parlare «di quanto / ancora ci rimane / della terra, di nevi e primavere / ormai molto lontane», che hanno viste soltanto occhi di antiche infanzie» (Quattordici poesie, Discorso ai bambini della pianura).
Conosco poche raccolte poetiche più salutari di Santi di Dicembre (1994), di Meridiano di Greenwich (1998) o di Dietro i cancelli e altrove (2007), salutari come uno squillo di tenerezza nel frastuono di un presente che sciala le parole: raccolte che senza clamore, mentre intorno venta una «bora / di notizie e di annunci che toglie spazio agli angeli» (Sirventese in forma di bolero sugli angeli superstiti di Aznèvic), anelano a un riparo, a una nicchia di resistenza, anche per la limpidità della lingua, netta «alternativa all’inquinamento di ogni senso prodotto dai messaggi del caos»:1 nicchia dunque, ma in cui si compendia l’universo, riparo anche, ma che si risolve sostanzialmente in intensità di memoria. Memoria che custodisce e rivive un non lontano passato di stagioni, paesaggi, momenti, ora pieni di grazia, ora misteriosi, inquietanti.
Dalle torri di Aznèciv (la sua città dal nome rovesciato) il poeta assiste alla fine di un’età («dalle torri di Aznèciv ho spiato / le burrasche di un’era che oggi muore», Meridiano di Greenwich, Corona per un Capodanno, III), riandando alle beltà di quando «azzurra era l’Italia / e il Veneto una plaga di usignoli romiti», ed egli li contemplava, «ragno che alle stelle / si appende con un filo di vertigine e aspetta / l’alba aggrappato a una celeste tela» (ivi, L’alta cosa). Dalla sua specola, assiste agli «allarmi / del tuono» (Sirventese…), ai rovesci di una storia che sta diventando per lui, forse, definitivamente «aliena».2 Assiste da quel luogo di «appartata / tenerezza» (ibidem), luogo dell’infanzia e della giovinezza, a una vita caoticamente pulsante che ora gli appare come estranea («Io sto ai margini e l’evo non m’inghiotte», Dietro i cancelli e altrove, Ricordando nel nuovo evo la zia Maria Fantato). Se ne sta nel suo «guscio spaurito» (Quattordici poesie, Behemoth), «in fiero disaccordo / col tempo» (ivi, Ballata della metamofosi). Rende testimonianza di stagioni che si chiudono, di un mondo che cambia vorticoso, intreccia i momenti cupi o inerti con i sogni leggeri e la letizia della naturalità e della vitalità, quella che allo stato puro (come nel Leopardi dell’Elogio degli uccelli) gli comunicano soprattutto gli alati, l’«alata confraternita» dei volanti.
La sua poesia è gremita di quotidianità, di quelle presenze familiari e minime alle quali Bandini (come a Saba riusciva di fare) è in grado di conferire una grandiosa estensione, quando i particolari, anche i più domestici, prendono un respiro di naturale-assoluto pari ai grandi eventi, e tutto è ugualmente importante, significativo, un attimo, un atto, un gesto minimo, il volo di un colombo, grandiosamente significativo come il flusso della vita: lo sbocciare di un’ortensia domestica, il fluire di un rivolo dietro casa pari allo scorrere negli abissi lontani di una cometa, quella che in un suo componimento di Santi di Dicembre si chiude come un fiore invernale, «fragile lampo di ghiaccio tritato», «deposito celeste per canuti frammenti» (Santi di Dicembre, Il ritorno della cometa). È poesia che in questi sguardi alle profondità dell’universo si rivela assai vicina, a tratti, non solo al pessimismo leopardiano per il tema della vanità del tempo della vita, ma soprattutto a un poeta a lui caro, il grande Pascoli astrale3 («quest’azzurra pausa in cui siamo bocche / che sorridono e parlano, / così breve che a stento la sfiorano / due furtivi passaggi di cometa», ibidem). Caratteristica dell’opera di Bandini è quella di essere profondamente individuale: ma proprio perché nel profondo radicata nei luoghi, negli spazi minimi di una città, riesce spesso a realizzare più ampiamente un sentimento universale:
Invidio chi possiede grandi patrie
(Chlebnikov e la Moore)
e il verso-deltaplano che si libra
su mille miglia di foresta.
Qui una farragine di tetti ingombra
una storia già nota, non c’è spazio
nell’intrico dei fili per il volo
di un aquilone.
