Tornando alle cave di pietra

GATTI DI GUERRA

I gatti che ho amato

adesso dove sono, in che tranquillo Eliso

o miagolante Averno?

Il Rossetto fuggito da una pioggia

di spezzoni incendiari.

Attraversò la notte

lungo vie che stormivano di fuochi

con due zampine rotte,

il pelo bruciacchiato, un occhio penzoloni.

Io gli feci un giaciglio con cartoni

del Pastificio Cielo Corrado & Santi

e vi morì.

E l’altro gatto del Quarantacinque,

ma ne ho scordato il nome:

un gatto delicatamente pingue,

sempre di buona luna,

che graffiò per la strada senza alcuna

ragione gli stivali di uno sbalordito

Feldwebel della Wehrmacht. Aveva il manto

tigrato, una stellina di giglio

proprio in mezzo alla fronte.

Lo attesi invano un giorno. Sarà finito

all’Osteria del Guanto

che esponeva in perpetuo la scritta: «Oggi coniglio».

E anche la bambina di gattesca sostanza

che andava a scuola di danza

dalla signora Vanna Busolini,

soprannominata Micia per il berretto

di siamese.

Lei faceva paura a più di un mio compagno

perché aveva i due occhi

di diverso colore come Alessandro Magno:

in uno c’era il nero di un clarinetto

nell’altro il dolce lampo del turchese.

(Viene la prima carie e il cuore

impara a dir bugie.

Ma tutto allora – quando sapeva odore

di pirite e di fosforo –

tornava ad inverarsi

dopo il sonno interrotto dalle sirene.

Non avevo paura delle bombe.

Il dente-di-leone sulle tombe

dei miei gatti

continuava a fiorire.)

La sola volta che ci stendemmo insieme

la Micia e io col viso dentro l’erba

freddolina di marzo,

fu quando scese

fischiando il Lightning dalla doppia coda.

Le scivolò il berretto dalla tasca

del paltoncino blu mentre le prime

raffiche superavano la proda

del campo e i pioppi, verso

una blindata sagoma fuggiasca.

Raccolse il suo berretto, fu presto in piedi,

alta su me, quasi appoggiata al cielo,

e in quel cielo l’eclissi

del sole declinante preso da un cirro

di nerofumo. «Torna sull’erba», dissi.

Lei non rispose.

Ma tutte queste cose dove sono

adesso – in paradiso, all’inferno?

PER UN’AQUILEGIA CHE CAMBIA COLORE

Cammino sotto polverosi portici.

Il vento delle nuove primavere

incontra vuoti i nidi delle rondini.

Qua e là apre una porta

la memoria, s’inerpica per ripide

scale, stretta a ringhiere

traballanti che ronzano nel buio.

Eone

delle mie vane collere

e del mio sordo amore per te, città,

un’altra età

si è dissolta, nell’aria rimane

un fioco aroma di caffè tostato.

Splende lo stesso azzurro sulle altane

e nei giardini l’aquilegia è in fiore

ma è cambiato il colore dei suoi petali.

L’iniziale passione

si è indurita nell’osso

dell’uomo adulto, si è ghiacciata in pensiero.

È scomparso il dio occulto

di Vicolo Cieco Retrone:

un’ombra che tremava nell’acqua dello squero.

Era la nostra via Paal, vi arrivavo

di corsa trafelato

nel primo pomeriggio sonnolento,

e un giorno il dio si travestì da vento

e geloso si prese il mio berretto

regalandolo al fiume.

Adesso torno e aspetto

invano: non c’è uno ch’io riconosca,

qualcuno uscito dalla tomba

di quelle nostre infanzie

che mi regali il suo smunto sorriso.

Chi gli ha messo nella bara le arance?

Chi ha suonato la tromba

perché gli angeli aprissero al piccolo defunto

il paradiso?

Sorda città sepolta,

esci dai corridoi della memoria

dove ti lagni e brancoli.

Snòdati nella luce col mio passo,

batti assieme al mio cuore stanco muscolo.

Con le mie orecchie ascolta

il tordo che si sgola in Contrà Piàncoli

da una gabbia affacciata sul rombo del crepuscolo.

Sì, scorgo quel bagliore a me nemico

che il bel celeste in lontananza strazia,

nasce un tempo diverso e al mio s’oppone.

Ma vedi le vestigia

del mio disperso eone

nel calice-sizìgia d’uno di tra quei fiori

che serba macchie del colore antico!

Era il viola una volta, ora la porpora.

Sopraggiungono altri alle mie spalle

con passi più leggeri

e guardano stupiti

il dubbio che trapela dai miei atti.

Qui io e loro, sullo stesso stelo

del secolo che muore –

ma essi oppongono al cielo sbiadito del mio ieri

i loro nuovi petali scarlatti.

E mi fermo in un angolo di sole,

fisso il suo fuoco

riverberato in un lontano vetro.

Non ho nulla da aggiungere a quel poco

che ho fatto, sono parte

di ciò che cambia anche se resto indietro.

