SVEGLIANDOMI IL 2 DI NOVEMBRE IN UN AGRITURISMO A CODIGORO
Dove mi trovo? In che stranito tempo
batte il mio cuore? È buia
l’alba del giorno dei defunti e sgronda
dal tetto col residuo della notte
come il verso di un salmo in due emistichi.
Mi sveglio e penso, quindi sono. Ho aperto
gli occhi in questo casale
senza galli di un desolato e tetro
podere a Codigoro dove abita
da anni solo il vento.
O sono invece un’anima che torna
dall’aldilà dove ha bevuto lunghi
sorsi d’oblio da qualche fonte ctonia?
Ma ho ancora un corpo, sento
l’odore del passato: odore di caffè
e di mela cotogna
che spira da cassetti vuoti e antichi.
Scosto i balconi e vedo neri merli
saltare tra le pozze della corte.
Una ad una rovesciano col becco
le foglie morte, lieti che dal fondo
della terra fuorescano i lombrichi.
AMMONIZIONI A UN AMICO ARCHEOLOGO IN VIAGGIO DI STUDIO IN AZERBAIGIAN
Simile al tuo nel tepore di un letto
fu il nostro sonno in quel paese antico.
Ma chi si espone
al freddo soffio della notte ascolta
un quadruplice tonfo di zoccoli lontani
e ne risuona
l’eco dentro il cortile stupefatto e già all’erta
di un albergo che sembra la fortezza Bastiani.
E io ti dico: «Non addormentarti,
che non resti senz’occhi e senza scolta
il deserto dei Tartari».
L’ho visto veramente
da una finestra aperta o l’ho solo sognato
in quel remoto Oriente? Eppure mi ricordo
ancora una figura
ingigantita dal rosso riverbero
di un falò su una balza. Scendeva a cavallo
dai ripidi sentieri del Gran Caucaso,
inquietante avamposto di un popolo del Nord.
RICEVENDO DA COPENHAGEN NEL MIO OTTANTESIMO COMPLEANNO UNA CARTOLINA DI AUGURI RAFFIGURANTE UN PAESAGGIO POLARE
Si vedono i pinguini
sulla banchisa dell’Oceano Artico
che guardano lontano schierati lungo il lido
a centinaia, in piedi, presumo senza un grido,
in quello sconfinato bianco. Ma dove spazia
il loro vacuo sguardo non c’è più mondo ormai,
solo disabitate isole che hanno il nome
di sovrani d’imperi già tramontati come
Zemlya Frantsa Iosepha.
Io t’invoco, Signore, dal mio più mite Sud.
Non sottrarmi, ti prego, le voci della terra,
il chiassoso risveglio dei tuoi uccellini.
Quanto c’era di meglio l’ho già visto quaggiù,
mi annoierei, io temo, nel tuo paradiso.
ASPETTANDO IN VALSUGANA IL RITORNO DI PERSEFONE
Quante rampe di scale la divina Persefone
doveva rampicare
per giungere dal mondo della notte
inferna a questo amato chiaro.
Adesso come sia ripido e arduo
il percorso tra buio e luce imparo.
Aspettavo Persefone
nei pressi delle grotte che risalgono
dalla città di Dite
e lei calcava avvicinandosi
gli sconnessi scalini sulla traccia
di spente antiche vite.
Davanti agli occhi avevo la corrente del Brenta
e alle spalle una macchia di nere piante dove
dentro il cavo di un albero si stringe un dormitorio
di scriccioli che gli ornitologi
chiamano roost. Sentivo come emerso
dal murmure dell’acqua il frullo d’ali
degli arrivi. Ho contato fino a quindici
piccoli alati mentre
l’inverno era in procinto di finire.
E intanto la divina Persefone saliva
a passi lenti le faticose
rampe di scale che varcavano
l’oscurità. Vorrebbe
più non tornare ad Ade, il cupo ingrato sposo.
Ma, ahimè, distrattamente ha morso un chicco
di melagrana, il frutto agro dei Mani
che la lega all’Averno.
