GOETHE E IL RIGOGOLO
a Cesare e Caterina G.
L’Orìolus orìolus nei pressi della Rotonda
si aggira perché di fichi trova grande abbondanza.
Canta ma non si vede dove mai si nasconda,
in che guardinga ombra abbia preso stanza.
Quell’óo rióo promette dal folto un poema
disteso e celeste che invano aspettiamo ci giunga:
solo pochi liquidi neumi, sinossi del tema
che medita, e mai una strofa composita e lunga.
Sembra a volte sull’orlo dell’atteso miracolo
ma gli si smorza in gola l’incipit alto e corrivo;
così a scuola, ginnasta peritoso, prendevo l’abbrivo
per fare il salto bloccandomi davanti all’ostacolo,
deriso dai compagni. Lui non si sente sconfitto,
itera clivis e torculus come un rondò
con l’accanita dolcezza che bene ha descritto
Olivier Messiaen nel suo Catalogue d’Oiseaux.
Goethe lo udì sbucando dalla stradetta di cogoli
che tra due mura scende dalla Villa dei Nani.
L’estate in declino addolciva il rosso dei gerani,
diretti a Sud tornavano sui luoghi d’aprile i rigogoli
e nuvole dalla pianura premevano un lembo
renitente d’azzurro… Avrà riconosciuto
il pirol di Karlsbad che accordava il suo liuto
e poi taceva a lungo sentendo arrivare il maltempo?
Ma sotto lo sguardo delle statue davanti alle scale
già dipanava il suo verso la ballata di Goethe.
Kennst du das Haus? Le strofe sfidavano liete
tenendosi per mano il soffio del temporale.
DENTI
a Goffredo Fofi
Stanotte non riesco
a dormire, fratello, ho mal di denti
causa un pezzetto (appare la sua traccia biancastra
sul nero quadratino della lastra)
di dentino da latte rimasto sepolto
per anni e anni nella mia gengiva
e che adesso si desta dissennata deriva
del tempo proprio qui sotto una protesi,
mi straluna la guancia.
Dunque non era quella nostra infanzia
solo un fioco deposito
di memorie e fantasmi in fondo all’anima,
era anche un frammento di dentino
confitto nella polpa;
saranno necessari per strapparlo
dal caldo alveolo dov’era nascosto
il bisturi e lo scolla-periostio;
mi toccherà per colpa
sua gridare e inghiottire
questo mio vecchio sangue.
L’eone dove spuntarono e caddero
i miei denti da latte non dà più
suono, ha perso il suo regno.
Ne ho narrato gli eventi coi colori
a pastello nell’album di disegno:
gli S55 in volo sull’Atlantico
verso Chicago (proprio nello stesso
anno in cui sono nato); rossi scoppi su un bianco
versante della guerra di Finlandia
con Davide che ha un èskimo di pelliccia d’agnello
e corre sugli sci contro Golia.
O forse c’è, fratello,
una qualche empatia
tra la Storia e le fitte di un ascesso, l’ammanco
mai sanato del cuore e i denti dell’infanzia?
BEHEMOTH
Dove giaceva il seme della sua apparizione?
Dentro il libro di Giobbe? Nei ricorrenti incubi
che turbavano il sonno di un inquieto bambino?
Perché non solo il cuore nel suo guscio spaurito
ma l’occhio lo conobbe
che scrutava la notte dalle finestre.
Aznèciv
era da poco entrata nella fase
d’ombra del novilunio, quando ho visto
la strana fiera risalire a nuoto
tra due file di case il corso del Retrone.
Forse andava a nascondersi
sotto i fiori di loto in mezzo ai giunchi
nelle paludi di Sant’Agostino.
Lo raccontai a don Isnardo Lago,
vecchio prete spretato che abitava
una soffitta in Contra’ Barche e aveva
nel quartiere gran fama di cartomante e mago.
Portava ancora l’abito talare
un tempo ala di corvo,
ora grigiastro e lucido con riflessi verdigni.
