1
C’è in Italia una ditta che offre traslochi al paesaggio
e può essere chiamata a domicilio per telefono, il suo numero è sugli elenchi;
sua competenza disboscare località montane e marine
e sostituire al pino l’agave di cristallo e al faggio l’araucaria d’alluminio
(piante tropicali allevate nelle serre della speculazione edilizia).
Esse sono fornite di tutte le prerogative delle piante del nostro emisfero
ed emettono ossigeno di giorno e anidride carbonica la notte
e hanno un ciclo di circa vent’anni durante il quale effettuano la sintesi clorofilliana
combinando la luce solare con l’aria condizionata che scorre nelle intercapedini:
cosicché nelle celle nascono bambini dai visi paffuti e le madri invecchiano e diventano isteriche,
e nelle grigie giornate d’inverno i camini svettano e mormorano
e la collera del riscaldamento centrale sale con un rombo su per le strutture,
il cemento armato ha il suo primo attacco di arteriosclerosi e perde di elasticità,
nelle intercapedini la sintesi clorofilliana avviene sempre più di rado con sibili e incrinature negli sfiatatoi,
viene l’ora che la macchina strappa l’edificio dalle sue profonde radici
e un’altra araucaria d’alluminio, un’altra agave di vetro drizzano il loro fronte verso il sole
con celle dove nascono bambini, dove madri diventano isteriche, dove s’incrineranno gli sfiatatoi,
tutto si guasterà e verrà rigettato nel ciclo.
2
Un milione di cacciatori
hanno sterminato i pettirossi
colmandone i carnieri.
I concimi chimici hanno ucciso gl’insetti
fino all’ultima larva
sotto la foglia caduta dell’ultimo acero.
Ma i pettirossi si avvicinano fiduciosi alla casa
dell’uomo dove c’è un water-closet,
si avvicinano al mese dell’ultimo tuono.
E tutto rispunterà,
marciume di foglie e garrito,
dal velo delle piogge autunnali.
3
Ma intanto dalle Cevenne a Capo Passero rotola questo rullo d’imprese spinto da guastatori di giardini.
Uomini in cappello nero stampano ombre provvisorie sui prati,
piantano impalcature, fanno emboli controllando il bollettino dei valori dell’oro,
rubando ai figli dei figli il gusto della mela ranetta,
rubando a noi una parte dei giorni che avremmo potuto mordere incuranti dei cali di borsa,
noi fare case più giuste e città più trasparenti.
4
La natura non è innocente
(gli alberi, intendo, i cani e gl’insetti)
e neppure, s’intende, l’uomo.
Piuttosto che muoia un uomo è meglio uccidere un cane
ma c’incollerisce il pensiero
che dopo la nostra morte un ragno continuerà a vivere.
Per questo è meglio che il ragno resti schiacciato
dalla collera di una vecchia suola
che rischiare di morire prima del ragno.
C’è il suo rischio in ogni cosa ma le cose non muoiono,
muore soltanto chi crede nell’anima.
E chi crede di più, chi ama di più,
muore, è certo, di più.
5
La sola volta che uccidemmo un uomo
ci confessò di chiamarsi Hans,
di essere studente di economia
in una città della lega anseatica.
Cadevano le pigne con un tonfo sul muschio
e noi stringevamo nella mano il revolver.
Fu giustiziato da noi come spia
Hans che piangeva tutto sporco di polvere.
E lo sparo zittì le cavallette
e una striscia di sangue gli uscì dalla bocca
serpeggiando tra gli aghi dei pini.
Per questo usiamo troppe parentesi
e la mano indecisa non tocca
la maniglia della porta per aprire.
6
Scampò alla morte Samuele che nel Pequod strizzava lo spermaceti nel grande tino per renderlo fluido, e strizzando lo spermaceti stringeva le mani dei suoi simili, e nel profumo che si spandeva dalla tinozza non distingueva più l’inebriante sperma della balena dalle mani dei suoi simili, sognando una vita di quotidiani lavori come strizzare spermaceti, fabbricare tini, alla sera accendere la lampada, abitare una casa di pietra.
