SPIAGGIA RIVISITATA
Senza sonno, dai capezzoli turgidi
o bruna Clori, o spiaggia che rivisito,
movimento beato rotto da un fioco murmure
e alla foce del fiume in lontananza
il ronzio d’una barca
nell’opaco dell’acqua, il fuoco fatuo
della luna a sommo dell’antenna.
Come per un naufragio
si arena in queste rive lo stellato
capovolto, la mano
che brancica il tuo corpo tenta ancora di stringersi
ai scivolosi appigli della realtà.
Quando lo svasso si alzava in volo
puntando il collo
e tutto era leggero, così leggero
che anche la schiuma poteva librarsi
nell’aria come un pulviscolo d’atomi,
che febbrile impazienza nelle mie
orme stampate sulla spiaggia vuota,
quanti scoppi di penne tra gli anfratti
della scogliera erta.
Ora la sabbia è terra del mio sepolcro.
Come pesa il mio corpo, come il cuore
batte implacato!
AMNESIA
Giorno per giorno qualche nome si eclissa
dalla mia lingua e dalla mia memoria,
usuali parole come sedia bottiglia.
Oh, trafelate corse per riprenderne
possesso! Annaspo naufrago
in un mondo che sempre più smarrisce
i suoi eoni, balbetto
come Mosè presso il roveto ardente.
E con nervoso tremito pronuncio
casa farfalla mela
per esorcizzare la buia notte
che si avanza a gran passi;
ma poi casa precipita, farfalla
si polverizza in porpora,
mela mi è tolta divorata dal verme
che abita il mio cervello.
Come mi muoverò, poeta senza
gli amati nomi succo delle cose,
tra i buchi d’un saccheggiato universo?
E NON IL FLAUTO DI PAN
E non il flauto di Pan nel profondo
pomeriggio assolato quando la penombra
della mia casa era una bolla di elastica
freschezza nello spazio arso dell’afa ma
gli sciacquoni dei cessi;
in un andirivieni di vicini
(sempre a me sconosciuti) dalla camera al bagno
mentre un poco dormivo e un poco deliravo
per un mio sogno d’occhi verde-giada,
nudo fantasma
nella fragile bolla che si librava
a un filo d’aria entrato dalle oblique
liste delle persiane su per la nebulosa
del caldo estivo, riflettendo del mondo
l’apparenza di un’iride.
O suono di flauto che non ho udito perché
(o seni dolci, o delicato pube!)
nella bolla soffiata da amore, caldo e lacrime
gli sciacquoni dei cessi penetravano
come un tuono.
ARS POETICA
C’è una poesia non ancora scritta
che nascerà da sedimentazione
di vite numerose
e sarà un corallo da incastonare
nella giustezza della riga-verso
per qualche nuovo, mai tentato lavoro
di bellezza in parole.
Una poesia non scritta
alla quale non aprirò mai
precocemente il cuore con scritture
simili a reti per neonata, stese
nei noviluni d’inverno:
quando migliaia di anguille bambine
nuotano attorte in lunghi cordoni
brulicanti sott’acqua infilandosi
in trappole notturne.
Il futuro non è da catturare
quando è ancora bambino (o ancora feto).
Nell’immaturità dei corpi informe
alita il sogno, la pinna si confonde
col dente, il desiderio con la morte.
Devo lasciarti crescere, futuro,
perché tu possa accomunare in te
le movenze del pesce e del serpente.
Quando sarai diventato
anguilla adulta e avrai la coda duttile
come una frusta, allora le mie mani
non riusciranno forse a trattenere
la tua forza selvatica
e sguscerai con uno
scatto dei muscoli dalle mie dita.
MAI PER OFFESA
Così, liofilizzando il mondo,
precipitandolo in polveri
da sciogliere in tazza, cammini
con un carico
leggero di sintetici fantasmi.
Ma dietro a te stanno anni di lenta
combustione, di notti
estive che attraversa come un allarme
un profumo di anguria;
c’è una città meschina ora tranquilla
che un giorno fu una selva di clamori
per il tuo cuore in collera.