Lo sguardo a un tratto gli si fece torvo,
mi puntò contro un dito: «Bada! Quello che vedi
è uno degli spiriti maligni.
Ha nome behe’moth
che in ebraico significa “bestia per eccellenza”.
Si travisa, sgorbiandone la forma, da ippopotamo
per sbeffeggiare Dio che nella Bibbia
elogia l’animale e se ne vanta
come sua creatura
mirabile e perfetta, di una beltà feroce».
E abbassando la voce
rauca, rotta dall’ansimo dell’asma,
quasi avesse paura
che qualcuno ascoltasse: «Va’ subito dal parroco,
che ti asperga con acqua benedetta
e reciti un suo fermo adiuro te
immundissime spiritus, phantasma»…
Tre ragazzi sventati aspettarono al varco
Behemóth una notte
umida di settembre, incuranti del rischio:
io, Goffredo ed Abramo che portava
il burchiello ormeggiato sotto un arco
cieco della sua casa annunciandosi
alla curva del fiume con un fischio.
E quando io gridai: «Ecco, la cosa arriva!»
scivolammo a fior d’acqua seguendo come sua
una labile traccia
di bollicine e schiume alla deriva.
La lanterna che Abramo aveva acceso a prua
soffiava un roseo lume contro le opposte, pigre
onde della corrente. Ma Goffredo
che dal banco teneva gli occhi fissi nel buio
disse: «Davanti a noi non c’è un bel niente,
nessun mostro né sagoma che somigli a una bestia;
Fernando ha nella testa solo sogni e chimere».
Abramo, nostro abile prodiere,
continuava a remare. La città sonnolenta
chiudeva imposte e palpebre,
paga delle sue fatue quotidiane dolcezze,
ebbra di the alla menta, e non sapeva che
Behemóth dei suoi fiumi era il silente re.
Nemmeno quei due cari miei remoti compagni
hanno voluto credermi… Eravamo
giunti ormai fuori porta,
e per un labirinto di canali
d’acqua morta, inoltrandoci lenti di ramo in ramo,
entrammo nella zona degli stagni.
E Goffredo faceva l’oracolo: «Che odore
di nebbia c’è nell’aria! Mi piacciono i tappeti
di muschio sulle rive e gli equiseti
che affollano i dintorni col loro verde stinto.
Tu che vedi animali favolosi, hai mai visto
il martin pescatore
con un piccolo pesce stretto al becco?».
Sì, l’ho visto. Ma adesso sono vecchio, rimango
io soltanto a giurare
che Behemóth esiste veramente. Lo aspetto
certe notti seduto sul muretto
del giardino dei Proti e lui riappare
nell’ora in cui la dalia
piega la testa gonfia di rugiada.
Ogni vita ha nel mondo la propria strada: Abramo
fu il primo che partì
e adesso costruisce barche in un suo cantiere,
se ancora vede il sole, a Brisbane in Australia;
Goffredo invece avrebbe
trovato un altro luogo di muschi e nebbie ai bordi
di un altro fiume
dove avere una casa, dove mettere ordine
dando a ciascuno un nome
alla gremita ressa dei ricordi,
morire (oh, troppo presto e lontano da qui).
BALLATA DELLA METAMORFOSI
Il cuore adesso è in fiero disaccordo
col tempo. O Muse, fate ch’io riabbia
un’ora dell’antica carità!
Tutto accadde una notte
d’estate che ascoltavo un usignolo
dalle parti di Làpio a mezza costa,
un cantore più unico che raro.
Gli facevo la posta da circa un mese ormai
aspettandolo sotto un bagolaro
che costeggia la strada, dritto e folto di foglie,
dove lui puntuale apriva il lungo assolo
verso le nove e trenta;
si sgolava, ricordo,
in frasi di celeste singhiozzante ansietà
con soprassalti d’infantile rabbia.
