L’ALTA COSA
Il cervo volante che invano
avevamo inseguito nel crepuscolo
in piazzetta Gualdi, adesso sulla traccia
dell’ultima luce planava
dentro il cedro del Libano già oscuro.
Io dormivo, la faccia
rivolta verso il muro.
O fiore della dalia
piegato sotto un carico di grazia,
aria estiva che spazia
in orti circondati da alte case,
neri camini al lume della luna!
Ho accumulato tempo, non saggezza,
ma ho intrecciato negli anni trame e orditi
di sensi e di parole, ne ho fatto la mia pelle;
anche se l’alta cosa che mi ammalia,
l’alta idea che ha un mondano profumo di violetta
(proibito dirne il nome!) ancora non si svela.
Ma la felicità fu breve come
un passaggio di brezza.
Bei monti della sera! Azzurra era l’Italia
e il Veneto una plaga di usignoli romiti.
E io dormivo, ragno che alle stelle
si appende con un filo di vertigine e aspetta
l’alba aggrappato a una celeste tela.
LE POIANE
Andavo come vanno tutti i corpi
umani: in fondo all’aria, rasoterra.
E lassù tre poiane volteggiavano
in cerchio, oblique e livide,
scrutandoci dall’alto
con l’occhietto rapace che riflette l’abisso
nello smalto dell’iride.
Pellegrino che cerca la sua pace
calpestavo la strada polverosa
che porta alla collina.
Già calava la sera,
e mi feriva il cuore
quel bagliore superstite dell’azzurro che incrina,
come sempre in quest’ora, l’amicizia
della terra col cielo. Oh, chi rimane
solo, in cammino, nella zona d’ombra!
Come sollecita il suo passo e spera
che quel resto di giorno gli conceda
l’ultimo adempimento!
Ma la luce era solo
per quelle tre poiane
che lentamente, tese
le ali nel crepuscolo ed estranee
al brulichìo del mondo se non per farne preda,
ruotavano sul perno alto del vento.
RISVEGLI
Mia età di nuove brame
e batticuori scoscesi, che avesti
in sorte il blu d’una finestra aperta
sull’estate e su notti senza vento!
E ti svegliava l’improvvisa allerta
delle sirene,
il rombo delle Superfortress
in arrivo da calme anse celesti.
Non si può accendere la luce: prima
bisogna alzarsi e chiudere i balconi,
che non trapeli anche un indizio solo
della nostra esistenza al nemico che in volo
scruta dall’alto questo buio ancora
arrochito dal sonno.
E io, ragazzo
di scarna e mesta faccia,
che mi ero visto in sogno
come un lupatto in fuga al quale davano
la caccia,
io dal cuore indolente ma fornito per correre
di garretti e di nervi,
alzavo il capo dal guanciale e udivo
suonare undici tocchi
dalla chiesa dei Servi,
e già c’era a Vicenza
eco di crolli e un lampeggiante incendio
ad est come un’aurora.
Qualche notte anche adesso al solitario
rumore di un velivolo mi sveglio,
spio la calma degli astri come allora,
io che quegli anni dell’adolescenza
ho attraversato
col fiato ansante senza
prendervi mai dimora.
L’USIGNOLO DI ERONE
Un giorno io mi tolsi
da quell’antico stile di belle febbri effimere
e di stregato battere dei polsi.
E quante controversie tra l’istinto e la norma
ho dovuto dirimere,
quanto ho fornito di ragioni il cuore
senza contropartita!
Ora conosco
solo una lingua cauta che non tollera
le lusinghe dell’ombra ma si ritrae romita
nell’atelier di un operoso dire
dove brillanta il suo diamante greggio.
Ero uccello di bosco, ora assomiglio
all’usignolo-automa di Erone che in sé fonde
la meccanica e l’essere: gorgheggio
soltanto se animato da una carica
di memorie, di lacrime o di collera.
NIMBORUM IN PATRIAM
Si scrolla al vento il verde
della collina
rotolando dai centonovantadue
gradini della scalinata
neoclassica che rampica lo scosceso pendio.
Il nostro cuore è arreso
al volere di Dio
e si rassegna a questa abominanda
patria dei nembi. Ma qualcuno perde
la memoria, domanda
ai passanti se sanno dove sia la sua casa.
E il nero evento, che da un’ora intasa
i valichi lontani delle Prealpi in fondo
all’inquieta pianura,
sarà tra poco sulle nostre teste.
Fugge a volo il bupreste dai vivai
di Porta Monte,
le elitre di fragile rossazzurra chitina
che sbandano nell’aria.
Finché dall’orizzonte
giunge un soffio più forte, dice che è già vicina
la collera celeste.
Come tremano i platani di Viale
Margherita e le acace della riviera!
