Una raccolta di tutte le sue poesie era indubbiamente tra i desideri di Fernando Bandini. Ne avevamo parlato spesso, al telefono, dopo l’uscita di Dietro i cancelli e altrove (2007), ma non arrivammo mai a discutere della forma che il libro avrebbe dovuto o potuto avere. Certamente esso avrebbe allineato le raccolte “maggiori”: da Memoria del futuro a Dietro i cancelli e altrove, con le plaquettes seguite negli anni successivi. Ma come avrebbe reagito Bandini alla mia proposta di raccogliere anche l’intero corpus delle poesie latine? Avrebbe prevalso la considerazione che egli, a ragione, aveva del valore assoluto di questa parte della sua scrittura in versi o invece il timore che l’operazione portasse a un fraintendimento? «Io non sono un poeta latino» protestava intervenendo al Festivaletteratura di Mantova nel settembre del 2013.1 Avrebbe accettato di correre il rischio, che egli fortemente avvertiva nel giudizio «di alcuni recensori e interpreti», di una propria definitiva “pascolizzazione”2 o si sarebbe invece compiaciuto che il proprio corpus poetico si conformasse, nell’apposizione di versi italiani e latini, a quello di un poeta tanto amato e, per sua stessa ammissione, influente? Mi ha incoraggiato, a decisione presa, leggere una testimonianza di Giovanni Giudici. Dando notizia, nel 1985, del poemetto premiato al Certamen Vaticanum l’anno precedente, egli scriveva: «Papiliones […] entrerà presumibilmente a far parte di un libro di poesie latine che Bandini sta pubblicando col titolo In lingua morta presso le edizioni di San Marco dei Giustiniani in Genova».3 Il volume presente porta a compimento il progetto (perché soltanto di un progetto, in realtà, si trattava) che allora non arrivò a realizzarsi.4 Ma avrebbe recepito, Bandini, la mia idea di allargare il libro a comprendere anche i suoi versi tradotti? Credo che avrei usato, come primo argomento per convincerlo, l’evidenza che la centralità del momento tecnico-formale (Bandini è un poeta che non ha uguali, per questo aspetto, nella poesia italiana del secondo Novecento) non viene meno se si passa dalla valutazione del poeta in proprio a quella del traduttore (un argomento di cui certo non avrebbe potuto disconoscere la verità di fondo, avendo egli perentoriamente rivendicato che «tradurre una poesia è scrivere una poesia»).5 In ogni caso, restando il rimpianto che questo libro non si sia potuto progettare insieme, ho deciso per la più ampia inclusività; e in ciò ho inteso corrispondere a una peculiarità dell’essere poeta di Bandini, quella che Raboni aveva colto perfettamente scrivendone alla metà degli anni Ottanta:
In effetti, la poesia di Bandini è percorsa, oggi come sempre, da una sottile mobilità e inquietudine, da una sorta di rifiuto, fortemente intellettuale, a “consistere” una volta per tutte; novecento e antinovecento (facendo un passo indietro di qualche secolo potremmo dire petrarchismo e antipetrarchismo), fulminazione analogica e parlare sommesso, ragionativo, vi si alternano e intrecciano di continuo, alimentandosi, corroborandosi a vicenda.6
Non vorrei però che l’accoglienza data all’intera opera in versi edita (con pochi ma significativi inediti latini) fosse scambiata per un atteggiamento criticamente rinunciatario, o che aprisse la strada a rischiosi travisamenti. Non ho dubbi sul fatto che Bandini sarebbe risoluto nell’affermare che è nella Prima parte di questo libro che si leggono le poesie a cui resta affidata la massima speranza di ascolto e di memoria: quelle di un poeta italiano tra i maggiori della propria epoca, che – episodicamente e per le ragioni che cercherò di chiarire – si è espresso anche in latino e nel dialetto di Vicenza, e che ha scritto:
Dialetto e latino sono lingue-rifugio, camminamenti di talpa scavati sotto la terra per vedere le parole dalla parte della radice. Ma il compito del poeta è oggi misurarsi con un limpido, saldo italiano della poesia. Hic Rhodus, hic salta.
