CHIERICO ROSSO
L’altoparlante a Palazzo Zileri
ci faceva di smalto
come l’antica Medusa. Fioriva
di tinnule bolle l’asfalto.
Sugli ombrelli che aprivano le ali
nella notte gonfia di ventate
scrosciavano le cifre clericali
delle circoscrizioni conquistate.
Allora fu, Galdino,
che un merlo (strepitava la grondaia)
si levò dal pubblico giardino
stordito da quel nastro di migliaia.
Il nero chierico alato
scrollò le goccioline dalle penne
e visitò le antenne
(croci sul tetto del devoto abitato).
Strana ombra al riflesso giallorosa
che fa cupola sopra la città,
l’uccello sbanda e nel cielo si sfa
come un’apparizione favolosa.
Ma io chierico rosso m’arrendo
sotto l’ombrello a collere sottili
e la burrasca fendo
che scuote gli angeli dei campanili.
MINOTAURO
Ora che il nuovo governo
muove i pezzi sulla scacchiera
accoppiando al cavallo bianco
la regina nera
(e ne nasce qualcosa
di giallo e di rosa,
mixtum genus prolesque biformis);
ora che il vento
impolvera di neve il davanzale
e tu indugi ai vetri e non dormi
ostinato a non farti mattare;
agita il fazzoletto dell’addio
e saluta le pedine del re
o il minotauro mangerà anche te:
avvocati e loro parcelle,
medici e loro barelle,
innocenti bambine dagli occhi
cattivi, sgualdrine
dallo sguardo dolcissimo:
e sua eccellenza il vescovo
appena congedato dal concilio,
col suo bel pastorale
dove splende un berillio.
OGNI GIORNO
Ogni giorno divento più pavido,
un forte raffreddore mi trattiene
e intanto gli altri (i miei colleghi) lodano
la famosa Rodi o Mitilene.
Vorrei uscire di casa e non posso,
vorrei curvare sulla terra il cielo,
vivere allegro come il pettirosso
che s’infischia del gelo.
Ma gli altri (i miei colleghi) stanno bene,
di soffici parole fanno sciarpe,
e ricevono in premio un paio di scarpe
per le loro lodi a Mitilene.
PASSIVO
Sono sempre in passivo, spendo troppo,
investo in luce, in neve,
in lacrime e sarcasmi.
Al cuore mal s’addice una politica
d’intempestivo rischio.
Ho posto somme sulla risalita
della cesena,
sulla rabbia del giusto,
sul carpine robusto che serenamente
aprirà le sue foglie nel sole.
E ora temo
il mancato pareggio con me stesso
e grido ansioso:
«Albero, fiorisci! Uomo, cresci!».
Ma già qualcuno calcola i miei debiti,
mi dichiara moroso,
prossimo al fallimento.
E a notte sento
nella goccia che stilla dalla gronda
la celesta della primavera,
e le voci che giungono col vento
mi dicono che l’uomo è pronto a rompere
il vecchio mondo.
Ma è segnata la data di scadenza
del mio impegno
con un segno blu sul calendario.
Vorrei che il tempo fosse più veloce
a produrre le attese realtà
e lo vorrei più lento per salvarmi
da privata rovina.
Vento che mi saccheggi stamattina
mentre cammino sulla pista gialla
che mi conduce al sizio quotidiano,
a quale umano
prestito mi sono rifiutato?
2 NOVEMBRE 1962
I puteli notturni
hanno sorvolato
(cavalcando le folaghe)
la base della Nato.
Luccicavano appena
tra nuvole di perla
e i rami dondolavano
nel tempo che s’inverna.
Armi qua e là
puntate verso il cielo!
I puteli fuggivano
al prossimo sfacelo.
E l’àlbera tremava
nei miei occhi e nel cuore.
Aver trent’anni e tanta
paura e disamore!
NEVE E TUONO
Di grande amore non siamo capaci,
di grande odio nemmeno.
Tra il sì e il no ronzano i pappataci
e anche stanotte non dormiremo.
La lotta esige parole vibrate,
succo di mela della realtà.
Un giorno il nemico mi renderà
la giovinezza che mi ha rubato.
Vorrei conoscere un tempo soltanto,
mia immobile sera,
quando sarò neve che si fonde
tuono di primavera.