E quella Storia ormai, che prigioniero

nella tua gabbia,

declamavo con rabbia con insensato cuore,

è qui trascesa. Non cercherò il suo segno

nel teatro di legno del tuo gemellaggio

con la città di Tebe,

dove vedevo ogni settembre Pound

(quello che macinò più d’ogni altro

grano di Storia sotto la sua mola)

e nei suoi occhi, pigre

azzurre cavità,

c’era il silenzio freddo della tigre,

non portavano scritta una parola.

VERSI SCRITTI DURANTE LE FESTE DI NATALE DEL 1989

O 1989,

anno di calcinacci,

eccoti questi stracci

in dono. È quanto adesso ci rimane

delle bandiere dell’anno passato.

Ma prima che tu rotoli

dentro qualche discarica-gehenna

donami in cambio il crollo senza suono

delle tue frane,

ch’io lo regali, strenna

di Natale, a chi amo,

ai vivi, ai morti, a chi non è ancor nato.

Non cade solo un muro, muore un lungo

Da-sein, il teso

elastico del secolo si spezza,

molti cuori si afflosciano.

C’è ancora chi si abbarbica all’altezza

del proprio sogno, chi dentro le spire

del suo drago mentale si dibatte,

ma non può risarcire

anni di lunga innamorata rabbia.

Ti prego, dunque, vàttene

da me, fede in astratti

esorbitanti veri,

che anch’io non abbia

l’orgoglio per onore,

la pietà di me stesso per amore

verso gli altri;

perché dèmoni scaltri

irretiscono con stupendi inganni

l’anima stanca e nobile dei vecchi.

Ma tu, anno che scoppi e non dài suono

se non dentro di noi,

dimmi perché mi cedono i ginocchi

davanti a questa vacuità del tempo

in cui sospeso è il mondo,

e ancora sbatto gli occhi

quando già si è smorzato il tuo bagliore:

gelida bianca luce di una breve

implosione che inghiotte fino in fondo

il collasso e il silenzio.

Dimmi se il cielo cova

una nuova cometa per il viaggio

di nuovi Re,

se dobbiamo aspettarli – io che aspettavo

Natale, la sua aureola

di lumi e la sua pace,

e ho visto solo te

spargere intorno la tua fredda brace,

sola bianca meteora

di un inverno che passa senza neve.

FRAMMENTO DI CORO PER UN “EDIPO”

Hai rotto il guscio dell’oscurità,

hai ripercorso il labirinto

dei vicoli finché sei giunto ai platani

nell’indolenza mattutina.

E dietro te c’è un murmure di giorni

che dal passato ti pedina:

uguali e chiari

con rari eventi di tempesta.

Si spegne e fumiga ai balconi

la luminaria della festa,

nell’O del Campo Marzio il rullo

cancella l’orma degli zoccoli

dei pony.

Adesso quel fanciullo

che vaga sulla proda erbosa

tra i resti delle mura e il fiume

è giunto dalle torri

di vetro e di cemento che tu scorgi

in lontananza, alte e corruscanti.

Ti mostra un fiore che ha trovato

ma non risponde al tuo sorriso.

Confonde forse il fiore del narciso

che spunta in riva al Bacchiglione

con quello mesto del Cefiso?

Perché le cupe facce assorte

dei barcaioli

dal lungo remo, in piedi sulle barche?

È dunque vero che la narke, ètimo

del nome di quel fiore,

è il sonno fitto come morte?

Un altro fiore nelle verdi conche

dei colli sboccia, il croco, quello che Persefone

coglieva e non sentiva Ade

muggire dentro il cuore della terra.

Vi sboccia il boreale

astratto calicanto dopo la bufera

di neve, fiore a te fraterno,

e in basso la città scintilla dalla spera

dei giorni, immersa nel suo bianco inverno.

Il fioco rombo

degli anni, i temporali

non hanno spento il tuo fervore.

Ancora ai colli sali

con non placato cuore,

ai boschi dell’età perduta.

D’inverno il cielo

si sfalda in nevi cristalline,

a luglio la cicuta

spossata d’afa piega contro le rovine

il sommo dello stelo.

Finché stasera mentre torni,

stagliata nella luce del tramonto

ti muove incontro l’ombra di qualcuno

e riconosci al tremolio

del vivo alone che la cinge

l’antica sagoma del dio,

il Mai-mutato, l’Uno

che non fa uso di parole

ma dal barbàglio delle cose attinge

il senso della tua Colono,

e avanza verso te con alle spalle il tuono

che rotola nel sole…

TORNANDO ALLE CAVE DI PIETRA DOPO PIÙ DI TRENT’ANNI

Scoscesa ripa, quanto fu diverso

da come lo aspettavo ogni domani.

Adesso so che il corso degli eventi

lo sbanda un girotondo di burrasche

ignare della prognosi e insolenti,

che non si cambia il mondo

da soli con la testa o col fervore

dei vent’anni.

Ma io

non ho chiesto conforto per i miei

cocenti disinganni

a nebulosi dei,

non ho dato la colpa all’ignoranza

della massa,

non ho affogato dentro una melassa

vischiosa di parole

la paura del senso, del suo volto

di Medusa.

Invoco la mia musa e sottovento

tonfi di mine esplodono nell’aria.

Amo queste rovine

buone da macinare e far cemento

per altri sogni.

E tu che in fondo al cuore mi risuoni

come un monotono scacciapensieri,

non darmi tregua,

deh, non tacere, mio sventato ieri!