(Santi di Dicembre, Invidio chi possiede grandi patrie)
Bandini ne è consapevole: lo testimonia tra l’altro un passo delle Ragioni della poesia, rivolto a un gruppo di poeti sodali, i quali come lui sanno «che la loro eventuale testimonianza sul tempo doveva nascere da microcosmi sommessi, dagli angoli dell’esistenza nei quali si sprigiona d’improvviso una luce perentoriamente definitoria sull’eone che ci avvolge».4
La gran parte dei componimenti di Bandini si colloca in quella linea di poesia del secondo Novecento che per mio gusto ho spesso privilegiato. Ho conosciuto tardi le sue prime raccolte, quelle di maggiore passione politica, civile, guidate dall’ineluttabile necessità del voler «fare»: le più ideologiche, intendo, dove ribolle il desiderio di oltrepassare la soglia, di uscire fuori di casa, perché «abbiamo molti giorni di ritardo / sulla vita» (In modo lampante, Se un giorno); meglio «rinunciare / alla vaga bianchezza delle pause» (ibidem) e impegnarsi. Non è che nell’ultimo Bandini l’impegno sia assente. Soltanto, non è più espresso direttamente, non è più «fede in astratti / esorbitanti veri» (Santi di Dicembre, Versi scritti durante le feste di Natale del 1989). Appare mediato. Bandini è ora estraneo all’immediatezza socio-politica, sa che la poesia che la esprime direttamente produce eccessive semplificazioni, non raggiunge un autentico spessore poetico. «La poesia è distacco: non una fuga ma la scelta di uno spazio dove ci si colloca per vedere se il proprio “esserci” (dentro quelle cose) ha una qualche parvenza o conforto di trascendente verità.»5 Meglio impegnarsi a scrivere poesie non “totalizzanti”, che rispondano a tutte le domande, e lasciare spazi al non totalmente espresso.
Dicevo che ho conosciuto in ritardo il primo Bandini. In compenso (lo dico a discolpa della trascorsa lacuna) conosco quella sua ardua prova poetica indiretta, che non sempre viene ricordata come conviene dai suoi esegeti: la traduzione di Arnaut Daniel, Sirventese e canzoni, uscita da Einaudi nel 2000, dove due colti e raffinati poeti si incontrano sul piano di un alto virtuosismo formale, per una sorta di sfida metrica. Bandini, al cospetto di un grande artefice (il «miglior fabbro del parlar materno»), si piega attraverso le costrizioni delle parole-rima a chiudere nel modo più persuasivamente mimetico la «clausura della situazione cortese», il circolo del desiderio. La traduzione, che di solito è opera di servizio, in questo caso diventa confronto, sfida. La sensibilità e la perizia metrica, artigianale, stilistica del traduttore affrontano gli aspetti più innovativi della poesia del trovatore, il cui testo Bandini instrada verso una soluzione di sapiente e colta “medietà”, senza farlo montare sui trampoli del prezioso e dell’arcaico.6
Una medietà, per l’appunto, o colloquialità simulata, che è proprio la cifra di Bandini poeta: quel suo ingannevole candore d’istinto, quella facilità internamente percorsa da una tensione ad alta frequenza, dove il sermo humilis non si distanzia tanto dal sublime, né l’arioso dalla esattezza di costruzioni sottili. Il che in Bandini è carattere stilistico di molta tenuta nel tempo, ribadito ancora (o soprattutto) in Meridiano di Greenwich: mi riferisco ad andamenti come «La casa di campagna che sognavi, / con un po’ di giardino per piantarvi / ortensie, i fiori che più ami, forse / belle di notte e rose, / appartiene alle cose / che certo non avremo. Ancora ne parliamo / nei giorni di fervore e in quelli ignavi» (Consolatio ad uxorem 2), dove in contrappunto al livello prosastico dei versi si rilevano illustri ascendenze formali, gli avvii dattilici subito contraddetti da frenate improvvise. L’ingannevole innocenza, lo «stile semplice», narrativo, si sposa col rigorosamente raffinato, il candore con la sottesa, ma inavvertibile, nobilitante complessità metrica. Col passare degli anni la scrittura di Bandini si è fatta sempre più bianca e silenziosa, a partire almeno da Santi di Dicembre, volume tutto raccolto, unitariamente, intorno a luci, sere, devozioni, nevi, l’inverno, sigla metaforica dell’unità del libro: una poesia d’inverno, una scrittura di fine millennio, come se la storia, e la lingua che la racconta, stessero per finire, e allora il poeta tende a un alto grado di irripetibile limpidità.