Nascosto tra le fronde più basse del grand’albero
mosse appena dal vento,
così vicino al suolo da intronarmi l’orecchio
e l’anima, forava coi suoi acuti il vasto
silenzio della notte… In quel momento
io che fino ad allora ero rimasto
ininterrottamente bambino diventai
di colpo vecchio. E adesso quel bambino
è dentro me, protesta e si lamenta.
Si sente sopravvivere in un corpo
imprevisto ed alieno che non gli si confà,
povero uccello in gabbia.
DISCORSO AI BAMBINI DELLA PIANURA
Nell’azzurro dell’alba riconosco
le stelle di una volta, ne ricordo anche il nome.
E ritrovo l’erbosa scorciatoia
che costeggia filari di salici e canali,
fino alla vecchia scuola
dove un tempo ho insegnato. Al mio passaggio
riesplode un frullo d’ali: dai loro folti, tremuli
nascondigli di foglie,
come benigni lèmuri che emergano
dai miei anni sepolti, scappano cardellini.
«Abbiamo qui stamane
il poeta Bandini. Ci farà un bel discorso,
forse ci leggerà qualche suo verso.
Un poeta, capite? Uno che mette in rima
i suoi pensieri e quello che vede (o forse sogna).»
Così mi ha presentato ai suoi scolari
la soave maestra Giustina Falcipieri.
Io più che vergogna provo quasi rimorso
a ingannare coi versi tempi di non-speranza.
Fare discorsi poi! È sempre più difficile
l’arte della persuasio in specie coi bambini.
Di cosa dunque parlerò? Di quanto
ancora ci rimane
della terra, di nevi e primavere
ormai molto lontane.
Comincio dalla neve: nell’aria fredda e pura
degl’inverni cadeva copiosa anche in pianura
come sulle montagne. Investiva i paesi
rapita dentro vortici
di luminosi venti boreali,
cancellava le altane,
accecava finestre ed abbaini.
Di nevi così fitte che gonfiavano i pali
del telegrafo e presto superavano
in altezza i bambini
ne hanno viste soltanto occhi di antiche infanzie,
non ce ne sono più.
Quando, cessato il nembo, neri corvi
calavano planando sull’informe biancore
la pianura sembrava diventata più grande.
Dio, che immense nevate! Somigliavano a quelle
che Bruegel nel Brabante
sfumava in lontananza con un vago orlo blu.
Vi proietto un suo quadro: cosa c’era,
vi chiederete, dietro quel confine celeste
che cinge gli orizzonti color perla?
Ragazzi, se sapeste! Fino ai giorni
gelidi della Merla, fino alla Candelora,
dietro c’erano nevi e nevi ancora.
Il primo segno della primavera
una chiara mattina
era lo stillicidio dei grandi alberi: grosse
gocce sonanti miste a silenziosi bioccoli
di neve sfatta e a polvere di brina.
Dimoiava la bianca distesa che faceva
la Padania sorella delle Fiandre
di Bruegel; si scioglieva con le nevi anche il gelo
dei ruscelli e su sponde d’improvviso animate
il sole risvegliava violette e salamandre.
Volete adesso che ve la racconti
la bella storia della salamandra
che se vede nei pressi levarsi una spirale
di fiamme cade in estasi, straluna
gli occhi e a passo di danza
entra nel fuoco senza farsi male?
«No», rispondete in coro, «non vogliamo sentirla!»
Naturale! Nessuno di voi ne ha visto una…
Lo so che per la vostra gioia è più che abbastanza
la primavera che vi soffia in viso
dalle finestre aperte (ahimè, tardiva! il pero
corvino dietro scuola è ancora brullo e inerte),
e che di me pensate:
«Ma da dove mai viene questo grandioso pirla?».
Vengo da un vecchio mondo che credeva alle fate.
Voi, mia vispa ciurmaglia, prestatemi attenzione:
se da Ovest arriva il Demagogo
dai grandi denti e dalla voce roca
e proclama che un tempo la pianura
fu dei Celti e che presto noi, loro discendenti,
diventeremo libera nazione
(parla di centomila fucili pronti a scendere
da non so che vallate),
non credete a chi invoca
improbabili origini del sangue e un sacro mito,
e sogna una repubblica di traffici e di lucri!
