Neve e tuono

1962-1963

CHIERICO ROSSO

L’altoparlante a Palazzo Zileri

ci faceva di smalto

come l’antica Medusa. Fioriva

di tinnule bolle l’asfalto.

Sugli ombrelli che aprivano le ali

nella notte gonfia di ventate

scrosciavano le cifre clericali

delle circoscrizioni conquistate.

Allora fu, Galdino,

che un merlo (strepitava la grondaia)

si levò dal pubblico giardino

stordito da quel nastro di migliaia.

Il nero chierico alato

scrollò le goccioline dalle penne

e visitò le antenne

(croci sul tetto del devoto abitato).

Strana ombra al riflesso giallorosa

che fa cupola sopra la città,

l’uccello sbanda e nel cielo si sfa

come un’apparizione favolosa.

Ma io chierico rosso m’arrendo

sotto l’ombrello a collere sottili

e la burrasca fendo

che scuote gli angeli dei campanili.

MINOTAURO

Ora che il nuovo governo

muove i pezzi sulla scacchiera

accoppiando al cavallo bianco

la regina nera

(e ne nasce qualcosa

di giallo e di rosa,

mixtum genus prolesque biformis);

ora che il vento

impolvera di neve il davanzale

e tu indugi ai vetri e non dormi

ostinato a non farti mattare;

agita il fazzoletto dell’addio

e saluta le pedine del re

o il minotauro mangerà anche te:

avvocati e loro parcelle,

medici e loro barelle,

innocenti bambine dagli occhi

cattivi, sgualdrine

dallo sguardo dolcissimo:

e sua eccellenza il vescovo

appena congedato dal concilio,

col suo bel pastorale

dove splende un berillio.

OGNI GIORNO

Ogni giorno divento più pavido,

un forte raffreddore mi trattiene

e intanto gli altri (i miei colleghi) lodano

la famosa Rodi o Mitilene.

Vorrei uscire di casa e non posso,

vorrei curvare sulla terra il cielo,

vivere allegro come il pettirosso

che s’infischia del gelo.

Ma gli altri (i miei colleghi) stanno bene,

di soffici parole fanno sciarpe,

e ricevono in premio un paio di scarpe

per le loro lodi a Mitilene.

PASSIVO

Sono sempre in passivo, spendo troppo,

investo in luce, in neve,

in lacrime e sarcasmi.

Al cuore mal s’addice una politica

d’intempestivo rischio.

Ho posto somme sulla risalita

della cesena,

sulla rabbia del giusto,

sul carpine robusto che serenamente

aprirà le sue foglie nel sole.

E ora temo

il mancato pareggio con me stesso

e grido ansioso:

«Albero, fiorisci! Uomo, cresci!».

Ma già qualcuno calcola i miei debiti,

mi dichiara moroso,

prossimo al fallimento.

E a notte sento

nella goccia che stilla dalla gronda

la celesta della primavera,

e le voci che giungono col vento

mi dicono che l’uomo è pronto a rompere

il vecchio mondo.

Ma è segnata la data di scadenza

del mio impegno

con un segno blu sul calendario.

Vorrei che il tempo fosse più veloce

a produrre le attese realtà

e lo vorrei più lento per salvarmi

da privata rovina.

Vento che mi saccheggi stamattina

mentre cammino sulla pista gialla

che mi conduce al sizio quotidiano,

a quale umano

prestito mi sono rifiutato?

2 NOVEMBRE 1962

I puteli notturni

hanno sorvolato

(cavalcando le folaghe)

la base della Nato.

Luccicavano appena

tra nuvole di perla

e i rami dondolavano

nel tempo che s’inverna.

Armi qua e là

puntate verso il cielo!

I puteli fuggivano

al prossimo sfacelo.

E l’àlbera tremava

nei miei occhi e nel cuore.

Aver trent’anni e tanta

paura e disamore!

NEVE E TUONO

Di grande amore non siamo capaci,

di grande odio nemmeno.

Tra il sì e il no ronzano i pappataci

e anche stanotte non dormiremo.

La lotta esige parole vibrate,

succo di mela della realtà.

Un giorno il nemico mi renderà

la giovinezza che mi ha rubato.

Vorrei conoscere un tempo soltanto,

mia immobile sera,

quando sarò neve che si fonde

tuono di primavera.