Sul campanile di Santa Caterina
l’angelo con la tromba boreale
incita la bufera.
DOMENICA DI PENTECOSTE IN CAMPAGNA
Non ho udito le scolte della luce
fare chicchirichì né mi ha riscosso
un suono di campane.
O Pentecoste silenziosa, cielo
mesto per tanto azzurro! Solo un’auto
in lontananza e dal versante
che libra la sua selva sulla pianura il flauto
superstite di un tordo.
E io solo ricordo
le note dell’antico canto fermo.
Risalgono dal fondo della mia infanzia il rossofiamma
dei capilettera e la nera
fuga dei neumi, ascolto
quasi eco di un fioco ìnfero mattutino
il Veni Sancte Spiritus sepolto
in vecchie cassepanche coi messali in latino.
Ecco gli agiati figli dei Celesti,
eccoli in piedi, desti senza galli e campane.
Si nutrono d’ambrosia
seduti a doviziose mense di palissandro.
Non hanno più macchie di verderame
sulle mani e sul viso. Fuorescono dall’antro
della miseria, dall’afrore
di faticosi giorni; il bene e il male
sono per loro ormai diastole e sistole
di un solo avido cuore. Così fanno ritorno
con facce nuove e corpi ben lavati
all’innocenza
di Rèitia sacra madre e del re pitecantropo.
E applaudiranno
un profeta dalla voce rauca
che proclama la loro discendenza
da quel ceppo ancestrale.
Ma tu che nel mio petto prendi improvvisamente
forma di desiderio,
sei tu Spirito Santo o un qualche umano amore?
Mia colomba foriera di parole
che annunciavi il tuo arrivo col rombo alto del tuono
e ormai da troppo tempo non ci visiti più,
discendi dai tuoi cieli!
Raggiungici quaggiù dove stiamo correndo
sull’epocale orbita distanti
dal nostro antico sole
nel più remoto e freddo degli afeli!
DALLE MIE PARTI
Dalle mie parti adesso tutti dicono
che bisogna fermarli i neri allogeni,
difendere coi denti il proprio bene.
Il più devoto grida slogan blasfemi,
il più mite diventa uno scherano.
O mia nazione, giallo
campo di girasoli spesso invaso dall’orda.
Non possiedi l’avallo di antiche corone
ma noi amiamo
questa tua debolezza che si chiama
misericordia. Quante volte ho visto
piegarsi i lunghi gambi
sotto un nugolo d’ali, i duri semi
rotti a colpi di becco con smanioso fervore
da magri storni giunti di lontano!
Anche se adesso un poco tremi
per quelle voci irose che condannano
l’oltranza del tuo cuore,
come al soffio di un vento antelucano
il gonfio curvo fiore.
ECCOMI DUNQUE ARRESO
Eccomi dunque arreso
alla terra. Non riuscivo più
a sollevarmi nelle libere
altitudini delle mie chimere.
Dentro di me portavo il sogno
della grandezza e il suo tremendo peso.
E gli altri lo ignoravano perché avevo maniere
semplici e amavo ridere.
Il sogno di cui parlo
è un cruccio in fondo al sangue, un freddo fuoco
della mente.
Non c’erano a svelarlo
una qualche parola, un qualche atto.
Diffidavo del mondo, ero prudente.
Spesso pauroso degli spazi aperti
scivolavo rasente ai muri come un ratto.
E per salvarmi
dalla celeste febbre che mi batteva ai polsi
m’infilavo furtivo nel tombino
dei desideri osceni
a spiare le larve nude del disamore,
occhi topeschi e cuore
codardo di bambino.
FIN-DE-SIÈCLE
In pochi se ne accorsero
ma questa fin-de-siècle era una cagna
magra e nervosa che sognando rantola.
Era tutto eccessivo o messo in conto al doppio
del suo peso reale, tutto pareva morso
dalla taràntola.
Contro sizigie ostili ho dovuto schierarmi,
fare guerra all’eone (ancora porto
schegge, nelle mie costole, dei cieli),
ma al cuore così goffo e malaccorto
chi avrebbe dato armi
che non fossero versi, più acute e più crudeli?
Chiamavo il leccio elce
pensando che una voce antica possedesse
il potere d’infrangere l’inerzia che c’ingombra,
ma il mondo era compatto: sradicavo una felce
e sentivo stormire i cupi anfratti d’ombra
dell’intera foresta.
Inutile sperare soccorso dai bambini:
rimanevano chini sui games della Nintendo,
non credevano più alle fiabe e ai fantasmi.
E il tempo apriva
gli otri della burrasca disperdendo
le mie smagate ipàllagi, i miei sapienti chiasmi,
andavano i miei versi alla deriva.