La preziosa antologia Poeti italiani 1945-1995 curata da Cucchi e Giovanardi7 ha incluso Bandini nella sezione Quattro percorsi appartati, insieme con Lucio Piccolo, Lorenzo Calogero e Michele Ranchetti. Collocazione a mio avviso impropria, a meno che l’«appartato» si riferisca alle vie battute da un poeta che si è mosso fuori da scuole e da gruppi. Penso al rapporto difficile che Bandini ha avuto con l’avanguardia. Come tanti poeti coevi Bandini, si sa, non appartiene (per sua scelta) all’avventuroso Novecento, alle alternative più dissacranti e radicali. È stato un poeta che senza clamori, con passo discreto, ha attraversato le esperienze letterarie del dopoguerra cercando una propria strada, senza farsi precedere da manifesti, proclami. Non ha amato tattiche e strategie, astuzie fine a se stesse, l’armamentario sofisticato, il manieristico ingolfarsi nell’esasperazione della tecnica, il feticismo del significante, ma ha voluto piuttosto comunicare, non provocare, fare poesia del pensiero, trasmettere disagi e grazie, lacerazioni e contemplazioni, certezze e complicazioni. Non ha minato i congegni del mezzo, ha costruito poesia senza erosioni, nella sua piena sostanza sintattica («Da quadro a quadro il filo del discorso seguire / senza che troppa tensione lo spezzi / o becco ostile lo intacchi», La mantide e la città, Il filo del discorso), fiducioso degli apporti della tradizione, le sue cadenze, i metri, le parole, tra cui dice di annaspare talvolta come naufrago ma di cui ama nonostante tutto adornarsi: «come l’eroe delle sue belle armi, / ne faccio la mia lucida, serena / tempra di grazia per sfidare la Moira» (Meridiano di Greenwich, Miracoli). Inutile sottolineare qui la vicinanza con quanti (Giudici o Raboni innanzitutto) non si sono lasciati invischiare nel gioco sul degrado. È certamente consapevole che ogni acquisto di forma trae anche con sé una implacabile deriva:8
Ma lui correva a rompere il silenzio
in difesa d’una cadenza antica,
tramare versi, alzare una vescica
d’aria per bandiera.
(Per partito preso, Le temibili cose)
Ciò implica una sofferenza e un limite, per la vanità della parola (in La mantide e la città, Règia Parnassi chiama le parole «bolle precarie» a cui «è negato / di durare oltre l’attimo, cingersi / di alone immortale»), il logoramento del canone:
Ero uccello di bosco, ora assomiglio
all’usignolo-automa di Erone che in sé fonde
la meccanica e l’essere: gorgheggio
soltanto se animato da una carica
di memorie, di lacrime o di collera.
(Meridiano di Greenwich, L’usignolo di Erone)
Ma Bandini imbocca, comunque sia, la via del ripristino, della difesa, e anziché accettare il degrado e trasformarlo in poesia, opta per una scelta di netta conservazione. Non si lascia invischiare nello sperimentare perpetuo. Rifiuta la scelta apocalittica. E si tiene lontano da ogni simbolismo, da orfismi ed ermetismi. Non ama indugiare, per sfiducia nel linguaggio, sull’ineffabilità e l’asemanticità, sulla disgregazione-disarticolazione compiuta dalla letteratura moderna (in compagnia – come dice – degli «analisti sottili / della parola che in se stessa reca / […] il segno della morte», Meridiano di Greenwich, Miracoli). Non ha abbandonato l’idea classica che la poesia è scrittura intatta, che per parlare nel presente e del presente deve arrivare da lontano, inserirsi in una continuità, contenere quantità di passato, serbare di esso come un distillato, di esso intridersi con rimandi sottili, purché troppo non pesi con il suo incombente stampo aristocratico, ormai fuori del tempo, ma si risolva in opzioni misurate per «una lingua cauta che non tollera / le lusinghe dell’ombra ma si ritrae romita / nell’atelier di un operoso dire / dove brillanta il suo diamante greggio» (Meridiano di Greenwich, L’usignolo di Erone), si faccia eleganza formale capace di imprigionare i sentimenti «in lucidi rigori» (La mantide e la città, Insegnami a far versi), nutra imperterrita fiducia nel tratto sicuro e nel segno duraturo (sbucano spesso dal suo verso dorature epico-classiche, clausole sostenute, cadenze antiche, “orchestrazioni” di esperimentata “tenuta” di sillabe e vocali,9 dislocazioni come «la scoperta della / vasta senza conforto orfanezza del mondo» Dietro i cancelli e altrove, Apprendendo la notizia…; o l’endecasillabo con «iato artistico» e chiusa d’esametro:10 «ruotavano sul perno alto del vento» (Meridiano di Greenwich, Le poiane), «in arrivo da calme anse celesti» (ivi, Risvegli), la colomba dello Spirito Santo che arriva «col rombo alto del tuono» (ivi, Domenica di Pentecoste in campagna). Per non sbandare «a ogni minimo accenno di burrasca», occorre che la norma continui mitemente a regnare («mettere ai versi il morso / di qualche rima, fare della norma / la sorella del cuore», Santi di Dicembre, Martin Muma), continui a dettare circolate melodie, contenga il sigillo di un artificio necessario, spinga alla ricerca di una fattura, di una dizione, di un desiderio di dominio sul linguaggio («non ho affogato dentro una melassa / vischiosa di parole / la paura del senso, del suo volto / di Medusa», Santi di Dicembre, Tornando alle cave di pietra dopo più di trent’anni).