CITTÀ-PIZIA

Non avevo una storia nel cuore,

dentro le ossa fuoco o rancore.

E camminavo con indolenza

per le sorde vie di Vicenza.

Ombre nel vento chiaro i colombi

remeggiavano a piccoli scoppi

d’ali. Fioriva la gialla forsizia

nei giardini della città-pizia

che rispondeva con sentenze oscure.

O mia città di puttane e di santi,

di stracci e di diamanti!

La foglia di platano amica del passero

tremerà lieta

quando ragazze in fiore

per festeggiare la tua libertà

scioglieranno le vesti di seta.

MIA MADRE CUCIVA TOMAIE

Mia madre cuciva tomaie

e poi le ribatteva col martello

e canticchiava:

Dove xe andato l’oseleto bello

che ciciolava dietro le passaie?

Fino alle tre vegliava

ed era estate e farfalle notturne

assalivano il lume sibilando.

Io nel mio letto

voltavo pagina e intanto

ascoltavo lo scatto della Singer.

E quando la notte si stinge

ai vetri delle finestre

mia madre smetteva di battere

e la se alzava con la schena a tochi,

vegliare fino alle tre per quei pochi

soldi e la mia Commedia commentata

da Sapegno.

Fosse fiorito il nostro secco legno

e povertà ci avesse consentito

di conversare!

No bisogna lassarse scoraiare,

doman xe festa, ’ndemo a magasini.

E andavamo la festa ai magazzini,

deserti casolari di campagna

annunciati da frasche sulle tegole,

e luccicava dentro i rossi vini

lo smeraldo dei pra’,

io lieve e distaccato

perché avevo studiato,

e le sorelle giovani a saltare

i covoni di fieno e le crosare.

Sedici anni, pungente carità!

Era caduta ormai

la carnale alleanza

alla quale mia madre mi avvinceva

nella sua gravidanza.

Era finita la sua protezione

sul gracile bambino

e il suo tenero infliggermi

l’oveto, la puntura, il mandarino.

E non aveva

in scarsela che poche palanche

e membra stanche a forza

di battere tomaie.

La me cusiva i gomi delle maie

ché nel mio sangue c’era un nuovo ardire

e faceva la lissia,

e non sapeva

che tagliato il cordone di letizia

che ci legava ai giorni dell’infanzia,

conquistare la propria anima d’uomo

significa ferire.

LE TEMIBILI COSE

Ecco le tristi penne sbigottite,

le cesoiuzze e il coltellin dolente.

E Bandini? Egli sente

le temibili cose apparse nel cuore.

Molti altri che avrebbero potuto

scelsero di tacere.

Come trascrivere il tema del merlo

in una terra di dure frontiere?

Ma lui correva a rompere il silenzio

in difesa d’una cadenza antica,

tramare versi, alzare una vescica

d’aria per bandiera.

QUARTO REICH

In Campo Marzo un settembre, o Hilde,

nello stupore dei lumi arancione,

io ti vidi uscire dal tendone

del circo Krone e ti sorpresi a ridere.

Il tenero lampo della nuca

doleva appena sotto lo chignon:

arrivavi altera da Bonn

dietro una nube di fine-estate.

Cicogna appollaiata sui nostri camini,

ti godevi il calore dei focolari.

Oh, come minacciavi i domestici lari

d’onorati e indifesi cittadini.

Muovevi con le anche l’azzurro della sera

e sulla tua gola furtivi correvano

ragni di sguardi, le mani scioglievano

in sogno il gancio della tua gheppiera.

In te viveva, eternato in nastrini,

nella soda ricchezza delle carni,

l’ostinato amore per le armi

e l’aggressività contro i vicini.

Ogni tuo passo era un colpo di spillo,

ogni tuo sguardo un forno crematorio.

Il Quarto Reich nasceva perentorio

con le tue mutandine per vessillo.

FARFALLE E VISCHIO

II càrpene sul pra’

se desmentega presto

dell’omo ch’è passà,

indigeno o foresto.

Resta farfalle ciare

sull’erba a farse vanto

e vischio da ciapare

il giovane saranto.

L’inverno viene presto

e nissùn savarà

se mi che son passà

so’ indigeno o foresto.