CITTÀ-PIZIA
Non avevo una storia nel cuore,
dentro le ossa fuoco o rancore.
E camminavo con indolenza
per le sorde vie di Vicenza.
Ombre nel vento chiaro i colombi
remeggiavano a piccoli scoppi
d’ali. Fioriva la gialla forsizia
nei giardini della città-pizia
che rispondeva con sentenze oscure.
O mia città di puttane e di santi,
di stracci e di diamanti!
La foglia di platano amica del passero
tremerà lieta
quando ragazze in fiore
per festeggiare la tua libertà
scioglieranno le vesti di seta.
MIA MADRE CUCIVA TOMAIE
Mia madre cuciva tomaie
e poi le ribatteva col martello
e canticchiava:
Dove xe andato l’oseleto bello
che ciciolava dietro le passaie?
Fino alle tre vegliava
ed era estate e farfalle notturne
assalivano il lume sibilando.
Io nel mio letto
voltavo pagina e intanto
ascoltavo lo scatto della Singer.
E quando la notte si stinge
ai vetri delle finestre
mia madre smetteva di battere
e la se alzava con la schena a tochi,
vegliare fino alle tre per quei pochi
soldi e la mia Commedia commentata
da Sapegno.
Fosse fiorito il nostro secco legno
e povertà ci avesse consentito
di conversare!
No bisogna lassarse scoraiare,
doman xe festa, ’ndemo a magasini.
E andavamo la festa ai magazzini,
deserti casolari di campagna
annunciati da frasche sulle tegole,
e luccicava dentro i rossi vini
lo smeraldo dei pra’,
io lieve e distaccato
perché avevo studiato,
e le sorelle giovani a saltare
i covoni di fieno e le crosare.
Sedici anni, pungente carità!
Era caduta ormai
la carnale alleanza
alla quale mia madre mi avvinceva
nella sua gravidanza.
Era finita la sua protezione
sul gracile bambino
e il suo tenero infliggermi
l’oveto, la puntura, il mandarino.
E non aveva
in scarsela che poche palanche
e membra stanche a forza
di battere tomaie.
La me cusiva i gomi delle maie
ché nel mio sangue c’era un nuovo ardire
e faceva la lissia,
e non sapeva
che tagliato il cordone di letizia
che ci legava ai giorni dell’infanzia,
conquistare la propria anima d’uomo
significa ferire.
LE TEMIBILI COSE
Ecco le tristi penne sbigottite,
le cesoiuzze e il coltellin dolente.
E Bandini? Egli sente
le temibili cose apparse nel cuore.
Molti altri che avrebbero potuto
scelsero di tacere.
Come trascrivere il tema del merlo
in una terra di dure frontiere?
Ma lui correva a rompere il silenzio
in difesa d’una cadenza antica,
tramare versi, alzare una vescica
d’aria per bandiera.
QUARTO REICH
In Campo Marzo un settembre, o Hilde,
nello stupore dei lumi arancione,
io ti vidi uscire dal tendone
del circo Krone e ti sorpresi a ridere.
Il tenero lampo della nuca
doleva appena sotto lo chignon:
arrivavi altera da Bonn
dietro una nube di fine-estate.
Cicogna appollaiata sui nostri camini,
ti godevi il calore dei focolari.
Oh, come minacciavi i domestici lari
d’onorati e indifesi cittadini.
Muovevi con le anche l’azzurro della sera
e sulla tua gola furtivi correvano
ragni di sguardi, le mani scioglievano
in sogno il gancio della tua gheppiera.
In te viveva, eternato in nastrini,
nella soda ricchezza delle carni,
l’ostinato amore per le armi
e l’aggressività contro i vicini.
Ogni tuo passo era un colpo di spillo,
ogni tuo sguardo un forno crematorio.
Il Quarto Reich nasceva perentorio
con le tue mutandine per vessillo.
FARFALLE E VISCHIO
II càrpene sul pra’
se desmentega presto
dell’omo ch’è passà,
indigeno o foresto.
Resta farfalle ciare
sull’erba a farse vanto
e vischio da ciapare
il giovane saranto.
L’inverno viene presto
e nissùn savarà
se mi che son passà
so’ indigeno o foresto.