IL RITORNO DELLA COMETA
1
Sono qui nell’ombra declinante degli anni
e leggo sui giornali che sta per arrivare
la cometa di Halley.
Pochi la vedono due volte, c’è
chi nasce dopo il suo passaggio e muore
prima del suo ritorno.
Il suo corno è puntato
verso un futuro che precipita subito
in sale di memorie.
Si rituffava in quella sua
intervallata lunga oscurità
e già l’infanzia dei padri sbiadiva
nei deboli contrasti di una pellicola muta.
Gli uccelli e le cicale
non ricordano niente delle stelle:
per becchi per èlitre
il tempo è una borra di primavere morte.
La fuga indecifrabile delle stagioni terrestri
si fissa in rughe umane.
Da ragazzo ho seguito Gordon Pym
fino all’imbuto bianco che lo inghiotte.
Adesso è tutto conosciuto, tutto
già scritto. Solo il cielo resta chiuso
nei suoi sette sigilli.
2
Sulla soglia ho parlato col geco trasparente
acquattato sul muro nei pressi della lampada:
raccontava invasioni di càrabi,
uragani tra grandi felci arboree
(niente di tutto questo in Livio o in Michelet).
Sulla soglia ho aspettato amori che non ritornano,
ora aspetto una stella.
Come quando a gennaio il calicanthus
fiorisce in secchi rami
e la neve è piena di stupore
per quell’intempestiva primavera,
così stupisce il tempo umano e dubita
di sé, della sua storia
quando si schiude la cometa
nel freddo inverno dei cieli,
pendola che misura
col suo lento oscillare la nostra vanità.
Voi che l’avete vista da Ur dei Caldei
o dalle ziqqurat di Babilonia,
se poteste prestarmi un po’ dello spavento
del vostro sguardo!
Alcuni di noi sono giunti da Ebron
scampati al diluvio,
altri discendono da azzurre valanghe
e un re venetico marchia il loro cuore
della taccia di servi.
Liberi o no, destinati a brevissima
vita o a calma vecchiaia,
bravi a fare aquiloni o così poveri
da non poter comprare carta velina e stecche,
frangendo con le dita il nodo di una zolla
o fiutando l’odore di spazzature urbane,
quanti milioni di visi sconosciuti
dentro il numero esiguo delle sue orbite!
3
Il più antico profumo che ricordo
della mia infanzia è l’uvaspina:
ce n’è tutto un cielo nel folto di una siepe
e di là dalla siepe un cane latra.
La rosa del tempo si apre e si gualcisce,
solo la mente è chiara come fosse ancora mattina.
Perso l’erbario e la magia che aleggiava
intorno alla lunaria,
finiti chissà dove
gli amati francobolli della Repubblica Armena,
un’altera sovrana mi guarda dal passato
specchiata negli smalti di un palazzo del Tauro,
calcola la distanza tra noi due ricordando nazioni
da cui esule è il sole su cui sventolano
vessilli di silenzio.
Ma tu chicco lucido e teso col segno dei meridiani,
mia piccola stella uvaspina
sorvegliata da Cerbero,
che hai per notte l’intrico di rametti e di fronde,
era bello schiacciarti tra i denti,
chicco aspro mio astro ora immerso nell’oscurità
che sembri così remoto e solo a poca distanza
dalle mie spalle sei svanito.
4
Adesso aspetto l’altra
stella mai vista
che per la prima volta e l’ultima vedrò
mentre respiro l’aria dei viventi,
l’altra che aveva il nido nella nube di Oort,
deposito celeste per canuti frammenti
di gelo e fuoco
catturata (per sempre?) al nostro sole
nei primordi del mondo,
e penso a quest’azzurra pausa in cui siamo bocche
che sorridono e parlano,
così breve che a stento la sfiorano
due furtivi passaggi di cometa.
O grillotalpa uscito dal cuore della terra
mentre bambino camminavo nei campi!
Strillavo di paura
davanti alla cornuta deità
che annaspava in un goffo movimento
verso i miei piedi, certo per recare
un messaggio degl’Inferi… Così
non dalle altezze viene la cometa di Halley
bensì dal basso e da un sidereo Tartaro.