Nella poesia di Bandini il passato o l’immediata tradizione (Pascoli, Montale) sono perciò presenze attive per echi costruttivi.11 Bandini non cerca, negli anni Sessanta, un’alternativa a Montale, ne conferma invece l’ideologia positiva. Intende testimoniare una fervida circolazione letteraria, non una rottura. Le voci della sua poesia sono percorse da una corrente profonda. Bandini ci dà una sensazione di unità delle patrie lettere, ci fa ritrovare nei suoi versi il senso di un’appartenenza. Giostra entro le istituzioni, dentro una collaudata koinè (con tutte le lacerazioni interiori del caso,12 perché è consapevole della sua scelta difficile); va alla ricerca di un linguaggio poetico ben strutturato, non corroso o sfarinato o percorso da ostentazioni trasgressive, mentre scorre in parallelo la poesia dei coetanei della neoavanguardia. Bandini non s’intruppa, si isola nel suo (non fruttifero sul piano dei clamori) “caso” privato, non s’impanca, se ne sta appartato a contare «le sillabe dei versi // stoltamente sperando che una grazia celeste / mi rimanga impigliata tra le dita» (Dietro i cancelli e altrove, Voci serali).
Si capisce assai bene perché egli abbia indicato in Zanzotto l’autentica avanguardia del secondo Novecento, il poeta, come dice nelle pagine introduttive al «Meridiano», in cui la rottura dei consueti canali della comunicazione non obbedisce a una presa di posizione ideologica, non è scelta aprioristica, prevista, che preceda il fare, lacerazione costruita a tavolino, in laboratorio, non è baldanza, manifesto, ma rischio calcolato, che nasce dalla determinazione con la quale il poeta persegue il proprio senso, nasce dentro il testo, nella partita che il poeta ha ingaggiato con la propria scrittura; non è strategia mentale, ma travaglio, inquietudine, patimento necessario, autentica sofferenza,13 e devozione alle cose (altra vicinanza con Zanzotto: «Dei poeti che inventano ardue lingue / eri il meno superbo, il più devoto / alle cose e il più mite» scriverà di lui in Un altro inverno, La morte del poeta). Bandini come Zanzotto pensa che i manifesti dei poeti contano poco, che i versi non possono dominare o sistemare il mondo. Lo scrive nel citato volume del ’98, Le ragioni della poesia,14 dove parla della «possibilità di essere imbrogliati dalle ideologie»: nella neoavanguardia, scrive, «c’era un’intenzione di rispecchiamento della realtà (anzi di mimesi del suo caos nel disordine del proprio linguaggio), e insieme la volontà di attraversare la realtà, come Alice attraversa lo specchio. Era l’ultima prospettiva di una letteratura dell’impegno». Perciò la strada da seguire non poteva che tracciarla un «sentimento di umiltà nelle possibilità effettive della poesia», «la consapevolezza, cioè, che i poeti contano poco in questo mondo in cui viviamo». Bandini sa che la poesia non è un assoluto, soprattutto la sua, che non è profezia, diversamente da quanti scrivono versi per dire qualcosa che raddrizzi il mondo. Bandini comunque si compromette con la realtà, registra inquietudini e tensioni ideologiche, ma senza investirle di un discorso totalizzante. Non sottomette la poesia all’a priori di una ideologia,15 scrive senza fare «un baccano del diavolo», come diceva Raboni recensendo Memoria del futuro: «ha portato avanti, Bandini, con una bravura sempre più silenziosa o appena frusciante, i suoi giochi di incastri metrici e lessicali, la sua capacità di muovere pezzi contemporaneamente e con la stessa pulita fermezza su tre o quattro scacchiere (svergognando – è la parola – gli pseudoprofessionisti che per fare, molto meno bene, gli stessi giochi fanno un baccano del diavolo, digrignano i denti e si assicurano, prima di cominciare, d’avere a portata di mano coltellacci e archibugi»).16 Qualcosa del genere Raboni aveva già osservato a proposito del modo di fare «intrinsecamente sperimentale» di Per partito preso,17 e nella citata recensione a Memoria del futuro aveva definito lo «sperimentalismo» dell’autore «non […] un cercare a tentoni, ma un inventare a ragion veduta, un intuire in un ambito criticamente individuato»;18 di qui i giusti rilievi su sperimentalismo e canone, tradizione e innovazione, tecnica e invenzione che in Bandini hanno contratto matrimonio indissolubile, senza quel continuamente stare a chiedersi all’infinito, con isterismi e manie autopunitive, come «sopportare la propria esistenza» di poeta, «l’esistenza del proprio specifico spazio», «della propria dignità».19 In un’intervista del ’93 Bandini scriveva: «Pochi hanno bisogno della poesia o le chiedono qualcosa. E i poeti a loro volta scrivono poesie che hanno per tema loro stessi, i poeti (il loro drammatico destino nel nostro tempo). Questo atteggiamento esclude d’abord l’istanza della comunicazione, favorisce i manierismi più improvvisati e l’utilizzo di tutti i cascami post-novecenteschi e post-avanguardistici».20 Bandini pensava certamente alla poesia in cui il soggetto era l’intellettuale italiano coi suoi traumi e le sue passioni, il suo disagio espresso non già armandosi della memoria della propria lingua, ma lacerandosi invece sull’impossibilità di fare poesia “positiva”.