Quale spermaceti da strizzare ci hanno lasciato queste tinozze polverose e piene di ragnatele? È restata una balena sui mari? Dio gira ancora nei mondi per more? E c’è un Pequod per noi, un’alba col Pequod alla fonda?
7
Ci vorranno giorni e giorni per lavare questa colpa
che non è colpa né mia né tua
ma di chi diede gli ordini e di chi vi obbedì,
per tutto il fascismo che ci brulica sotto
come un formicaio nascosto dall’erba:
fascismo nell’occhio della quaglia tremante
e in quello del ragazzo che attraversa il grano.
8
Molti uomini che ti hanno conosciuto si dimenticheranno di te
ma la terra non può dimenticarti non avendoti mai conosciuto, essendo priva di occhi e di mani.
Tu solo dentro di te come un rotolo svolgi queste immagini di paesi rallentate dalla distanza degli anni,
con pezzi di pellicola bruciati da una luce violenta
per aver tenuto troppo aperto il diaframma dei sensi o del cuore.
Ti tendi e ti afflosci come la campanula presa per i capelli dal vento
nello sforzo di restare abbarbicato alla terra
e qualcosa si rompe in te,
qualcosa simile all’addome della campanula che, rinsecchito dal tempo, lascia cadere minuscoli semi;
e cadono i nostri semi di parole e di nervi che prolungano il mondo
e assicurano alla vita la sua eternità.
9
Da bambino, avendo commesso sacrilegio, essendomi accostato alla mensa eucaristica in peccato mortale
(per timore che non accostandomi alla mensa eucaristica il maestro capisse che ero in peccato mortale),
avendo commesso sacrilegio trascorrevo notti infelici e piene di paura
e aspettavo la fine del mondo (perché ero convinto che la fine del mondo fosse ormai prossima)
e prima di andare a letto spiavo le stelle, se ci fosse tra gli astri un indizio,
qualcosa come un tremore insolito nelle loro gocce di luce,
ma il cielo era lo stesso di mille anni fa, calmo, solenne, profondo,
non turbato come il mio cuore. E sotto le coperte io vegliavo, sicuro che ci fosse frode in quel cielo,
una cosmica malizia, e che la rovina inizierebbe d’improvviso come un temporale d’estate
quando non c’è pausa tra il primo tuono e la violenza dell’acquazzone;
ma poiché non c’era che quel silenzio senza scosse stavo attento alle voci dei passanti
e talvolta mi pareva che in quelle voci ci fosse uno spaventato stupore, mi pareva di udire delle grida
e tremavo sotto le lenzuola. Ora so che se il mondo finirà non sarà per il sacrilegio d’un bambino
e non sarà Dio a spaccarlo in due come un melone.
10
Il bambino dalmata
gridò «mamma»
e il suo grido era un ciottolo
che balzava sul mare.
Io, supino sulla roccia,
saltai su.
Ma il bambino era tranquillo
e non c’era donna tra gli scogli.
C’era solo
nella sacca senza vento di quell’aria
l’orizzonte tenero del mare.
C’era solo
il bambino dalmata
che si avvicinava sul suo sandolo
e tuffava
la pagaia nel mare.
Mamma a chi?
Alla nuvola? Alla terra?
Alla barca? Alla pagaia?
11
Eppure sono qui da tremila anni,
sono sicuro di aver già conosciuto il luccichio di queste barene
quando ancora il faro non trafiggeva col suo raggio la tenera farfalla della costa,
e sono sicuro di aver già letto questo strano alfabeto scritto lentamente sulla roccia dalle onde e dal vento
e aver già sentito questo odore di fritto uscire da una locanda per mercanti fenici
e aver provato il senso di unto che danno i nastri delle alghe quando si avvolgono alle dita dei piedi
(che forse allora non erano piedi e forse le alghe non erano alghe).
Coccinella che mi salivi dal calcagno su per la gamba
inerpicandoti in mezzo ai miei peli come in un prato d’erba,
eri tu la postina del tempo non ancora accaduto
o una borchia dell’antico volume che narra com’io rotolai tra gli scogli
alga, ostrica, pesce o legno di navi scomparse,
o goccia di sale che la maretta regalava alla spiaggia?
