I
O mia terribile città se un giorno
quando l’ultimo nudo di una donna
svanisce e non più giovane
il sangue diventa grumoso e si placa,
non ci farà più sfuggire al guardingo
occhio dei prìncipi un amplesso o un bacio
e le mazze ferrate delle guardie
si abbatteranno sulla nostra porta,
allora
avrò perso le penne come il tordo in autunno
sarò del tutto muto.
II
Ma il codazzo satellite dei prìncipi
quante volte l’ho sentito con voci rauche mormorare: «Aznèciv è nostra»
aprendosi coi gomiti la strada tra la folla, schiaffeggiando con sdegno i mangiatori di fagioli, i puzzoni.
Quante volte li ho visti, deliziati inquilini di nubi, godersi gli agi nelle loro torri di vetro,
scendendone a volte per sorridere al vescovo che applica due dita alla guancia del loro bambino
miles Christi con futuro conto in banca.
Eccoli tutti qui a pretendere il nostro quadrifoglio trovato in Campo Marzio e messo a seccare nelle Massime Eterne:
quelli che parlano nel sonno del problema dei costi e il borbottio si propaga nel silenzio dei nuovi quartieri
e cadono dal letto con un tonfo felici di non essere morti;
quelli che mandano i figli all’alta scuola di management del MIT e i figli tornano a casa vestiti da managers e diventano dirigenti d’azienda che ancora non gli tira l’uccello;
quelli che spronando il cavallo a fianco di femmine ipertrofiche – frustino ben stretto, occhio da frosone ubriaco di sorbo – inseguono una coda spelacchiata di volpe confondendo vita con polvere;
quelli che hanno abbandonato la città troppo stretta per le loro dottissime natiche e insegnano filologia chichingica a Koenisberg
e ti mandano l’estratto di un articolo apparso sulla «Kikingische Philologische Zeitschrift»
accompagnato da un biglietto che ribadisce essere la cattedra evento centrale del cosmo…
Eccoli qui: il poeta della Controriforma che fulmina in epodi i luterani del nord piangendo sulle tette di Cristina di Svezia
il boia che trita il cuore del crimine e ne fa un pastoncino per i suoi usignoli,
i costruttori di Wolkenkuckuckshaus che costruiscono intere periferie con gli involucri già contenenti il denaro spalmato sui crani dell’Ufficio Tecnico,
tutti insieme con voci rauche mormorare: «Aznèciv è nostra».
E intanto i prìncipi passavano indenni attraverso il tunnel di tante fioriture e burrasche
da morte a morte tramandando cipiglio e sorriso, e noi da vita a vita continuando a servire.
III
Qui dove dorme il Folengo il convento è una rotta bicocca con tabacco legato in pacchi di foglie
e nella chiesa sconsacrata starnuto tra nuvolette di polvere
o forse è colpa del gelo, della neve che imbianca la costa lasciando nera la rupe.
Silenzio di vecchie tombe, incenso del ’500 rappreso alle travi,
tramontana che trapassa il saio dei frati defunti esponendoli ai rigori del tempo.
E la bella Cipàda? Dove sono finiti i suoi stormi, i suoi variegati clamori?
Per quel poco che ricordo gl’inverni laggiù avevano del fumo azzurro ai camini
e un poco di sole bastava perché sotto il ghiaccio si svegliassero le salamandre.
Fisso nella penombra gli occhi del topo di chiavica che sale traballando dagl’inferi
e «dimmi» gli chiedo «di frate Teofilo, se ha trovato pace laggiù nella casa dei morti».
Santa ingenuità. Ci vuol altra scintilla per rompere il muro di sorda materia contro cui la parola sgrigiolando si spegne:
esametri sonori, espressioni di plebe sposate a una lingua sublime (come il latino)
e la grassa fratesca risata che compromette il Capitolo.
Solo l’eresia ha una lingua così chiara che la intendono anche i bambini
ma si copre le spalle con qualche vetusto terrore (come il latino) per imitare l’orco e le fate.