È su quel campo, quello dell’italiano, che troveremo le nostre vittorie, se la nostra pazienza sarà stata tenace e le Muse si mostreranno benigne; è su quel campo che, diversamente, conosceremo le nostre sconfitte.7
A me pare comunque che la questione delle tre lingue del poeta Bandini sia tutto sommato marginale, se non oziosa, e che sia fuorviante affrontarla senza aver colto l’unità di intenti che sta alla base della sua esperienza poetica. Si tratta di riconoscere il movente primo e unico della sua poesia in quella che egli definiva la «volontà di dire». È una formula a cui ricorre spesso il Bandini critico della poesia altrui, ma che non manca nella sua riflessione sul proprio lavoro. Trascrivo da una conversazione recente, nella quale Bandini esplicita il richiamo dantesco: «Il problema che […] mi sono posto fin dai miei primi tentativi è stato questo: vivo in un’epoca dove l’originalità di un poeta viene demandata unicamente ai valori formali, e di conseguenza un poeta è nuovo solo se è formalmente nuovo, ma la ricerca di una verità puramente formale preclude alla possibilità di quello che Dante chiama “la volontà di dire” e cioè di dire cose».8 È un passaggio che offre molti spunti, ma che andrà sviluppato, per iniziare, dalla chiosa finale. Essa presuppone che si legga, anche, nella vicenda della poesia di Bandini, un’originalissima via al raggiungimento di quella che è detta – con altra formula dantesca – la «gloria della lingua»: il raggiungimento «più ambito e […] il più difficile», soprattutto per chi, come lui, ha attraversato da poeta un cinquantennio particolarmente problematico: «dall’anchilosata e angusta situazione degli anni Cinquanta, dove la poesia accoglieva solo pochi collaudati oggetti poetici, lungo gli anni Sessanta e Settanta, quando molti pensavano che il poeta dovesse mimare nel suo discorso il disordine del mondo, per giungere a questi nostri giorni nei quali la lingua è logorata e guasta dall’alluvione mass-mediatica e molti poeti si abbandonano senza rigore a impulsivi miti neoromantici».9
Confrontandosi con le «inquiete esperienze» portate avanti dai poeti nati tra la metà degli anni Venti e la metà degli anni Trenta, Bandini aveva indirizzato la propria volontà di «dire cose» a un «modo di fare […] intrinsecamente sperimentale», quello tempestivamente individuato da Raboni (che di Bandini è stato forse il critico più acuto ed empatico) nella sua recensione a Per partito preso:
Il fatto è, credo, che Bandini non vuol dimostrare un bel niente; non si sente in possesso di nessuna formula di relazione, né per dritto né per storto, fra linguaggio e realtà, tant’è vero che è sempre pronto a ricominciare da capo, e sempre con entusiasmo, credendoci fin che dura: strofette, verso lungo, prosa ritmica, prosa, strofette; rime, assonanze, dissonanze, rime; lingua, dialetto, lingua… Ciò che soprattutto gli preme sono proprio i suoi contenuti: di come, mettiamo, una certa vicenda personale, politica anche, metta radici in lontane storie di sacrilegi, favolosi incontri col padre, infantili visioni di guerra; di come l’ambiguità della natura sopravviva di continuo alle inevitabili, crudeli semplificazioni della storia […]; di come sia dolce pulire «la polpa dei giorni con la punta del coltello, seme per seme, intenzione per intenzione», ricostruendo «nella luce della coscienza» la frantumata immagine delle cose […].10
L’uso del dialetto al quale Raboni fa riferimento è nel primo Bandini «assai circoscritto», come avrebbe poi notato Mengaldo, ed è adottato con modalità che «mostrano con esattezza, in re e in negativo, come e qualmente esso non sia utilizzabile per lui ad altri titoli e dosi. Una sola lirica di Memoria del futuro è integralmente dialettale, Farfalle e vischio, del resto appartenente a una sezione piuttosto antica del libro (Neve e tuono: 1962-63), e dove il dialetto è nettamente straniato, de-naturalizzato, nella “maniera” metrica della canzonetta di settenari a quartine con rime alternate. Per il resto il veneto è impiegato contrappuntisticamente, in integrazioni contestuali con la lingua».11 La situazione è destinata a cambiare, come vedremo. Intanto, a quest’altezza cronologica – come mi è capitato di osservare in altra sede –,12 Bandini opera in parallelo con il Meneghello di Libera nos a malo. In particolare, per Quello che è vietato (che Mengaldo giudicava «l’impasto […] più maturo») mi pare appropriato richiamare questo passo: «Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto».13 Quanto al latino, Mengaldo, che scrive per accompagnare la pubblicazione di Sacrum hiemale (insieme alla traduzione di Vittorio Sereni, Festa d’inverno) nel numero dell’ottobre 1976 di «Strumenti critici», parla di un «esercizio» che in Bandini è «l’opposto che episodico e intermittente, anzi tenacemente lungo e continuo»;14 un esercizio, tuttavia, di cui Sacrum hiemale era, a quella data, il solo testo pubblicamente noto, oltre che il primo ad apparire in una sede editorialmente esposta.15 L’occasione-spinta all’origine dell’adozione del latino per Sacrum hiemale è rievocata dallo stesso Bandini nell’intervento Scrivere poesia in latino oggi, che il presente volume accoglie in appendice alla sezione Altri versi latini. Qui Bandini offre un’importante indicazione cronologica – «La mia avventura col latino cominciò verso la metà degli anni Cinquanta» –, ma soprattutto mette in chiaro una precisa «volontà di dire»: «Avevo visto una mostra dei disegni fatti dai bambini nel campo di concentramento di Terezin, ne ero rimasto commosso e volevo scrivere una poesia». Il problema che gli si pone è esattamente quello individuato da Raboni; sinteticamente: quali strumenti per quali contenuti. Il latino, cioè, è la lingua che consente un’espansione tematica avvertita come necessaria, inarginabile. Mutuando le parole che il critico userà per il friulano di Pasolini, esso è la «lingua che gli permette di annettersi territori non conquistabili dall’italiano poetico di quegli anni».16 Si tratta, nel caso specifico, dell’individuazione di un veicolo stilistico per l’affabulazione del tragico: un’affabulazione preclusa alle forme della lingua poetica italiana che gli si offrivano come modelli. Più avanti – quando, a partire dalla metà degli anni Settanta, l’impiego del latino assumerà una continuità “pubblica” con tempi più serrati –17 il carmen diventerà la sede di «una poesia di sonore, suggestive metafore», di quegli «alti temi la cui impraticabilità nelle attuali scritture poetiche» (sto ora citando da un saggio del 2007) «viene sentita dai poeti d’oggi come un rimorso, e che Noventa, nostalgico del romanticismo tedesco, denunciava come grave limite del nostro Novecento suggestionato dalle sensitive apparenze e fantasmi della “calda vita”».18
Escluso da Memoria del futuro (1969; ricordiamo che Sacrum hiemale aveva conosciuto la prima stampa nel 1965) il latino lo è pure da La mantide e la città, di dieci anni posteriore, quando alle stampe era arrivato anche Niveus nimbus (1977). Interrotta (o limitata all’esercizio privato) la scrittura di versi vicentini, nel nuovo libro Bandini si rivolge solo all’italiano. Rispetto a Memoria del futuro, si direbbe che nel decennio successivo all’esordio mondadoriano il poeta abbia operato entro un ambito e con le modalità che Raboni aveva ben descritto qualche anno prima, affermando che «il linguaggio della tradizione, recente o remota, è uno spazio sperimentabile come qualsiasi altro […]. Sperimentabile, voglio dire, ai fini espressivi, di recupero o di straniamento o di critica: senza alcuna preventiva garanzia d’efficacia, è ovvio, ma senza preclusioni specifiche».19 Ferma restando l’attitudine sperimentale, è ne La mantide e la città (un libro, va detto, di riuscita estetica non inferiore a quelle di Memoria del futuro e del più fortunato successivo, Santi di Dicembre) che si precisano le peculiari caratteristiche del “classicismo” di Bandini. Scrive bene Luca Marcozzi: «la memoria lirica, e di Petrarca in particolare, è solo una delle numerose tradizioni di lingua poetica alle quali Bandini, nel suo percorso individuale alla ricerca soprattutto di certezze stilistiche e formali, fa riferimento. Bandini è un poeta colto che attinge a più tradizioni paritetiche, viste a partire dal loro esito, in una prospettiva cronologica che tende a mescidare, piuttosto che a distinguere, e a porre molto, se non tutto, sullo stesso piano».20 Ne è un esempio il finale di quella che è una delle più memorabili poesie di Bandini, Insegnami a far versi:
Insegnami a capire che è stata lei –
la sua furia bambina a un suo comando –
a far saltare le lacinie fragili
dei fiori… E se ne va così leggera
che il cigolio dei passi sulla ghiaia
non lo scroscio lo copre ma il respiro.