Per Bandini il poetare è dunque un atto di necessità comunicativa: comunicare a un pubblico sia pure limitato ma indispensabile alla sopravvivenza della poesia stessa. Di qui l’adozione di una nitida lingua, capace di “dire”, mirabilmente esatta, priva di qualsiasi oscurità oracolare: un italiano di ascendenza colta, che ha accanto le altre prove, di pari rilievo, in dialetto e in latino. Il suo idioma “trifario” non si divide però, gerarchicamente, in basso, medio e sublime. Tra le differenze di registro scorre trasversale un punto di vista unificatore. Col dialetto, lingua della memoria infantile, Bandini fa risuonare, più che l’emozione dell’oralità o l’animato quadro d’ambiente,21 i lati oscuri della psiche. È la lingua che più non si sa, o meglio si sa ma non si parla («Sta lingua mi / la so ma no la parlo, / la xe lingua de morti», Santi di Dicembre, Sta lingua), una lingua intinta di mistero, quella che la nonna ha imparato dalle mitiche fate dell’acqua, le anguane, lingua pantera odorosa che è ancora per ogni dove ma non sai dove stia, si spande, egli dice, come una polvere di fieno soffiata dal vento, volando attraverso le altane. Non c’è uso imitativo o espressionistico del dialetto. Il dialetto è evocazione del mondo infantile, «residuo esistenziale», e quella parola privata inerisce profondamente alla cosa.22 Tantomeno, il suo, è espressionismo strutturale, come se volesse adunare in una sola raccolta (sia in Santi di Dicembre, sia in Meridiano di Greenwich) tre lingue perché tra esse scaturiscano opposizioni, controcanti a confronto. Si tratta invece di libri che compongono una vasta circolarità in cui dialetto lingua minima, latino lingua massima, si pongono entrambi come vettori “subliminali” capaci di far affiorare quel mondo che – dice Bandini – «dorme nel fondo della nostra coscienza; rivisitarlo significa trovarci coinvolti in qualcosa che avevamo dimenticato ma che pure ci era appartenuto» (Nota, in Santi di Dicembre).23 Il dialetto, voce materna, scova gli strati di maggior spessore simbolico; mentre il latino può assumere talvolta la funzione di lingua del rito e della lode. Zanzotto scrive che il latino di Bandini è come se fosse l’inconscio linguistico. Si allaccia, più che al medievale, al latino umanistico, non è né il latino astrale e lunare di Zanzotto delle IX Ecloghe né il latino delle avanguardie, il latino «alchemico» di Sanguineti. Il latino di Bandini invece «dà quasi un senso di sicurezza, come approdare ad una sacralità pacata, non intaccabile dagli eventi», come una «lingua religiosa della fanciullezza»,24 di cui serba l’aspetto per così dire confidenziale, tant’è vero che raggiunge intimi accenti e una sua vivacità attuale (sono dedicate al ricordo della madre le poesie latine di Dietro i cancelli e altrove). Tocca piuttosto al dialetto (mi rifaccio a quanto Bandini dice di Zanzotto, ma che pare rivolto a sé) «scendere sotto terra», «vedere i nomi dalla parte delle radici»;25 più che codice comunicativo il dialetto è l’endofasia dell’anima (oltre che stacco culturale, anzi antropologico, dalla poesia scritta in italiano, perché la dialettale permette uno sguardo al mondo da un altrove, dal di sotto: «sa po’ scriver ’na storia da Storia / vidüü da sota», scrive Edoardo Zuccato).26 Si potrebbe dire che l’italiano è la lingua della ragione, che ha accanto un dialetto cui è riservato l’oscuro, il macabro, il perturbante, il mondo dei sogni delle paure e degli incubi, lo spettrale (in Santi di Dicembre, La grande late, l’onda di schiuma di latte scende la notte da squarci di nubi e soffoca i bambini), l’apocalittico, il vampirico (vedi, in Santi di Dicembre, I puteleti del vampiro). Il mondo dei fantasmi notturni è veicolato da questa lingua tribale, del sottosuolo (penso a quel capolavoro de La ciupinara, la talpa, che viene da sottoterra per vie cavernose, risalendo da una notte capovolta).