Quello che allora eri non c’è più,
non un pezzetto d’anima e di carne;
solo il passato rimormora come
un rombo che risale dalla tromba
delle scale che hai fatto
e ti rintrona nelle orecchie, urge
i tuoi passi.
Mai per offesa fatta o ricevuta,
nel tempo della giovinezza
s’impara come prendere possesso
della realtà: l’amaro
trasuda un poco dalla scorza verde
dei rami nuovi ed evapora al sole.
Ma quando nel diamante dei tuoi giorni
si sono accumulati visi e visi
in rifratti bagliori
e tu difendi il tuo occhio d’un tempo
contro il dissipato brulichio
che ti sbanda e ti svena,
cosa resta? La morte personale
cui offrire il tuo dono?
O la vita degli altri che si aspettano
da te più di quello che puoi?
MEGLIO LA POLVERE
Non più grattacieli nel quadro
azzurro della sera alzano fronti
superbe, ornate di lumi arancione.
La terra è andata in pezzi. Sulla palta
emergono le rocce del quaternario
scuotendo dalle spalle la foresta.
Del corpo esploso rotolano le parti
nello spazio, informi pianetoidi.
Superstiti divisi dall’abisso
lanciamo appelli, curvi su freddi tasti,
dall’uno all’altro frantume tra i ruderi
delle città crollate.
Avete bambini? Fiori?
O già l’involucro degli alchechengi
è scoppiato come la membrana
degli occhi umani?
Il vostro mangianastri esegue ancora
il concerto numero due di Brahms
in questi rapidi tramonti, amari
come un vino bevuto tra le lacrime?
Meglio la polvere che questi irti
spuntoni di mondo che il gelo
dell’universo leviga.
OSSIDO NELL’OTTONE
Gli atti da lei compiuti lunedì
nell’imminenza del fatto
risultano all’indagine innocenti;
ma il sospetto permane
e la testa che gira a vuoto cerca
puntelli nell’intuito. Lei chiusa in camera
proprio nel cuore del
guardatissimo luogo del delitto
tra telefoni e armadi sigillati
dagli agenti, apre furtiva il plico
arancione trovato in biblioteca
dentro Murder as one of the Fine Arts
scorrendo ansiosamente il primo foglio
d’un memoriale anonimo. La pioggia
imita un suono di passi, propone
raggelanti se pur non immediate
minacce.
Ma dopo che la mano omicida
colpisce la seconda volta e strangola
la ragazza sola nella sua camera
al primo piano (scricchiolano le scale
per questo su e giù d’investigatori
di familiari spaventati e in lacrime),
cos’è stato il sospetto
che filava la bava del suo bozzolo
se non accidioso rancore
e silenziosa designazione
della prossima vittima? Ora stingono
per l’indifesa fragilità dei corpi
le smaltate apparenze, la rara
tappezzeria rivela macchie d’unto,
i cristalli invidiati hanno crepe
sottili che ne incrinano la luce
e qua e là c’è ossido nell’ottone
lucente delle maniglie e dei corrimano.
Le gronde esposte a tramontana gemono
al vento come la carta
velina dei sassofoni-giocattolo.
Elementare, caro Watson: il mostro
era nel nostro cuore; lo alimentano
i lamponi colti in giardino, il the
che beviamo in salotto mentre l’ombra
del crepuscolo adagio si condensa
come una panna. Chi sarà scampato
alla fine? Dal piano di sopra
il cadavere incombe sulla nostra
angosciata imperizia,
già ventiquattro ore preziose sono
scivolate nell’eternità.
QUESTO GIORGIONE
Questo Giorgione non è
lo stesso che credevo di conoscere:
tiene d’occhio i celesti perduto
in un suo sogno nebuloso ma il mio
guardava da viandante lungo un cammino
tutto terrestre;
non aveva bisogno di cifre
riservate e sottili (né polverosi libri
gl’ingombravano il cuore)
per conoscere belve, acque, castelli.