12
Ora smettila di piangere, cuoricino burroso, o ti chiamo l’uomo nero oppure Sanguineti,
l’uomo nero col sacco o Sanguineti con le sue parentesi che sono ferri chirurgici
utilissimi contro i capricci dei cuoricini burrosi, oppure ti chiamo
(peggio ancora) uno vestito da soldato tedesco e lo vesto con l’elmetto che arrugginisce in testa a uno spaventapasseri,
o lo vesto da parà o da aviatore americano che va a bombardare Hiroscima,
e se la prolungata abitudine non ti rende spaventosi i babau del presente
lo vesto da cavaliere teutonico, da inquisitore, da cosacco della Santa Alleanza.
Bada a te, se non la smetti di piangere, cuoricino burroso,
io ti faccio arrivare i marziani, io ti spiego il segreto dei quattro cavalli dell’Apocalisse,
io per castigo ti faccio leggere i romanzi dei cuoricini burrosi
che hanno impicciolito le selve trasformandole in giardini della ricordanza,
io più fastidioso di una lavagna raschiata ti cigolo dentro l’orecchio «oceano stella»,
e la galassia usata dalla fantascienza per spaventare i bambini
(i quali ignorano che una volta versava latte per le plaghe del cielo,
grande mammella che rassicurava le notti del mondo),
io te la metto sotto il naso, cuoricino burroso,
perché la smetta di frignare e ti rivolga alle cose importanti.
13
Per molti anni da bambino ho pensato a una dimensione diversa, vasta come un pianeta eppure raccolta dentro le pareti di casa.
Vi vivevano esseri in tutto simili a noi, con fauna, flora e nuvole,
e nei miei terrori notturni ho spesso sentito bisbigliare dentro le pareti e passi frusciare
e tremare ragnatele negli angoli, il situs tradire l’estranea presenza sotto la calce.
Dio, non bastava una scopa, non serviva uccidere il ragno,
non era sufficiente picchiare coi pugni sul muro perché se ne andassero,
e i miei genitori accorrevano, «cos’hai, di che cosa hai paura, vedi come tutto è normale», accendendo la luce,
ma come spiegare che quelli non erano dentro la stanza ma nelle pareti?
14
«Bitte, per favore, ragazzo
qual è la strada per Padova?»
mi chiese il soldato tedesco
alto sulla motocicletta.
Aveva foglie sopra l’elmetto
e il parabellum nero a tracolla.
Io dissi «di là» e indicai
il nord con la mano,
il nord fiorito di montagne azzurre.
Chi aveva preso la strada di casa
senza saperlo
io non lo vidi più,
ma per altri non ci furono orti di prugne
bensì pallottole aghi bastoni.
E piuttosto che torni la peste
è meglio dimenticare l’Ogino-Knaus
e fare tanti bambini.
15
Ma mia madre mi sveglia al mattino e dicendo che la valigia è pronta, che è settembre e le fucsie stanno sfiorendo,
sottintende che in cucina c’è il caffelatte, che fuori dai vetri c’è il sole, che nella strada ci sono automobili,
che in collina il gallo ha cantato mentre ancora dormivo cacciando i fantasmi notturni
col suo rauco chicchirichì come nell’inno d’Ambrogio.
E allora capisco com’è dolce questa polpa d’anguria del tempo in cui siamo alzati, com’è bello staccarla dalla scorza delle notti
badando a non ingoiare i semi, pulendola con la punta del coltello,
il tempo in cui siamo alzati (anche se il cuore continua a battere quando dormiamo),
pulendo la polpa dei giorni con la punta del coltello, seme per seme, intenzione per intenzione,
nella luce vigilante della sottesa coscienza.
16
Papà come spaccavi
l’anguria in due
con un colpo secco del tuo coltellaccio
non c’è più nessuno.
D’estate sotto la lampada
col succo che allagava la tavola.
Come dividevi la vita
tra bene e male
non c’è più nessuno.
Com’eri giusto a fare le parti
tra tutti noi
con un colpo secco del tuo coltellaccio
non c’è più nessuno.
Come ridevi e sputavi i semi
come ti liberavi di crucci e sconfitte
godendo solo del dolce
non c’è più nessuno.