Italiano, dialetto, latino, un mirabile «spettacolo trilingue», un «caso pressoché unico di disponibilità idiomatica così al tempo stesso divaricata e complanare».27
Occorrerebbe approfondire tecnicamente di più la raffinata fattura del verso di Bandini, il suo linguaggio, le sue fonti. Ma mi preme ora confessare che tra gli aspetti della sua poesia che ho sentito più vicini alla mia sensibilità, alle mie esperienze di vita, ad alcuni libri che ho scritto, porrei la condivisione dello strazio che da La mantide e la città (1979) in poi Bandini ha mostrato per la fine improvvisa in Italia del mondo rurale, la violenza che ha operato su di esso la civiltà industriale («Eppure vivemmo il sole / e il diluvio, vedemmo / estinguersi la specie del merlo acquaiolo», Memoria del futuro, Suffissi in -zione), quasi stupefatto per il breve spazio impiegato in questi ultimi decenni per sommergere gesti, riti, linguaggi, paesaggi. Qua c’è la terra di Pitagora venduta «a lotti» (La mantide e la città, La spiaggia), là «il colore del cielo ormai caduto / in mille pezzi» (ivi, Lapidi per gli uccelli, XIV): al poeta non rimane che porre, a futura memoria, «lapidi / dove una volta erano voli e gridi» (ivi, XIII). Anche i suoni si sono ammutoliti. Bastavano i canti, un tempo, e le campane a ricordarci ch’era Pentecoste. Ora la ricorrenza è, come le altre, una giornata di silenzi, rotti soltanto da suoni troppo fiochi, salvo l’improvviso irrompere sgradevole della voce rauca di un novello «profeta», l’Umberto Bossi calato in piazza proprio quel giorno a predicare ai veneti arricchiti che loro discendono da un ceppo ancestrale che li separa e distingue: sto pensando a una mirabile poesia di Meridiano di Greenwich, dedicata al giorno di una Pentecoste ormai muta, con soltanto lontano il flauto superstite di un tordo, o il fruscio di una bicicletta, in una città di uomini ricchi usciti da poco dalla miseria, gente ora di avido cuore e dai corpi ben lavati, poveri diventati troppo rapidamente danarosi, incapaci di gestire la nuova cultura dell’opulenza; uomini che esibiscono l’eleganza falsa dei mobili di palissandro delle loro nuove case, ma senza aver sostituito al “perduto” dei nuovi valori. È subentrata invece una cancellazione mortale delle memorie, andate nel giro di poco in frantumi. Nel giorno di Pentecoste è morto pure lo Spirito Santo.
Con Bandini condivido nel profondo una radice paesana nel senso del radicamento in un antico ordine fisico e umano che permane incancellabile, il «paese», irriconoscibile oggi, dove ci si muove ormai da spaesati, perché gli «angeli» hanno abbandonato quei momenti-luoghi lontani ma vivi nella memoria (Santi di Dicembre, No volevo, e anche Sirventese…). Da quel microcosmo ci portiamo dietro un baluginare distinto di sensazioni, e Bandini le richiama: gli odori scomparsi dell’infanzia, i profumi («l’odore un po’ strinato del latte che trabocca / sopra un fornello a spirito», Meridiano di Greenwich, Latte che trabocca; «Il più antico profumo che ricordo / della mia infanzia è l’uvaspina: / ce n’è tutto un cielo nel folto di una siepe / e di là dalla siepe un cane latra», Santi di Dicembre, Il ritorno della cometa), e i sapori, quello antico della mela ranetta (Per partito preso, «Ma intanto dalle Cevenne a Capo Passero…»), il gusto delle viole, delle acetoselle e del pan-cuco («Magnavo questo e quele: / dolsi le viole, l’altro / un pocheto pì agrin. // Me resta in boca i giorni: / un sole che se insogna de aquiloni, / un vento che fa festa / soto le còtole de le putele», Santi di Dicembre, No volevo).
La sua poesia spalanca le porte agli spazi aperti della fanciullezza; il passato (la «gremita ressa dei ricordi») (Quattordici poesie, Behemoth) ritorna in barbagli pungenti, le corse nell’erba, i profili di valli e di fiumi, profumi, suoni, candori di nevi, il vento, i cieli, ricordi che permangono vividi nella loro tranquilla sacralità, inattaccabili dagli eventi (come risvolto linguistico è stato rilevata nella poesia ultima la presenza di «un fitto lessico del riapparire, del ripresentarsi alla coscienza delle cose» nell’alta «presenza di predicati verbali a prefisso morfosemantico ri-, riconoscere, riapparire, riavere, ricordare, rimanere, ritrovare, risvegliare, rivolere, risalire, riesplodere»).28 La memoria del passato sottende la struggente consapevolezza di cose perdute e finite, finite le sensazioni, finita un’epoca, finito anche il latino in cui scrive, e già sta finendo il dialetto:
Di un mondo ancora senza idiomi sento
crescere il tuono dietro chiuse soglie
e la lingua che noi parlammo è morta:
quanto ne resta è scritto sulle foglie
che la Sibilla consegnava al vento.