Così rimane in bilico
tra l’infernale eterno regno ctonio e il terrestre
caduco tempo della primavera,
e mentre in alto sale
la luna che tramonta rischiara le sue mani.
Uscirà nella macchia alle mie spalle dove
c’è un roost sovraffollato. Vi stanno dormendo
fino a quindici scriccioli in procinto
di partire.
E adesso la prealba
tinge l’aria di un cielo azzurro-tenebra
e Persefone ha gli occhi
della ragazza di Cismon del Grappa
che da giovane ho amato. Non deludermi
come lei fece, divina signora
degli asfodeli; torna ancora
per molti anni quassù
dal tuo profondo abisso ai nostri cieli.
Quale tra i fiori coglierai che spuntano
tra i sassi lungo il fiume? Il rosso, il giallo o il blu?
Presto sarai nel mondo, fatta di luce e vera,
mentre sbucano con un frullo d’ali
dal loro roost segreto
fino a quindici scriccioli in procinto
di ritornare
allo loro lontana alpestre primavera.
L’OROLOGIO
È questo l’orologio Victorinox da tasca
che filtra i tempi lenti della mia notte insonne
abbandonato di fianco al guanciale
dove apro gli occhi al buio e pedino i pensieri.
Il suo lieve tic-tac tiene deste le tenebre
di quest’ora d’inverno
che presto coprirà la terra,
annuncio dell’Eterno, sotto forma di neve.
LA MORTE DEL POETA
Ti profilavi dietro la superstite
beltà dei tuoi paesaggi
tramati di parole condannando
l’oscenità della storia.
Dei poeti che inventano ardue lingue
eri il meno superbo, il più devoto
alle cose e il più mite.
E te ne sei andato
mentre un codazzo di sottili interpreti
scriveva non per dire di te ma per citare
le sue dotte letture (Heidegger o Lacan)
per te pronosticando
il marmoreo famèdio della città di Dite.
Tu al contrario pensavi a un tuo lieto cammino
nel sole giallo dei topinambur
che avresti attraversato
per arrivare al posto in paradiso
che avevi prenotato da quand’eri bambino
comunicandoti
nei primi nove venerdì del mese,
come mi avevi
argutamente confidato.
Il giorno stesso in cui chiudesti gli occhi
sulla tua verde heimat è arrivato
lo stormo forestiero della peppola
dalla tundra lontana
ma tu non c’eri più.
E quel volo gremito adesso si dipana
da un groviglio di fronde
alle riviere d’erba sottostanti
dove a decine calano gli alati
frugando il suolo in cerca
di sementi di faggio, loro disperso sole.
Adesso dove si nasconde
e fa silenzio la tua musa, Andrea?
In qual parte del cielo, in quale idea?
In quale universo
dove le cose ancora non create
già erano parole?
VACANZE NATALIZIE
Il cuore ancora non è sazio
d’invernali meteore.
Io ti covavo, neve, dentro un inconscio sonno
e adesso che apro gli occhi stai scendendo:
mia stella franta in volatili schegge
che spargono un biancore
fragile, già prigioniero di un nucleo
di tenebre sospeso nello spazio.
Contemplo la vertiginosa giostra
della neve dal vetro chiuso della finestra
(mentre all’esterno l’imposta
è rimasta distrattamente aperta),
e brulica la neve nell’aria del boulevard
illuminata dai fanali e turbina
nel vortice di un rapido sibilante blizzard.
Mia sospirata neve mista a vento
che a lungo nella notte mi fai scorta.
Se l’anno prossimo mi cercherai,
senza trovarmi, in qualche capitale
d’Europa in mezzo al tremulo stupore
dei lumi di Natale,
mettiti il cuore in pace. Scendi e cercami
nei mesti campi stigi
dove pallida e muta vaga la gente morta
sotto un plumbeo chiuso firmamento.
Vi dico dunque addio
mentre mi riaddormento,
o nevicati tetti di Parigi.