L’erba voleva essere erba e il viso
restare viso contro
gli acidi dotti che ne fanno simbolo
saccheggiando la linfa degli esseri,
negando la concreta apparizione
dei corpi e delle cose.
Fu così forte il suo sguardo nel
fissare il mondo, così dolce a dirimere
la sempre aperta furia del creato
e talmente lampante il suo gesto
da rifiutare di credergli, scendere
sottoterra cercando vene d’un
suo cavernoso discorso nascosto
da quelle belle figure che troppo
accecano la nostra debolezza?
Fitta è nel nostro secolo
l’attività poliziesca sull’anima,
costante l’esercizio del sospetto
e un’astronave in fondo alla galassia
vedrà meno cose di quante
brulicano tra noi. Ma guarda attentamente
la Venere di Dresda e dimmi
se il piccolo solco che scende
dalla valle dei seni all’ombelico
è un canale di sensi altri od esiste
per se stesso. Chi cerca
nuovi mostri nell’acqua del Tramonto
confonde sera con inferno, Giorgione
con Gòrgone,
non vede come un’aria azzurra avvolge
il paese e fa muro
contro l’insidia di quei sogni, contro
i fantasmi notturni esorcizzati
ormai dal cuore in attesa del sonno.
Lo so, tu punti le tue lucide canne
di cacciatore di arcani
su di me, goffo tordo chioccolante
con le sue piume crociane tra i lembi
(che ne impacciano il volo)
della salsapariglia, dimentico
della scuola di Warburg. Ma cos’è
la Tempesta se non un esercizio
sulla natura e l’attimo del lampo?
C’è chi s’impegna in più calmi bagliori,
punta a climi più assorti e acquisibili
all’umano tripoter. Ma lui
non ha intinto il pennello nel colore
che già si è spento il suo soggetto: eppure
a lungo resta nella sua memoria
come un alone
e imbianca le pareti delle case.
E la calma solenne,
la ieraticità delle figure
sulle opposte rive del fiume è il segno
del suo verbo trasparente: tremano
alle loro spalle le fondamenta
del cielo ma il soldato quasi sorride,
guarda la donna che allatta e la donna
guarda noi da quel livido, profondo
universo di nubi e di fulmini;
come la Leni di Böll guardava
(desiderosa pupilla tra cupi
oscuramenti e rapidi baleni)
il prigioniero russo nei giorni d’ira
che fortezze volanti bombardavano
le città lungo il Reno.
E la visione attraverso quegli occhi
dilata in splendore la sua ombra,
la sua dolcezza di giacigli erbosi.
LA MANTIDE E LA CITTÀ
Nel folto del vaso d’agèrato
dai duri gambi e dai vertici azzurri
sta la mantide sottosopra, appesa
con un solo sperone ad uno stelo.
Il corpo che abbandona
verso il basso la testa piatta e occhiuta
dorme in apnea tra i fiori.
Tenendo alzati i femori
delle zampe anteriori con le tibie
ripiegate, lei mima
l’attitudine orante che la fa
bestia sacra nel verde della clamide.
Prega guardando la terra,
non la volta celeste che marcisce
sopra il terrazzo nell’imminenza
dell’autunno. La terra concimata
con fondi di caffè
tracima agli orli dove la parete
dell’edificio cade.
E lei discesa da non so che zona
di nuvole e di oscure
copulazioni, immobile (ma dorme
o in quell’immobilità sta fremendo
nella pazienza dell’agguato?) non
rivela un solo palpito.
Se la tocco con un fuscello accenna
appena a un lieve fastidio, le antenne
come sottili bilancieri tremano.
Tu, città, dal profondo
ti rizzi in piedi, aneli
alla tua parte di grazia. Impennandoti
in compagnia degli angeli che soffiano
trombe sugl’irti campanili, tenti
di spingerti a livello del terrazzo
verso la religione della mantide
così alta sul vuoto.
Quale nervoso auto-da-fé percorre
le tue statue, i tuoi embrici?
Non movimento ma interno abbandono
è il mistico segreto della mantide.