Un continente è nato su strati di lava sgorgata da un camino di glosse sapienti
per la collera stolta di qualche Zambello convinto mangiatore di merda,
e io la mia lingua grigia per quali inverni la serbo, per quale corsa sul ghiaccio coi pattini?
Fiii! non riesco più nemmeno a fischiare ingoiando due dita per un fischio d’appello
e – a un chilometro forse – stanno uccidendo il maiale e il suo grido arriva fin qua
in tempo d’Avvento, promessa di sontuose salsicce a Natale.
Fammi arrivare, frate,
post Ganger, Mardach, Nitron, post Napsu vel Albar, post Pu, Giràpiron, Licomedon, Ilfil, Oriza,
fammi arrivare alla pura sostanza, al verbitrium lapidem dei filosofi antichi
e alla semplicità nella neve della tua sepoltura.
IV
Siete arrivati con barche al crepuscolo
da ville remote
da portici cavi nel chiaro di luna
brandendo fiaccole
che al vento si sfanno come tuorli d’uova
lasciando le rustiche paci: pane
di forno che semina stelle di crosta
fruscio di bachi e scialo di chiocce;
fino al ligneo vascello di vie, fino a Tebe
città di Beotia e sede d’Imperio
e all’urlo di Edipo
che fuori dal cerchio di fiamma si schiaccia
gli occhi come due more. Ma io
non ho occhi che per Bianca Angaràn,
e il suo gemito sale
dalle profondità che calpestiamo,
da dove a marzo sgorga
la clematide a coppe come un’eco
di antiche fioriture.
Ma voi arrivati da colture magnifiche
da riposi accidiosi che la storia non scuote,
signori fuggiti dal nucleo della città delle opere
per calcolo o viltà
con scope di rami rovesciate il terriccio
trafelati raspate coi piedi ogni traccia
del suo passaggio in terra.
E noi abbiamo cercato i semi
della sua fede che il Magagnò
ha detto bianca come il fiore di spino,
ma voi stracciate documenti gettandoli
nel gorgo dei canali
perché l’acqua cancelli l’inchiostro del suo nome,
ipocriti scrittori di storia patria, sinistri
flauti di oblio.
E noi volevamo restare quassù
allodole sospese nel cielo immoto negando
d’essere parte in causa,
se non fosse che un vuoto d’aria un turgido
batticuore ci faceva cadere.
V
Quanti anni avevo quando attraversammo
la foresta nel millecinquecentotrenta
sulla berlina cigolante
(e la notte vibrava
d’ombre e foglie attraverso l’oblò)?
All’arrivo il braccio di mio padre
era ormai duro come il suo bastone,
la pelle di mia madre buona ormai
per i marocchini dei vostri codici.
Il mio vestito di velluto verde
in fiocchi si sfaldava e polvere.
Alla Porta vedemmo illuminata
la finestra di torre (connestabile
Marcantonio Maganza). Ci scuoteva
un rullo di tamburi lontanante
lungo la passerella delle mura.
«Perché non provi a dormire, Fernando?»,
mi sussurrava una voce. Nero
nel suo mantello il cocchiere tentava
di piegare alle briglie vento e tenebre.
Ma già il gufo canuto torna ai rami
che varchiamo da morti.
I Signori si svegliano aspettando
il primo chiaro nelle calde camere.
Oh, non allontanatevi sentinelle,
passi marziali di un’alba perduta.
È vano il nostro inferno di quaggiù se qualcuno
là nella dolce luce non ci vendica.
VI
E sventolanti immagino, o città
bandiere sui tuoi tetti, in sogno ascolto
suoni di corno in via Catena e il murmure
della burrasca che dilava le
statue e i passanti in fuga.
Oppure ti contemplo mentre cade
dal cielo basso un’invernale manna
rendendo calma e candida e compatta
l’aerea inafferrabile realtà
del tuo essere, del tuo provocarci.
Allora esco dalla nebulosa
delle mie mentali creazioni,
ricevi l’orma della mia scarpa, il pugno
come una palla di neve ti comprime.