Giano bifronte

LIMBO

Un temporale avanza

nel cielo di smalto antico.

E alzandosi in piedi

dall’erba (dove giaceva

spossato sotto una pianta

di fico) Alessandro Magno

si riatteggia

a dignità dopo tanta

afa.

Ma il ragno

che tesse la tela

tra due rami e ne fa la sua reggia,

il suo tremulo trono,

non ha paura del tuono

che salta come un impàla

da nube a nube? Perché

si cala sulla fronte del re

ornata di riccioli

con nervose zampine? Presume

sia dono degno di prìncipi

un filo di fioca bava?

TERRIBILE COME

Terribile come

il battito

delle tempie dentro gli orecchi

è discendere in te,

un oscuro rintocco

di secchi

che sbattono sulle pareti

del pozzo.

Come sotto terra il singhiozzo

d’un fiore

bloccato da una roccia,

il furore

di un vino esaltato

che si sforza con ogni sua goccia

di far saltare le doghe.

Come il frenetico

sbatter d’ali d’una farfalla

prigioniera della melassa,

lo spavento del naufrago alla

deriva nella galassia

che grida Mayday! Mayday!

e più non ricorda il suo nome.

BRIXEN

Va veloce fiaccando

i miei garretti infermi

l’angelo, e dopo avermi

superato di quasi cento metri

di colpo ecco si arresta,

gira la testa sotto il cielo stravolto

dal temporale. Vedo che da laggiù

mi fa dei gesti, con la mano accenna

a un’aiola di tulipani.

Corro

per raggiungerlo. Tu, Margret, sibilla

di questi luoghi, spiegami gli enigmi

scritti sopra le foglie

prese nei vortici del vento. Dimmi

cos’ha: se lo spaventa l’improvviso

rombo del fiume in piena contro la chiusa

o nell’abisso del niente s’inoltra.

Dio! la sua mente è una cavità morta!

Lo ha impietrito Medusa!

GIANO BIFRONTE

Lui non ha mai diviso

presente da passato.

Perché dietro il suo viso

non c’è nuca ma un altro viso ancora.

Segue senza girarsi il lungo volo

del falco pellegrino dall’aurora

fino al ponente che si oscura, dove

farà il suo nido

in dirupi o su rocche.

Non esiste per lui scoscendimento

fra il prima e il dopo, gli esce da due bocche

un solo occhiuto grido.

INTERVENTO

La porticina che cautamente aprirono

sul cervello bacato

mostrò un corridoietto illuminato

di abbagliante sapienza appena dietro

il vaso delle meningi.

E poco più lontano

grumi in forma di sfingi

su grigie arene posavano zampe

dalle venuzze viola-tulipano.

Computer dell’Olimpo, congegno strano

del dio che fece

dalla sua testa nascere Minerva,

ora assemblaggio di reti e di rampe

ardue e viscose che un poco si snerva

sotto i ferri chirurgici.

INTERNO CON UN DORMIENTE E UNA BAMBOLA

La bambola che con pupille fosche

di minaccia ed arcane

lo sogguarda dall’angolo non ha

denti né sesso.

Sul davanzale – dietro

la mussola ingiallita della tenda –

il fiore del piretro

tiene lontane dal suo ronfo sommesso

le eventuali mosche.

OGGETTI SMARRITI

I watt non si ricordano

dei vecchi lumi a petrolio

o delle lampade a gas,

è svanito dai loro occhi l’in-folio

dei Racconti di fate di Perrault

con le Figure del Doré.

Dicembre

più non appanna con le sue galaverne

la casa sfavillante

di queste asettiche sere –

come una volta i miei cupi collegi

scarsi di luce ma sonori d’echi,

dove teste pelate bambine

recitavano in coro preghiere

aguzzando le ciglia sui caratteri regi

delle Massime Eterne.

Il libro di devozioni

l’ho perso, mi è uscito di tasca

tornando per una vacanza

una sera sotto Natale.

Ero sceso dal treno e correvo

per evitare

il buio dei coprifuochi

di guerra, ormai ero a pochi

isolati da casa.

Ma più non ho fatto ritorno

dopo aver letto

sul grande in-folio un giorno

tetro d’inverno

(che bisognava

per leggere avvicinarsi

al balenio del camino)

la fiaba di Pollicino.

Il mio doppio ormai stinto

è rinchiuso laggiù dentro una cellula

temporalesca del ’44,

si dibatte

negl’intrichi di un bosco-labirinto.

E le uncinate bràttee

dei fiori della bardana

si attaccano ai suoi capelli,

al suo pullover di lana.

MARTIN MUMA

Troppo torbido il tempo

che mi è toccato vivere, gli spazi

dove vengo rapito,

fragile foglia, sono troppo grandi!

Dovrò tenere come Martin Muma

un peso nella tasca

perché non sbandi

a ogni minimo accenno di burrasca

il mio discorso,

non lo arrappi la torma

di questi nembi agli ordini di una truce ventessa

che fanno ressa

all’uscita del secolo che muore;

mettere ai versi il morso

di qualche rima, fare della norma

la sorella del cuore.