(Meridiano di Greenwich, Corona per un capodanno, V)
Il registro nostalgico già presente nelle prime raccolte («Quando lo svasso si alzava in volo / puntando il collo / e tutto era leggero, così leggero / […]», La mantide e la città, Spiaggia rivisitata), al cospetto di un universo saccheggiato («Come mi muoverò, poeta senza / gli amati nomi succo delle cose, / tra i buchi d’un saccheggiato universo?», ivi, Amnesia), più potentemente ritorna nelle ultime prove. A un certo punto della vita, per Bandini le voci del microcosmo in cui è trascorsa l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, la contrada della sua città, prendono a risuonare, alla distanza, come icone inestinguibili di avvenimenti: momenti che compendiano il senso di una vita, e che ora sono per altri, quando l’ala del vento di primavera gli passa accanto, ma:
Mi lascia indietro, rifiuta di portarmi
con sé nel posto delle viole;
sono per altri questi trepidi allarmi
di gioia e questo nuovo sole.
(Meridiano di Greenwich, Tuberi e grembi)
La poesia ultima di Bandini è una struggente poesia del perduto:
La nostra vita non è più nelle trame
tessute intorno a casa o poche vie più in là:
un ventaglio di aneddoti che l’aria
schiudeva tra le dita, depositava adagio
negli orti rosseggianti di escallònia
dove un giorno attecchiva una piccola storia.
(Santi di Dicembre, L’ultimo aereo)
Alla distanza, familiare e favoloso si fondono, suoni di campane della sua città con notti magiche di luna, e la poesia di Bandini si fa visionaria:
Molte case ho abitato insieme agli angeli
in questa città dove all’alba
riconosco alla voce ogni campana,
dove la notte deponeva
sui tetti illuminati dalla luna l’uovo
della civetta nana.
(Dietro i cancelli e altrove, Sirventese…)
Nella lontananza traspaiono le orme del liocorno, sparito per sempre con la sua «mite folle testa»:
Dov’è il luogo e la casa? Cerco la calda sera
dai miei cieli scomparsa
nel cui grembo dormii come il liocorno.
(Meridiano di Greenwich, Il liocorno)
Forme della lontananza, luoghi, persone:
Voi dove siete andate,
care voci alloglotte
che una volta sentivo
parlare dalla cavità dei muri?
(Santi di Dicembre, Le cimici verdi)
Echi perduti, mormorii lontani, voli di luci:
Ci sono ancora le lucciole. Sbandano
dai loro greggi di tremulo fosforo
su pendii non talmente desolati
da non avere un nome sulle carte.
Lasciano cicatrici d’oro nelle tenebre
a futura memoria.
(ivi, Lucciole)
Visioni, luci, ma anche voci sommerse, tutte d’un colpo ammutolite o sul punto di affondare, risalgono in superficie del suo verso, e il lontano risuona anche in forma di cantilena, nello sciamare di ritmi affioranti da quello che Bandini stesso aveva chiamato, a proposito di Meneghello, «privacy linguistica»:29
Tuu tuu la mama la xe ’ndà via,
la xe ’ndà in serca de un cavalin
da regalarghe al so putin.
E la ga visto a Treviso
un cavalo tuto griso,
e la ga visto a Este
un cavalo tuto celeste.
(ivi, Vento e fogo)
Bandini ha colto nei suoi versi i tratti di un mondo in fuga, non già per testimoniare, soltanto, una nostalgia personale, come già in precedenti prove:
In quest’azzurro di settembre che si dilata
oltre i confini dei miei occhi verso
regioni dove non arriverò mai
ci sono chicchi d’uva che altre bocche
schiacceranno tra i denti ignorando
questo mio torrido angolo di sete.
In quell’altrove fiori d’ombra sbadigliano
alla sera di un’isola abitata
da corpi adolescenti di Nausicae.
Non le vedrò dal mio raro trifoglio:
creste in fiore riarse dalla polvere
grucce al riposo di magre locuste.
(La mantide e la città, Plazer)
Ora fa rivivere esemplari in estinzione, nomina il brusio di un mondo, colori e rumori e moti, erbe, animali (come un «vecchio-bambino che serbi l’indelebile incanto degli equiseti e della salamandra»),30 fenomeni del cielo e della terra, quelli che hanno consolato o terrorizzato generazioni e generazioni, compendiato paure e desideri: un mondo che ha cessato di risuonare, e che il poeta fa rivivere non per elegia e nostalgia («quello che vibra nei versi di Bandini non è il moto della nostalgia ma lo spasimo, semmai, di una risorgente e umanissima utopia» meglio precisava Massimo Raffaeli).31 Bandini si chiede soprattutto (lo notava Giorgio Bàrberi Squarotti) dove è andato a finire quello che è stato, dove mai sono andate a parare le cose del passato («Ma tutte queste cose dove sono / adesso – in paradiso, all’inferno?» Santi di Dicembre, Gatti di guerra), e questo interrogativo è in effetti ciò che dà alla poesia di Bandini tensione interiore e dramma,32 di più intensa risonanza oggi, in un mondo globalizzato:
Quando mi trovo in città sconosciute
cerco negozi di uccelli:
l’ho fatto a Ginevra a Londra
a New York ad Hong-Kong
(dentro c’è un piccolo vento, nervosi
colori saettano in angoli d’ombra).