Patrie ce n’è già troppe: rivogliamo la terra
di ieri e il vasto spazio delle sue primavere,
dove senza neppure
un giorno di ritardo come a un segnale dato
dappertutto sbocciavano aeree fioriture,
dove c’era una guerra
musicale fra tordi per conquistarsi un sito
nel folto dei sambuchi.
Ecco il vostro momento: è già suonata
la campanella e con lieto clamore
fate ressa all’uscita.
Io vi guardo scappare e vi saluto,
e con voi correrei
per campi e cavedagne, ragazzi miei, se avessi
gambe che secondassero il mio cuore
non ancora canuto.
SMS A PAOLO L.
Ti avviso che la festa
che avevamo previsto per domani è sospesa.
Sono arrivati, Paolo, gli assassini
del sogno. Niente (o molto poco) resta
delle nostre certezze, delle tante
cose sperate in lunghi anni d’attesa.
Dicono che la festa è solo differita
ma adesso so per certo
che progettare il tempo fa più breve la vita.
E per me è troppo tardi; più non sento John Fante
mormorarmi all’orecchio: Wait until spring, Bandini.
VOCE DELL’AMICO NANNI LATTES DALL’ALDILÀ
Il medico mi aveva detto: «Meno
di un anno». Io pensavo: «Forse nove
mesi, quanti ne occorrono per nascere»…
Nascondevo il mio male.
Non soffrivo (un’acuta fitta di tanto in tanto
alla scapola destra). Mi pesava
molto di più la vuota, senza senso,
attesa di morire. Così nei pomeriggi
di quell’estate, mesti
per tanta luce, andavo spesso al cinema.
Quaggiù nell’Ade dalle nostre anime
svaniscono le immagini.
Lentamente anche il viso delle persone amate
si dissolve, diventano soltanto un fioco nome.
Dei film che ho visto allora non ricordo
sequenze o voci, appena qualche lacera icona,
come il vento impetuoso che una volta mi accolse
mentre dal sole entravo nel buio della sala.
Era il «vento di Dio» di cui parla Spinoza
nel Tractatus theologico-politicus?
Alzava mulinelli di sabbia in un deserto
con rari cactus del Far West. Mi sembra
di udirne ancora il fischio come stessi sognando
da vivo sulla terra. Se non fosse
che inerte è il nostro sonno
in questo luogo d’ombra dove più non si sogna.
PHOENICURUS OCHRURUS
Cosa ci fa quel codirosso spazzacamino
fermo sul tegolone di colmo, che non cessa
i suoi fitti parlari anche se piove?
È il custode dei Lari
rimasti soli nella vecchia casa
dove ho abitato anch’io, ora deserta.
Lunghi anni di vento levigano la pietra
delle cornici, lungo la cimasa
cresce livido muschio e il codirosso è all’erta.
Se accende l’aria l’attimo corrusco
di un lampo e si propaga
di tetto in tetto il brontolio del tuono,
non s’invola dal coppo: scrolla la smunta porpora
della coda e le ali tinte di nerofumo
schizzando intorno gocce.
Col becco le riassetta, poi riprende a cantare.
Dididì cececè ripete al cielo grigio
dal romito fastigio dove sta di vedetta.
E i Lari che non puoi, quando abbandoni
un’antica dimora, traslocare
nella tua nuova casa come fai coi Penati,
nei loro silenziosi penetrali, oscurati
da sconnessi balconi, ascoltano la pioggia
che sgronda dalle docce
e l’altolà del codirosso spazzacamino
intimato alla schiera di nuvole che assedia
l’abbaino, al rintocco sulle tegole
di questo vagabondo nembo di primavera.
PASSEGGIATA AL TRAMONTO
T’invocavo, Signore, perché mi liberassi
da questo mio pesante fardello di parole.