Esso riporta sì, per la consecuzione «non… ma», ai luoghi petrarcheschi richiamati da Marcozzi, ma anche (soprattutto?) al Montale di Incontro («[…] e quasi anelli / alle dita non foglie mi si attorcono / ma capelli»). Tra «novecento e antinovecento» Bandini guarda qui piuttosto al primo dei due poli: il che gli permette di espandere il proprio repertorio tematico con rare ma intensissime incursioni nella poesia d’amore, continuando però a sentir mossa la propria «volontà di dire» dalla reazione alla violenza della storia (il tema dell’amor, verrebbe da dire con il suo Dante, accolto accanto a quelli prevalenti di salus e virtus). Nella quarta poesia della sequenza che a loro è dedicata, i «satelliti dei prìncipi» sono convenuti al Teatro Olimpico per assistere all’Edipo re, ma è da un’altra tragedia che il poeta non può distogliere lo sguardo, quella della gentildonna vicentina – così una nota – «strangolata nel 1600 dal boia dell’Inquisizione romana»: «io / non ho occhi che per Bianca Angaràn, // e il suo gemito sale / dalle profondità che calpestiamo, / da dove a marzo sgorga / la clematide a coppe come un’eco / di antiche fioriture». Bandini, dunque, accetta ora la sfida dell’affabulazione del tragico in italiano. In Esce stanotte, che ha sullo sfondo l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, la funzione già svolta dal latino è affidata allo straniamento metaforico e metrico (tre rigorose strofe esastiche rimate nello schema ABCBAC le prime due, ABCABC la terza). In Lapidi per gli uccelli, XII, figura del poeta è il bengalino:
rimpicciolito e frustrato dal prossimo crepuscolo
nella vampa che alterna napalm e sole
lui re di piccoli gridi cosa, mamma
mia! poteva dare alla testa scoppiata, al muscolo
in pezzetti dell’uomo se non scarabocchiate parole,
l’impreciso disegno del suo spettrogramma?
Ancora, la risposta è, precisamente, nell’adozione di uno stringente schema metrico (quattro strofe con schema ABCABC), vale a dire in un di-più di letteratura che ha un’evidente intenzionalità metaforica, dove il figuratum è quello che in una presa di posizione di questi stessi anni Bandini nomina ricorrendo a Ernst Bloch e ad Andrea Zanzotto:
Io penso che essere poeti negli anni Ottanta comporterà una scelta di autonomia e di libertà negli indirizzi del proprio lavoro, una buona dose di sdegno, cera negli orecchi per resistere al canto delle Sirene (comprese quelle della cosiddetta società letteraria). Penso che quello che si chiederà alla poesia sarà di rendere testimonianza – nello spazio che le pertiene – di quello che Bloch chiama Principio-Speranza e che Zanzotto nella Beltà ha giustamente parafrasato come «principio-resistenza».21
Del principio-speranza, o principio-resistenza, Bandini rende testimonianza nel proprio peculiare modo di vivere e praticare il rapporto con la tradizione:
È evidente che la poesia è la cosa più inutile che noi abbiamo a questo mondo, perché non soddisfa alcun interesse pratico, e poi chi ha voglia di leggere poesia ha sempre a disposizione un’infinità di testi, dal primo millennio avanti Cristo fino ai nostri giorni. Allora che bisogno c’è di scriverne di nuove? Il problema, o la necessità, per ogni generazione, è di rendere testimonianza, di lasciare una memoria di sé. Nel momento in cui uno si pone un simile interrogativo, ipso facto ha creato il suo rapporto con la tradizione. Chi non se lo pone, tende invece ad affermare la sua legittimità come se alludesse ad una nascita eccezionale di se stesso, come se il poeta fosse una creatura speciale, ed è una cosa che mi ha sempre ripugnato.22
Il classicismo di Bandini altro non è, insomma, che il rifiuto di un linguaggio connotato da «violenza di autonomia», quella «violenza di autonomia» che «distrugge ogni portata etica»: dove i virgolettati provengono da un saggio di Roland Barthes – Esiste una scrittura poetica? –23 la cui lezione Bandini sembra far propria in termini assai espliciti citandolo entro il suo maggiore contributo zanzottiano: «Qui ci sovviene di un passo di Roland Barthes che nel suo Grado zero della scrittura afferma che la poesia moderna non ha portata etica perché non è rivolta alla collettività e alla tradizione».24 Bandini aveva chiaro da sempre a che cosa si dovesse rivolgere il progetto del poeta disposto a mettere in gioco il proprio «onore» (Noventa)25 assumendosi la responsabilità della «portata etica» della scrittura. Intervenendo ad Abbazia, nel maggio del 1966, a un convegno su Letteratura e pubblico, dichiarava:
In sostanza la poesia è sempre stata discriminante, e lo è oggi, più che mai, per il carattere di massa della produzione genericamente letteraria. A questo punto si potrebbe chiedere se io concepisca la poesia come un fatto privilegiato, aperto a pochi sensibili e attenti consumatori. Intendo invece dire soltanto questo: che come esiste un’alienazione dell’uomo da Dio, un’alienazione dell’uomo dalla propria umanità, esiste anche un’alienazione dell’uomo dalla parola, e che è compito del poeta lottare contro quest’ultima, ricollocando la comunicazione al livello dell’umanità.26
Ciò che è cambiato, rispetto a Memoria del futuro, è il venir meno di uno «stato di felicità», all’essere La mantide e la città «un libro più situazionale rispetto al primo».27 Di un avanzante, pervasivo pessimismo è sintomo il rovesciamento nel nome di Vicenza in Aznèciv, per la prima volta nel titolo della poesia eponima. Nel nuovo «eone» – scriverà – Vicenza non è più il luogo che consente la «pretesa laica di uno sguardo aperto su più vive vicende umane e su più vasti spazi del mondo»; è diventata «uno dei siti uguali tra loro e periferici del mondo. L’immagine della città non è più sentita come paradossale stimolo a essere, anche solo immaginandolo, alla sua pari. E da allora in qualche mia poesia […] ho cominciato a chiamare la città col suo palindromo Aznèciv».28
Ricollocare la comunicazione al livello dell’umanità, dunque, «in spe contra spem, di fronte all’attuale afasia della lingua poetica» (così Bandini in chiusura di Scrivere poesia in latino oggi, ma certamente volgendo il pensiero alla propria poesia tout court). Al chiarimento di una posizione che già potrebbe valere come conclusione di queste pagine introduttive e come viatico al nostro lettore siamo arrivati discorrendo di un libro, La mantide e la città, che avrebbe dovuto sancire l’importanza della poesia di Bandini nel quadro delle esperienze poetiche del suo tempo, ma che al contrario ribadì una sua collocazione in qualche modo “marginale”.29 Ad essa Raboni (uomo e poeta che Bandini sentiva da sempre come senz’altro «fraterno»)30 reagiva, in un intervento già citato, ipotizzando le ragioni di questa singolare mancata ricezione critica: «forse […] si vorrebbe che, con i suoi versi, Bandini avesse preso o prendesse più clamorosamente partito per una qualche tendenza o scuola, per un modo univoco, univocamente “impressionante”, di concepire e praticare il lavoro poetico. Sarebbe una spiegazione, anche se un po’ malinconica».31 Non troppo diversa l’analisi che – più colloquialmente – faceva lo stesso Bandini. A Cosetta Amici, che al poeta-critico chiedeva «che cosa prova quando è la sua poesia ad essere oggetto d’analisi, di teorizzazione da parte di altri studiosi?», Bandini rispondeva così: «Io come poeta dal punto di vista delle teorie sono sempre stato fottuto, perché non riesco a essere inquadrato all’interno di nessuna teoria e quindi gli altri tendono ad esaminare la mia poesia dal punto di vista della diversità da altri discorsi poetici. Ma letture basate su di una fiducia iniziale nel testo e quindi letture confidenti ne ho avute molto poche» (e proseguiva ricordando l’«accertamento verbale» di Giorgio Orelli su Insegnami a far versi).32