Il tempo è un grande albero: quaggiù
ne vediamo spuntare e cadere le foglie
ma dentro i cieli è la radice oscura.
5
Ebbe in sorte due luci.
Fu buona la granita al tamarindo
dei suoi quindici anni
dopo tanti mesi di equazioni a due incognite,
di lamenti di Ovidio dal Ponto.
E tutte quelle facce rivolte all’insù
nella gran piazza, verso l’orologio
della torre e la tenebra viola
che dietro la sua cuspide si apriva,
dove l’astro di Halley spargeva
il suo fragile lampo di ghiaccio tritato.
Ma dopo appena sette anni
facce affondate nel muschio e nel fango
di un distrutto paradiso di fragole,
petti che premono la terra
con la paura che gli scoppi il cuore.
E quella fu la sua seconda luce:
il secco lampo dello shrapnel
che gli trafisse gli occhi.
6
Ma la nonna paterna
(mai conosciuta, mai vista
nemmeno in fotografia),
la nonna Celeste Serravalle
di Modigliana in una vigna dove
è sepolto un tesoro,
discendente da ebrei battezzati
talmente poveri
da non poter restare fedeli a Mosè
(come acclara quel nome Celeste
tramandato di figlia in figlia
che dissuggella preclusi paradisi
e rimprovera a Israele l’eccessivo
attaccamento ai beni della terra);
la nonna Celeste Serravalle
una sera d’estate nel cortile oltre il quale
c’è la sua vigna dove tutti dicono
sia sepolto un tesoro,
guarda le stelle, apre la bocca: «Qui
cresce soltanto l’erba che si chiama appetito»…
Un treno della notte li trasporta,
uno di quei treni che a metà
tra valli e luna echeggiano
lungo il fioco Appennino.
Migrano verso l’anno della cometa,
verso cieli più alti e più bianchi:
donne, bambini assonnati, uomini
che sulla pelle si portano dietro
il colore del campo.
Li aspetta un Nord di guglie sacre, tetti
ripidi e selve,
la stella vagabonda vi scuoterà
la sua porpora di boreale vanessa
dopo crepuscoli lunghi che sempre
meravigliano le povere cene.
Xiphias, la cometa a forma di spada
di cui racconta Flavio,
avvolge altare e tempio del suo bianco splendore,
gli Zeloti modellano le armi
sulla sua lama abbagliante. Non lei,
nonna smarrita nella nera selva
delle parole gotiche, che parla
un dialetto di sassi e di duri sarmenti:
il suo rivolgersi al Dio degli Eserciti
equivale a un sospiro, il suo cruccio
è una spada di legno che non spaventa i prìncipi.
Nonna col nome
della Gerusalemme che i poeti
vedono in sogno.
7
Padre nostro, se sei tu
che covi le uova celesti
da cui spuntano i mondi,
ed è tua figlia questa cometa
che prolunga la sua morte e rompe il guscio
del firmamento, squittisce le sue miche
di rimasuglio d’astro,
come può l’ala corta della mente
tener dietro al senso dell’universo
senza che tu ti sveli?
È breve il passo tra la vita e il niente
di noi mortali, ma lunga la rotta
di questo involucro di stelle.
Insegnaci allora a drizzare
il collo al pane degli angeli
(se c’è quel pane), unisci nel tuo uno
ciò che il tempo divide:
la luce e l’ombra,
la veglia e il sonno, l’amore e il disamore.
Sento solo la voce di mio padre nel vuoto,
tornano dall’azzurro le postille
del suo viso bambino, lo vedo
che guarda la cometa varcando la Porta
di Freiburg im Breisgau, seduto
sopra un carro di luppolo. Ma tu,
Padre nostro, se sei nei cieli,
se vuoi che sia santo il tuo nome,
manda una stella ad annunciare il Regno,
si accenda il suo fulgore
in cielo e nei nostri occhi sulla terra.
Dacci la nostra parte di quotidiana pace,
condonaci il dovere di esserti grati
come facciamo noi
con quelli che ci devono gratitudine.
E non c’indurre nella tentazione
di rinunciare a vivere
per paura dell’eternità.