Ero vecchio ma ancora non avevo
vuotato il sacco,
la mia voglia di dire non era ancora paga,
ossessiva sirena
che sempre mi dismaga. E camminavo
per un viottolo che rasenta campi
in abbandono dove la pianura
dolcemente si arresta contro il fianco
della collina o penetra
con lingue d’erba in cieche vallette taciturne.
Forse è nato da questa
smania di dare un senso alle cose l’ammanco
che mi ritrovo di una vera vita.
Alle mie spalle Aznèciv
si allontanava, avvolta nell’azzurro
barlume del crepuscolo. Era uscita
l’allodola dal mondo; ne prendeva le veci
il bruno caprimulgo, l’uccello ingoia-vento
che vola a becco spalancato, avido
di farfalle notturne.
E l’elianto piegava la testa
sazio di tempo, stanco
di seguire ogni giorno torcendo il collo i passi
alti e vasti del sole.
ACQUARI E GABBIE
Che brulichio di vita, bambino, nel tuo acquario!
Pesciolini dei Tropici, molluschi e alghe creano
l’illusione verdina di un oceano
chiuso dentro una teca come in un reliquiario.
Una fila di bolle risale senza posa
da un abisso profondo soltanto mezzo metro
ma i tuoi occhi riflessi all’interno del vetro
sembrano far naufragio in un’acqua insidiosa.
E m’indichi col dito le policromie rare,
dei tuoi pesci, ne citi anche il nome in latino.
Essi arresi al tuo sguardo e al tuo dominio
si librano nel lume del loro angusto mare.
Sì, per l’infanzia avere piccole vive prede
è un naturale modo del Dasein: età sorda
alle estasi inquiete del tempo, non ricorda,
non spera, il suo presente è in quello che possiede.
Ma io come mie care prede sognavo solo
uccelli, coleotteri dalle guardinghe antenne,
creature dell’aria con elitre o con penne
che appena giri l’occhio leste prendono il volo.
Dovevo sempre rimanere all’erta.
Ho avuto da bambino per anni un gaio storno
in gabbia, e quante lacrime quel giorno
che sbadato lasciai la porticina aperta.
Molte cose che amavo sono volate via
anche dopo, la causa qualche enorme
distrazione del cuore. Adesso dorme
il cuore e non c’è più nessuno in sua balìa.
ANAPESTI PER UN GUFO
Bubo, bubo, maeste tacitam
resonans noctem de culminibus
quibus impendent candida pronae
cornua lunae,
ubinam latitas? Non liquet utrum
prope nos adsis an procul edas
flebile carmen
(nisi forte tuae veniat vocis
sonus ex Erebo).
Lucifugarum consors avium
nos Aeternum severa monens,
non te dirum ducimus omen
intempesta si nocte canas.
Rava videtur naenia lallans
hoc esse tuum murmur in umbris.
Conivemus cunaeque fere
fit lectus ubi carpimus altum
denique somnum.
OSCURAMENTO
Buie ore di guerra, vie deserte
del coprifuoco: chiuse
le nostre case al mondo, sigillate le imposte.
Talvolta rochi allarmi
di sirene annunciavano formazioni di Airfortress
dirette verso il Nord. Di quelle sere
della mia infanzia
io ne ricordo soprattutto una.
Ero già sotto le coperte
e fissavo il soffitto;
mia madre in piedi accanto
al letto recitava: “Ave Maria,
piena di Grazia, il Signore è teco”
perché pensassi al cielo prima di addormentarmi.
Fu allora che gridai: «Mamma, lassù c’è un geco
aggrappato a una trave che ci spia!».
Di certo ci vedeva come presenze aliene
in fondo a una laguna.
Non lo sguardo di Dio sopra di noi
ma gli occhietti sporgenti del domestico rettile
dalle zampine prensili
che insidiava una mosca nell’alone
pallido della lampada
e il rombo lontanante dei B17
in volo sui paesi illuminati
soltanto dalla luna.