Siamo nel 1984, quando Bandini si appresta a due uscite che, paradossalmente, avrebbero confermato la sua «sottile mobilità e inquietudine», il suo sottrarsi a ogni inquadramento. Da un lato, infatti, Il ritorno della cometa riprende il discorso dove l’aveva lasciato La mantide e la città («ma con mano più semplice», registrava Gilberto Lonardi);33 dall’altro, la sequenza In lingue morte, nell’«Almanacco dello Specchio» del 1986 dava conto della ripresa della scrittura in vicentino e insieme sottraeva quella in latino alla confinazione in sedi editoriali specialistiche.34 In lingue morte consiste in nove poesie in dialetto e di un estratto da Sancti duo, poemetto che, con titolo Sancti duo decembris mensis (Nicolaus et Lucia), era apparso in «Latinitas» due anni prima. Dei versi vicentini bisogna sottolineare, insieme allo iato stabilito con l’uso del dialetto in Memoria del futuro, il carattere di urgenza tematica cronologicamente circoscritta. Bandini me lo disse chiaramente in una conversazione che avemmo in proposito nel settembre del 2001: «Ci sono dei momenti in cui il dialetto si impone in maniera imperiosa, e non c’è possibilità di scelta: cioè non ci sono cose che possono essere scritte tanto in italiano quanto in dialetto, come ahimè pensano alcuni poeti in dialetto che fanno addirittura gli sperimentali».35 Il discorso, insomma, torna ancora alle «cose» da dire, alla «pronuncia di affetti e sentimenti primari che potrebbe risultare mistificatrice ad altri livelli linguistici».36 Si tratta, ora, di «riappropriarsi dell’infanzia come momento centrale per decodificare il senso della vita (e la sua riposta poesia)»37 e, insieme, di rivisitare quello che, parlando di Pascoli, il critico definisce «crepuscolo vampirico sublustris».38
Alla frequentazione delle stesse costellazioni tematiche punta anche il ricorso al latino in tre dei cinque poemetti che Bandini deciderà di accogliere entro i tre libri che seguiranno: Santi di Dicembre (1994), Meridiano di Greenwich (1998) e Dietro i cancelli e altrove (2007). All’affabulazione di un proprio “sentimento dell’infanzia” appartengono lo stesso Sancti duo decembris mensis – offerto integralmente in Santi di Dicembre, ma ora collocato (con ulteriore assimilazione al dialetto) entro il corpus delle poesie vicentine – e Ramus Aureus, un dialogo con la madre che il poeta accoglie in Dietro i cancelli e altrove, a tre anni di distanza dalla pubblicazione in rivista; mentre alle Cose del mondo di sotto Bandini ascrive Psyche, già in rivista nel 1987 e riproposto entro questa sezione trilingue (un unicum) di Meridiano di Greenwich. Gli altri due poemetti rispondono invece a quello che Silvia Longhi ha definito la «componente profetica» di Bandini.39 Il remoto Sacrum hiemale, per la prima volta accompagnato dalla traduzione dello stesso Bandini, è inserito – e dunque, in qualche modo, distanziato – nella sezione finale Reperti; ma la sua collocazione in chiusura del libro fa sì che i versi finali risuonino come una desolata presa d’atto dell’ineluttabilità del male, nella convinzione che «il mondo dove viviamo è inferno, e nei tratti migliori, dove più fraterna divenga l’associazione tra gli uomini, purgatorio».40 Vi persiste però l’immagine dei Sancti Innocentes:
Si quid per umbras insolitum sonet
alis eos agnoscimus aethera
nantes inaspectis: videntur
perspicuo tremere astra amore
longaeque noctes murmuribus scatent
ceu vere plenae floribus arbores
atrocis et suadent remissae
temporis ut lacrimas feramus.
Se qualcosa d’insolito risuona nelle tenebre
noi li riconosciamo, sono loro che solcano
il cielo con ali invisibili: sembrano
tremare gli astri di trasparente amore
e le lunghe notti brulicano di murmuri
come di primavera alberi pieni di fiori
e c’inducono calme a sopportare
la nostra storia atroce e le sue lacrime.
De itinere reginae Sabaeae, già in rivista nel 1982, viene investito di una funzione di chiusura nella ripresa in Dietro i cancelli e altrove. Il significato della lunga narrazione del viaggio si rivela nei versi conclusivi dell’apostrofe:
Atque adeo citius propera: iam dorcadas altis
in pratis Libani tenet improvisa voluptas
amplaque hirundinibus tintinnant atria Sion.
Verba sepulta iterum, tellure emersa profunda,
miserunt florem: stupet experrecta vetustas
tuque a praeteritis saeclis iucunda renides.
Sed nemo divae comitatum mane Sabaeae
Ierusalem vidit validas accedere portas
innumeri quamvis oculi dum longa fugit nox
vidissent tacitum super urbem aurescere caelum.
Vieni dunque più in fretta; già le gazzelle negli alti
prati del Libano domina una gioia improvvisa
e i grandi atri di Sion tintinnano di rondini.