POESIA PER BAMBINI

Scappa, cuore di lepre!

Chi ha paura è veloce.

Non badare alla voce

dietro a te che ti grida di fermarti.

Ti vogliono rubare

il fiore che hai dipinto coi pastelli

sul quaderno a quadretti.

Sono uomini stretti al proprio odore,

donne che tra i capelli

hanno vipere a guisa di forcine.

Ma io vi dico, bambini e bambine,

non lasciatevi prendere, scappate!

stringendo tra le dita

le matite regalo delle fate

finché la mano sanguina.

DISGELO

E messa la parola fine

alle mie rabbie, sepolto il rancore,

sembrava così puro,

così calmo quel giorno di febbraio.

Stavo appoggiato al muro

sotto casa, si aprivano le nuvole

a un suono di campane.

Ma sempre qualcosa rimane

del nostro ieri: era ancora in assetto

di guerra la mia rima

svegliàtasi ai rintocchi del disgelo,

le gocce che spiovevano dal tetto

erano nate in cielo,

neve gonfia di vento, un mese prima.

LE CIMICI VERDI

Ecco novembre: e tu non le sopporti

le foglie che si ammucchiano negli orti

della collina.

Ti spaventano i globi

dei cachi, apparsi in mezzo a nudi rami.

Fai la valigia in fretta, appendi ai lobi

degli orecchi i pendenti di zircone.

Non sai cosa ti perdi: l’invasione

di casa mia

da parte – mentre il sole è in agonia –

delle cimici verdi.

La Palomena pràsina, la graveolente ingorda

fitòfaga rimasta senza cibo

manda avanti guardinghe esploratrici

prima dell’orda.

Una plana improvvisa sulla pagina

che sto leggendo (incerto su un aoristo)

dell’Anabasi, libro IV, e brancica

tra le gelide nevi dell’Armenia.

Un’altra si è imboscata nell’organza

della tenda e segnala con le antenne

alle sorelle

dell’albero di fronte i miei presunti xenia:

qualche vaso di fucsie, il comfort della stanza.

Eccole pronte – elitre alzate, tese

le ali – al breve volo.

Io corro alle difese

ma quando chiudo i vetri è troppo tardi.

Infantilmente tremo

e non oso schiacciarle. Finché muore

il giorno, la parete

si abbuia e loro sono là schierate.

Poi si diramano, occupano ogni angolo

della casa, protette dalla notte…

Voi dove siete andate,

care voci alloglotte

che una volta sentivo

parlare dalla cavità dei muri?

Voci di Veneti, di Celti o Cimbri

che risalivano fioche dai limbi

del tempo. Adesso s’incrinano i marmi

degli archi, la città si sfalda

sotto la pioggia come un vecchio amore.

Serro il cuore alla puzza delle cimici

e dei giorni. Vorrei addormentarmi

con dentro gli occhi Aznèciv

e le sue belle estati

da rincorrere lungo solitari

terreni incolti azzurri di borragine

e giardini murati dove il vento

entrava a spettinare i fiori

delle catalpe.

Ma c’è soltanto sotto le mie palpebre

la brulicante immagine

delle cimici, il loro osceno, lento

zampettio nelle tenebre.

IL BORSELLO

E giro per le strade

con un borsello

pieno di carabattole e di voglia

di restar vivo.

Alcune delle cose

che ho dentro al mio borsello qui le scrivo:

una vecchia moneta dissepolta

vangando l’orto,

una splendida piuma blu-cobalto

di un martin pescatore

trovato in terra morto.

Un cartoccetto di lazze corniole

che allappano il palato e per parare

le angosce una pastiglia di bromuro.

Un minuscolo sole

di ricambio se il cielo si fa scuro.

BALLATA PER DUE SABATI

I fiori gialli dei topinambùr

te li ricordi, e il Clain, lenta riviera?

Quel pomeriggio andammo a vedere Ben Hur

e quando uscimmo calava la sera.

In alto un’ala, forse di un airone

cenerino virava verso l’Île

du Pré-l’Abbesse, e c’era quella pioggia sottile

sulle foglie del verde settentrione.

Tu addestrata al deserto ne gioivi

e sognando un Poitou d’acque e di brume

nel folto intrico dei topinambùr ti aprivi

un varco verso il mormorio del fiume.

O calde spalle, o lunga treccia viva!

Si sentiva suonare una campana

da un ignoto sobborgo oltre l’opposta riva.

Armaghedon ancora era lontana.

«Sono adultera» bisbigliasti «come

Betsabea.» Ma io non ero un re

e i fiori intorno a noi non avevano nome,

come il fiore di campo del salmo 103.

Ad El Ghor ti rividi, Betsabea;

là non c’è pioggia che l’arsura plachi.

Arrivavo da Ebron con una rosa tea

che ti appuntasti sulla blusa kaki,

e portavi i capelli corti, arsi

dal sole della guerra del Kippur.

Ci amammo sulla sabbia, ma non fu come amarsi

tra i fiori gialli dei topinambùr.