L’INVASIONE DEI BECCOFRUSONI NELL’INVERNO DEL 2004/2005
Parlava nelle lingue
di remote nazioni
la famosa invasione dei beccofrusoni
durante quell’inverno
del Duemilaquattro/Duemilacinque
quando i miei anni erano ormai giunti
nei pressi dell’Eterno
e lassù nelle fredde latitudini
della fascia subartica era nato
un contrasto di becchi e un gran tumulto
di penne intorno all’ultimo rosso pomo rimasto
nel cuore di uno spino.
Che gazzarra di trilli e di richiami
ci aveva risvegliato
nell’azzurro sbiadito del mattino!
Mai si era vista sui crinali dei Berici
una così gremita moltitudine
di uccelli vociferanti e famelici
posati in lunghe file su nudi curvi rami.
Eri dunque disceso a salutarmi
sorvolando deserte
Carelie bianche di neve e la vasta
selva di faggi ucràina grondante di bufere,
Nord di amati poemi, Kalevala
di re e sortilegi, Pan Tadeusz abitato
da un’indimenticabile infanzia e cuori in armi.
E proprio adesso in quest’eone inerte,
senza febbri, che ammaina tutte le sue bandiere!
Da poco l’Occidente
aggiungeva alla data un altro mille
e sottili Dialettici evocavano
la fine della Storia dopo il crollo
del muro di Berlino.
Ma io sentivo ancora quel mattino
la voce della fata di Cuma che proclama
il ricominciamento del mondo. Già la larva
del futuro scavava i suoi cunicoli
nell’albero del tempo rodendone il midollo.
Cosa mai ne sapeva Fukuyama
nella sua torre a Harvard
di evi e di Sibille? Ci sarebbero state
altre guerre, riemersa
dai cumuli di neve del suo lungo letargo.
La nave Argo salperebbe in cerca
di un altro Vello d’Oro.
Poltrivo nel mio letto
e gli alati folletti della taiga
che sembravano evasi da un celeste aldilà
saccheggiavano a frotte quest’attesa
di eventi e questo vuoto beccandone le scorie:
mele secche cadute a terra tra le zolle,
castagne rotolate su una china scoscesa
che sgusciano dal riccio che si schianta.
E lanciavano un’OPA
rizzando sulla nuca l’irto ciuffo guerriero
per tutte le agre sorbe che pendevano a mazzi
dai rami senza foglie dei giardini d’Europa
e per le ghiotte drupe del viburno.
Tu, mio cuore caparbio, in che astratti fervori
ti spendevi, in che folli speranze avevi perso
la tua giusta misura
congetturando prossimo il ritorno
dei regni di Saturno!
Perché così sarà la fine della storia:
uscire dalla luce del troppo breve giorno
in cui sono vissuto e dire addio
ai miei cari compagni e all’universo.
OMAGGIO A RIMBAUD (LE BATEAU IVRE)
Scendevo lungo Fiumi impassibili quando
non ho più sentito gli alatori trainarmi.
Pellirosse urlanti ne avevano fatto bersaglio
dopo averli legati a pali variopinti.
Portatore di grani fiamminghi e di cotoni
inglesi, non mi davo pensiero di equipaggi.
Quando insieme finirono gli alatori e le urla
i fiumi mi han lasciato scendere dove volevo.
Nel furioso fragore delle maree, più sordo
di un cervello d’infante, io l’inverno passato
ho corso! E Penisole strappate ai loro ormeggi
non hanno mai subìto più grandiosi disastri.
Miei risvegli marini benedetti dalla tempesta!
Più leggero di un sughero dieci notti ho danzato
sui flutti che trasportano perennemente vittime,
senza rimpianti per l’occhio ebete dei fanali.
Dolce come ai bambini polpa di mele agre
nel mio scafo d’abete è penetrata
l’acqua verde e da chiazze di vini blu e di vomiti
mi ha lavato, privandomi di timone e ancorotto.
E da allora m’immergo nel Poema del Mare
che intriso d’astri e lattescente spegne il suo azzurro,
versi dove talvolta, galleggiamento livido
e attonito, discende pensoso un annegato;
dove tingendo a un tratto il blu, più forti
dell’alcool, più vasti delle nostre cetre, i rossori
amari dell’amore fermentano, deliri
e ritmi lenti sotto il rutilio del giorno.