Parole sepolte, spuntate dalla profondità della terra,
sono tornate a fiorire; si risveglia stupefatto il passato
e tu dalla lontananza dei secoli dolcemente sorridi.
Ma la carovana all’alba della regina di Saba
nessuno la vide avvicinarsi alle forti porte di Gerusalemme
sebbene innumerevoli occhi, mentre la lunga notte fuggiva,
avessero visto sulla città farsi d’oro il cielo silenzioso.
I versi sulle «parole sepolte» si potrebbero commentare con il Bloch de Il principio speranza: «il futuro non divenuto diviene visibile nel passato, mentre un passato vendicato ed ereditato, mediato e adempiuto diviene visibile nel futuro».41 Quanto ai versi finali, la capacità di vedere – di vedere per tutti – resta affidata al poeta, se egli accoglie – come Bandini lucidamente e generosamente ha fatto – il mandato ad agire nel tempo «in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e […] a favore di un tempo venturo».42 È proprio in questa veste che Bandini si descrive in Fin-de-siècle, in Meridiano di Greenwich («Contro sizigie ostili ho dovuto schierarmi, / fare guerra all’eone (ancora porto / schegge, nelle mie costole, dei cieli), // ma al cuore così goffo e malaccorto / chi avrebbe dato armi / che non fossero versi, più acute e più crudeli?») e in Ricordando nel nuovo evo la zia Maria Fantato («Io sto ai margini e l’evo non m’inghiotte / nel suo avido imbuto»), avendo già riconosciuto in Lapidi per gli uccelli, IX, quale dono gli venisse, anche suo malgrado, dal non poter condividere il tempo degli altri: «Ma io non vado verso,» scriveva «io mi sono fermato, / per questo qualcosa riesco a vedere».
Ma rivolgiamoci senz’altro, concludendo, al poeta in italiano, e in particolare a quello di Santi di Dicembre e delle raccolte successive. Riprendiamo dunque da un passo già citato – l’affermazione che «il compito del poeta è oggi misurarsi con un limpido, saldo italiano della poesia» – e dall’individuazione del «problema fondamentale della poesia, soprattutto in Italia» nel «riuscire ad aggredire questa lingua sempre più logorata dall’uso che ne fanno i mass-media».43 Si tratta di una presa di posizione di per sé incontestabile (affine, fra l’altro, a quella di un compagno di strada come Giudici), nella quale indubbiamente ha insistito la forte «intenzionalità» (l’insieme, cioè, per usare una definizione d’autore, di «quei fatti […] che precedono la scrittura poetica, che sono squisitamente extra-testuali, anche se sono stati spesso alla base della necessità della poesia»).44 Ma sarebbe un errore credere di poter limitare a questa intenzionalità la quidditas della poesia italiana di Bandini. Essa consiste, pare a me, in una ineguagliata «pendolarità incessante» tra quella che egli, scrivendo su Meneghello, ha chiamato la «lingua sottostante» e i territori del logos.45 Questa pendolarità gli è permessa solo dall’italiano: non dal latino, né dal dialetto. Si sa quanto la poesia di Bandini sia legata all’uso della rima:
a un certo momento, nel corso del mio esercizio poetico, io ho detto che bisognava usare le rime. Perché la rima è fondamentale. Dà il senso dell’onore di chi ha scritto la poesia. Uno vede una poesia con le rime e dice: questo è un poeta degno di onore. Soprattutto se non scrive rime scontate, ma rime inedite e in ogni caso non usuali, e soprattutto precise, che non danno idea di costringere il poeta a groppi e nodi a causa della rima;46
né occorre dire quale fosse in lui la consapevolezza che l’associazione rimica veicola in poesia «l’irrazionalità, il non-senso, il casuale sovrapporsi delle entità»,47 che essa «fa improvvisamente avvertire parentele tra parole che nessuno avrebbe mai accostato fra loro».48 Ebbene, la rima, nella poesia italiana di Bandini (segnatamente in quella a partire da Santi di Dicembre, e anche in virtù delle sue peculiarità stilistiche),49 è il balenante affacciarsi dell’irrazionale entro una struttura linguistica in cui non viene mai meno la razionale volontà di classificare e di gerarchizzare il reale; cosicché la «lingua sottostante», quella dell’infanzia, può vivere nell’iniziativa pre-logica sviluppata dalla rima entro una lingua “adulta” che si esprime