17
Ci sono spiagge dove Arianna non potrebbe lamentarsi di Teseo che l’ha abbandonata,
spiagge per un’estate-albicocca con piedi bruni che si muovono su ghiaie di peppermint,
liberi di pensare al diluvio o all’ora del pranzo,
e la chiave della macchina è in camera sotto il cuscino assieme a un silenzioso scorpione,
l’alluminio resiste all’ossido e non fa tremare i grandi cristalli,
c’è soltanto l’esaltazione del corniolo che non paga posteggio
e il cicaleccio dei cardellini nella pineta in lite per quattro pignoli.
Il sangue non è acqua e si hanno erezioni di maschi per giovani donne
(voglio dire: torsi di maschi che spuntano ritti tra le rocce sonore)
e per fortuna l’acqua non è sangue ma soltanto idrogeno ossigeno e sali
altrimenti lambirebbe queste coscie ben levigate, ci sarebbero fortunali per quei ripidi dorsi.
Perciò l’estate-albicocca per molti è soltanto copula e conto d’albergo
e di quello che a noi ha confidato il garbino resta loro soltanto un sentore di salso tra i denti,
una formica dentro i vestiti, un ago di pino tra le lenzuola dell’ultimo sonno,
un’orma di catrame sotto il calcagno che nemmeno la nafta cancella.
18
Abbiamo corso da bambini la corsa dei sacchi
traballando goffi verso un traguardo di mele
e da grandi
con le gambe sciolte in apparenza
puntiamo ad altre mete,
ma nessuno di noi ha discusso la norma
che presiede alla corsa, nessuno
si è accorto, se non troppo tardi, che la legge era data,
che l’espansione dell’umano trovava confini
nei legislatori e nei prìncipi,
che un editto poteva esiliare
occhi castani o capelli biondi,
un piano mettere fine ai miosotidi;
anche se questo il poeta poteva:
chiudere in una bottiglia
il suo messaggio e lanciarlo al futuro
attraverso la lenta corrente degli anni;
anche se questo poteva: puntare al futuro
come a un traguardo di mele
correndo nel sacco delle sue parole,
sgambettando nella sua goffa prigione di iuta
in un mondo così veloce!
19
Ma come rendere più trasparente questa sacca d’aria dove viviamo?
Siamo dentro alle cose e con le cose e non c’è immagine senza le cose
e nessuna è sciolta né c’è possibilità di un loro riscatto senza l’animale politico.
Noi tendiamo allo schema e lo schema ci risponde come una lente incrinata
moltiplicando i petali del rododendro o rompendo in due la testa dell’uomo,
in ogni caso rubandoci pezzi di realtà che non ci riesce di mettere a fuoco.
Eppure lo schema è necessario all’animale politico
che soltanto può comporre il gioco di pazienza delle cose dentro le quali viviamo
e con le tessere colorate delle cose ricostruire il disegno dell’uomo,
ma lo schema significa perdere un milione d’impercettibili dati che fanno reale la nostra presenza
e ideologizzare significa perdere ancora natura,
e qui sta la crisi vivente negli occhi dell’uomo come nella pinna del pesce che di quegli occhi ha bisogno:
per liberare la natura è necessaria la storia
ma fare storia significa perdere ancora natura.
20
Per partito preso le fragole continuano a crescere e i frutti di rosa selvatica arrossano le siepi anche se nessuno li coglie.
Essere uomo significa essere urbano e dimenticare l’alone luminoso degli antichi pittori olandesi.
Noi avevamo portato una colazione al sacco per girare a lungo in metrò
e un libretto di devozioni per superare i posti di blocco del neocapitalismo
sognando impossibili salvezze in scapolari di foglie o in medagliette di nuvole,
prendendo i clacson per violini e le camicie da notte per pepli.
E tuttavia per partito preso il merlo torna a fischiare
e ci gabella il cemento per legno e la ninfomane per pastorella.
Ci si imbatte nella verità poche volte come, camminando scalzi, in un coccio tagliente.
Eppure per partito preso i settembrini fioriscono, si stringono l’uno all’altro come lana di un gregge
e quando tramontana li scuote contano sulle dita il numero giusto delle sillabe.
Io inganno gli altri oppure le cose ingannano me.
Ho una collezione di ombrelli ma da dieci anni non piove,
il mulino non c’è più e il vento continua a soffiare.