So cieli che la folgore squarcia, trombe, risacche
e correnti; la sera, l’alba che come un popolo
di colombe si esalta, e ho visto quello
che a volte all’uomo è parso di vedere.
Ho visto il sole basso, macchiato di mistici orrori,
colorare di lunghi coaguli violetti
come attori di antichi drammi i flutti che al largo
aprivano e chiudevano sussulti di persiane.
Ho sognato la notte verde col suo barbàglio
di nevi, bacio che lento sale agli occhi dei mari,
e il fluire di linfe inaudite e il risveglio
giallo-azzurro dei fosfori cantori.
Mesi interi ho seguito onde che come isteriche
mandrie di vacche assalgono gli scogli, non pensando
che i piedi luminosi delle Marie potessero
forzare il muso ansante degli oceani.
Ho urtato, se sapeste! in Floride incredibili
che mescolano ai fiori occhi di pantere dal vello
umano, a glauchi armenti arcobaleni tesi
come redini sotto l’orizzonte dei mari.
Ho visto fermentare paludi, nasse enormi
dove si decompone nei giunchi un Leviatano!
Crolli d’acqua entro calme bonacce, e lontananze
che come cateratte sprofondano in voragini!
Ghiacciai, soli d’argento, flutti madreperlacei,
cieli di brace; incagli orridi in baie cupe
dove serpenti immani rosi dalle cimici cadono
da alberi contorti con un nero profumo.
Avrei voluto mostrare ai bambini le orate
dell’onda azzurra, i pesci d’oro, i pesci che cantano.
Uscivo dalle rade cullato da schiume di fiori,
venti arcani mi davano, ad ogni istante, ali.
Su me talvolta, affranto da poli e zone, il mare,
che il mio rullio rendeva dolce col suo singhiozzo,
ordiva fiori d’ombra dalle gialle ventose
e mi fermavo, simile a una donna in ginocchio,
isola quasi, cullando ai miei bordi gazzarre
e sterchi di uccelli rissosi dagli occhi biondi.
Prendevo il largo quando tra i miei fragili ceppi
rinculando arrivavano annegati a dormire.
Ora io, legno perso sotto capelli d’anse,
spinto dall’uragano nell’etra senza uccelli,
la cui carcassa ebbra d’acqua non avrebbero
ripescato né un Monitor né velieri anseatici,
io, riemerso fumante dal viola delle brume,
che il cielo rossastro foravo come un muro,
che porto, confettura ghiotta per i poeti,
licheni di sole e móccichi d’azzurro,
che fuggivo macchiato di lunule elettriche,
folle chiatta, scortato da neri ippocampi,
quando i Lugli facevano crollare a mazzate
i cieli oltremarini dagli affocati imbuti,
io, che a cinquanta leghe tremavo udendo gemere
i Behemóth in foia e i densi Màelstrom,
filatore perenne di monotoni azzurri,
rimpiango l’Europa dai vecchi parapetti.
Ho visto siderali arcipelaghi! Isole
con cieli in delirio aperti al navigante!
È in queste notti immense che tu dormi e ti esìli,
milione d’uccelli d’oro, o futuro Vigore?
Ma, è vero, troppo ho pianto! Le albe sono
desolate, le lune atroci e i soli amari.
Di che ebbri torpori m’hai gonfiato, acre amore!
Oh, scoppi la mia chiglia! Ch’io me ne vada a fondo!
Se desidero un’acqua d’Europa è la stagnante
fredda pozza ai cui margini nel crepuscolo un bimbo
triste si accuccia e vara un suo battello, fragile
come una farfalla di primavera.
Non posso più, marosi, immerso nei vostri languori,
mettermi sulla scia dei carghi di cotone
né incrociare l’orgoglio d’insegne e fiamme o prendere
il largo sotto gli occhi orrendi dei pontoni.