nella puritas sintattica e lessicale. Ho adottato la definizione bandiniana di «pendolarità», ma è forse di convivenza che si dovrebbe parlare: di quella condizione, cioè, che Édouard Pichon chiama «addizione delle possibilità», e che nella lettura di Georges Lapassade viene identificata con «l’Aufhebung hegeliana: un superamento che non è esattamente una soppressione ma essenzialmente una realizzazione che muove da ciò che è stato superato ed al tempo stesso conservato».50 Quello di Pichon è un adulto che rimane «saldamente radicato nella sua infanzia».51 È essenziale osservare che in Bandini questa convivenza di lingua dell’infanzia e lingua adulta si dà entro un corpus poetico che come nessun altro, nella poesia degli ultimi cinquant’anni, è caratterizzato tematicamente da una pendolarità mentale tra mondo dell’infanzia e mondo degli adulti, o, meglio, da una riflessione incessante sulle forme della compresenza delle età della vita, in una vicenda di agnizioni, recuperi e scoperte di cui il Bandini delle Quattordici poesie ci ha dato una straordinaria metafora in Denti. Riguardo a questo rapporto, è utile richiamare l’attenzione su due situazioni in cui l’implicazione di fatti linguistici e tematici mi pare più stretta; situazioni nelle quali – intendo dire – si può leggere una sorta di verbalizzazione, o narrazione, di ciò che la «lingua sottostante» fa, concretamente, entro il linguaggio poetico di Bandini. La prima mette in scena un riflesso istintivo di difesa e custodia di valori (con parole di Zanzotto, il volgersi all’infanzia «nello stupore che fonda il sempre nuovo sentirsi nuovi, aperti al trauma dell’ammirazione-angoscia, capaci di tutto riorganizzare intorno a un nucleo di risveglio che dà luogo al futuro, futurizza passato e presente rimovendoli da quella falda di coazione in cui tendono a ricadere e a raggelarsi»).52 È il caso, davvero esemplarmente, della Poesia per bambini, in Santi di Dicembre («Scappa, cuore di lepre! / Chi ha paura è veloce. / Non badare alla voce / dietro a te che ti grida di fermarti» ecc.). La seconda porta invece a rappresentazione un fondamentale antagonismo di valori, e dunque la contestazione e la rivolta: si veda Ricordando nel nuovo evo la zia Maria Fantato (in Dietro i cancelli e altrove), che comincia dal ricordo di un’antica ammonizione rivolta all’enfant terrible – «Con la spada di legno e la baùta / me ne stavo in agguato sul poggiolo, / e irritata la zia dalla cucina / mi gridava: “Bambino, non si sputa / in strada sulla testa / della gente che passa!”…» per giungere, infine, alla liberatoria infrazione del divieto: «mi apposto e (zia, ti chiedo scusa!) sputo / dalle finestre sui revers blu notte / dei loro bei cappotti di cachemire, sulle / spalline dai grillotti d’oro delle fanfare». Il sé bambino irrompe, presenza imprevista e salvifica, negandosi alla complicità con chi gli è costituzionalmente nemico; della guerra che egli conduce contro la condizione di morte-in-vita degli adulti si fa strumento (impareggiabilmente) la rima. Lo dice a chiare lettere Disgelo (in Santi di Dicembre):
E messa la parola fine
alle mie rabbie, sepolto il rancore,
sembrava così puro,
così calmo quel giorno di febbraio.
Stavo appoggiato al muro
sotto casa, si aprivano le nuvole
a un suono di campane.
Ma sempre qualcosa rimane
del nostro ieri: era ancora in assetto
di guerra la mia rima
svegliàtasi ai rintocchi del disgelo,
le gocce che spiovevano dal tetto
erano nate in cielo,
neve gonfia di vento, un mese prima.
Sono versi in cui Bandini proclama la piena coscienza dell’intempestività della propria poesia (egli parlava senza dubbio anche di sé affermando che «si scriveranno ancora poesie importanti, di cui si riconoscerà il peso dopo che saranno accadute»),53 ribadisce la convinzione della «continua processualità» (Bloch) del passato («Non si tratta di ritrovare il passato né di guardare il passato con lo sguardo degli eruditi o con l’atteggiamento dei conservatori. Ma solo di ricordare che il futuro è anche memoria»)54 e confessa «una gran nostalgia dell’agire».55 In questo nodo di significati è forse il dono maggiore che ci è offerto dalla sua poesia.