Ma non ho visto
in Asia shama d’Asia
in Europa cutrettole d’Europa
in America mimi poliglotti d’America:
sempre la stessa alata confraternita
di ogni parte del mondo
in gabbie made in Japan.
(Santi di Dicembre, Negozi di uccelli)
Che cosa è stato perduto, quale significato ha il silenzio che accompagna la morte delle cose e delle parole che lo designano? Dove è andato a finire quel che era? Affiora insistente l’idea di estinzione della specie (vedi le Lapidi per gli uccelli, comprese in La mantide e la città). Di qui quel nominare continuo da parte di questo nostro miracoloso poeta del dizionario, un nominare che fa di lui un mirabile «attivatore di memoria»33 proprio attraverso la nominazione, attraverso l’esattezza di un nominare che ci ricorda Pascoli. La poesia di Bandini abbonda di lessici speciali: botanica, entomologia, ornitologia, voci sia di uso corrente sia di origine vocabolaristica (e con notevoli echi letterari: naturalmente da Pascoli, ma anche da Gozzano, Montale). Pascoli sovrasta: la sua ombra grandiosa, scriveva Zanzotto, apre questi spazi di nomenclatura. Più rari gli animali (un geco trasparente, la ciupinara), molti gli alberi, acacie, olmi, catalpe, mandorli, meli, il cotogno, il carpine, il platano, frassini, l’ontano, il faggio, l’acero, il bagolaro, cembri, peschi, mirti, ligustri, il caco, il pino, l’agave, l’araucaria, le còrnole o cornioli, l’uvaspina, il prùgnolo; in dialetto gli onàri (ontani), l’àlbera (populus tremula), le marinele (visciole). E tanti fiori e tante erbe: a parte l’unicum di un «fiore carnivoro», o di un fiore esotico come il nelumbo, c’è l’escallonia, la genziana, il bucaneve, e miosotidi, campanule, pervinche, aquilegie, e fucsie, primule, la rosa selvatica, il rododendro, i settembrini, il tarassaco, il dente-di-leone, l’alchechengi, la lunaria, l’aquilegia, l’erbaspagna, il croco, l’agèrato, il calicanto, la cicuta, il fiore del piretro, la bardana, i gialli fiori del topinambùr e delle forsizie, la dalia curva sul suo peso di grazia, le pulsatille, la filipendola, lo spanavìn o pan-cuco (acetosella), le campanele (campanule), i pissacani (tarassaco), le galinele (valerianella). E insetti: càrabi, farfalle, libellule, il bupreste e i buprestidi, i pappataci, l’acheronzia. Frotte di uccelli: i petarèi (pettirossi), lo stelarìn (fiorrancino), il merlo acquaiolo, la nocciolaia, il martin pescatore, il beccaccino, il gambecchio, il corùssolo, la piovanella, il totano moro, il tordo bottaccio, la pantana, il cormorano, la tottavilla, il verdone, il frosone, i beccofrusoni, i corvi, e merli, luì, cardellini, lo scricciolo, il codirosso, il codirosso spazzacamino, la peppola, il bengalino, la rondine, il culbianco, il passero, il gallo cedrone, la quaglia, il pettirosso, la cesena, e folaghe, colombi, la cicogna, il saranto (il verdone), lo svasso, il rigogolo, l’usignolo, il picchio, l’avocetta, il becchincroce, il pettazzurro, raro uccello di passo, e il caprimulgo.
Nomi e cose come lapidi per mondi che muoiono, zoonimi e fitonimi come se fossero nomi-riparo contro gli assalti di una civiltà che insidia ciò che è stato. Ma non si tratta – già l’ho detto – di catalogo del rimpianto che voglia porre dei nomi disseccati sotto vetro e ricomporli pietosamente nel museo dei ricordi. Il sillabarli riannoda sì le fila personali coi propri anni verdi, sciami di voci e di immagini vive e perdute riannodano trame dimenticate, fittissime, pungente si fa la spina della nostalgia, ma non si tratta di autobiografismo, perché nella sostanza sono voci messe lì a trapuntare una verità in sé sussistente, una constatazione oggettivamente amara. I «nomi del mondo», quello schedario sensoriale, verbali «angeli» superstiti, creano una catena di solidali stabilità, quelle che ora paiono infrante perché l’agonia, la morte delle cose cammina di pari passo con l’oblio del nome che le designa. Ma restano come indicazioni di intatte «essenze», compaiono senza alcuna necessità descrittiva, qualificazione zoologica. Ritornano in funzione di punti distinti del riferimento, come immutabile catalogo. Bandini vuole dare puntigliosamente il nome per far durare il perduto, destoricizzare il tempo, fissarlo nella sua perennità come su «lapide».