Così lenta a fuggire
quando è insidiata, goffa per l’enormità
delle zampe, come
tutti i contemplativi che non sanno
restituire i colpi, essere astuti
nelle risse terrene,
teme, s’acquatta
appannando il verdino del suo corpo
con quello delle foglie.
E come un piccolo battacchio, a un filo
di vento oscilla e segue
afona un suono di campane a stormo
nell’aria del tramonto.
Così, seguace del principio della
non-resistenza al male,
oppone sonno al risveglio dei lampi
che stracciano la tela della sera,
le mani giunte nel gesto terrifico
esorcizzatore degli eventi,
e più che morte finge l’inanimato
silenzio della giada.
Ma tu, città, arrossando
nello smorzarsi della folgore,
ti rannicchi in te stessa, rabbrividisci,
freni il tuo slancio.
Vantati pure dei tuoi Loyola
e dei tuoi Bellarmino,
respira i tuoi meravigliosi incensi
fino alla tosse, non c’è niente in te
di così grande come la sua calma
venefica e mortale.
Santa Teresa dei più dolci e funebri
connubi (quelle zampe
devote nello stringersi in preghiera
scarnificano prede)
durante un’avida fecondazione
ha mangiato lo sposo
con dionisiaco fervore e spesso
dei micidiali femori spinati,
dopo un pasto di ditteri,
fa pettini per rassettarsi il capo
assorta in un’incongrua vanità.
E le leggende recitano come
ai viandanti nelle selve oscure
o ai bambini smarriti dentro le
metropolitane, quelle zampe
hanno indicato la diritta strada
(Pollicini del mondo senza ghiaia
nelle tasche) e non thànatos
era il traguardo ma la calda fiamma
della casa lontana.
Perché dunque si muove
la mantide? Vuol forse nelle prossime
ombre dell’universo dileguarsi,
lasciarci soli sul terrazzo sopra
i crocevia dubbiosi che giù ronzano
d’auto tra i primi fari?
Rampica i fitti capolini azzurri
e li discende dall’esterno fino
ai confini del vaso. Il corpo lungo
e snello eretto sul
prototorace per un attimo pencola
sopra l’abisso. Oh, troppo ricco l’empito
delle cose che ha dentro perché possano
sproporzionate ali reggerne il peso.
Chi ascolta le profonde
implosioni dell’anima, chi scava
le miniere del cuore,
sa quanto sia temibile l’urbana
forza di gravità.
Piomba la mantide
sul marciapiede dopo un volo malcerto
e tu, città, non ridere di questo
limite all’infinito, negazione
della leggerezza del sublime.
ESCE STANOTTE
Esce stanotte lo scorpione da sotto
il buio acquaio, morbido minaccia
la casa col silenzio delle chele
e a brevi scatti muove sulla traccia
d’una preda tra briciole di biscotto
e titillanti insidie di ragnatele.
Il tic tac della goccia dal rubinetto
malchiuso. Un po’ di lume nella penombra
della cucina dove un bricco insorge,
presenza blu sulla tavola sgombra
che col suo smalto di gelido oggetto
rinfaccia ai vivi animali la morte
in questa primavera di piogge a raffiche
di violette spezzate, ora che fondo
è il nostro sonno e sbendano il prigioniero.
(Spento il fragore delle armi automatiche
che hanno annientato la scorta ascolto
le curve chele mordere nel nero.)
PLAZER
In quest’azzurro di settembre che si dilata
oltre i confini dei miei occhi verso
regioni dove non arriverò mai
ci sono chicchi d’uva che altre bocche
schiacceranno tra i denti ignorando
questo mio torrido angolo di sete.
In quell’altrove fiori d’ombra sbadigliano
alla sera di un’isola abitata
da corpi adolescenti di Nausicae.
Non le vedrò dal mio raro trifoglio:
creste in fiore riarse dalla polvere
grucce al riposo di magre locuste.
Oltre i confini dei miei occhi il mondo
per qualche nuova sua intenzione scalpita
che io non so né mi restano giorni
per saperne di più. La notte penso
di là dalle mie tenebre a una Circe
che si cala nel balsamo del mare.