PER PARTITO PRESO
1
C’è in Italia una ditta che offre traslochi al paesaggio
e può essere chiamata a domicilio per telefono: il suo numero è sugli elenchi;
sua competenza disboscare località montane e marine
e sostituire al pino l’agave di cristallo e al faggio l’araucaria d’alluminio
(piante tropicali allevate nelle serre della speculazione edilizia).
Esse sono fornite di tutte le prerogative delle piante del nostro emisfero
ed emettono ossigeno di giorno e anidride carbonica la notte
e hanno un ciclo di circa vent’anni durante il quale effettuano la sintesi clorofilliana
combinando la luce solare con l’aria condizionata che scorre nelle intercapedini:
cosicché nelle celle nascono bambini dai visi paffuti e le madri invecchiano e diventano isteriche,
e nelle grigie giornate d’inverno i camini svettano e mormorano
e la collera del riscaldamento centrale sale con un rombo su per le strutture,
il cemento armato ha il suo primo attacco di arteriosclerosi e perde di elasticità,
nelle intercapedini la sintesi clorofilliana avviene sempre più di rado, con sibili e incrinature degli sfiatatoi,
viene l’ora che la macchina strappa l’edificio dalle sue profonde radici
e un’altra araucaria d’alluminio, un’altra agave di vetro drizzano il loro fronte verso il sole
con celle dove nascono bambini, dove madri diventano isteriche, dove s’incrineranno gli sfiatatoi,
tutto si guasterà e verrà rigettato nel ciclo.
2
Un milione di cacciatori
hanno sterminato i pettirossi
colmandone i carnieri.
Il gas dei concimi chimici ha ucciso gl’insetti
fino all’ultima larva
sotto la foglia caduta dell’ultimo acero.
Ma i pettirossi si avvicinano fiduciosi alla casa dell’uomo
dove c’è un water-clos,
si avvicinano al mese dell’ultimo tuono.
E tutto rispunterà,
marciume di foglie e garrito,
dal velo delle piogge autunnali.
3
Ma intanto dalle Cevenne a Capo Passero rotola questo rullo d’imprese spinto da guastatori di giardini.
Uomini in cappello nero stampano ombre provvisorie sui prati,
piantano impalcature, fanno emboli controllando il bollettino dei valori dell’oro,
rubando ai figli dei figli il gusto della mela ranetta,
rubando a noi una parte dei giorni che avremmo potuto mordere incuranti dei cali di borsa,
noi fare case più giuste e città più trasparenti.
4
La natura non è innocente
(gli alberi, intendo, i cani e gl’insetti)
e nemmeno, s’intende, l’uomo.
Piuttosto che muoia un uomo è meglio uccidere un cane
ma c’incollerisce il pensiero
che dopo la nostra morte un ragno continuerà a vivere.
Per questo è meglio che il ragno resti schiacciato
dalla collera di una vecchia suola
che rischiare di morire prima del ragno.
C’è il suo rischio in ogni cosa ma le cose non muoiono,
muore soltanto chi crede nell’anima.
E chi crede di più, chi ama di più,
muore, è certo, di più.
5
La sola volta che uccidemmo un uomo
ci confessò di chiamarsi Hans,
di essere studente di economia
in una città della lega anseatica.
Cadevano le pigne con un tonfo sul muschio
e noi stringevamo nella mano il revolver.
Fu giustiziato da noi come spia
Hans che piangeva tutto sporco di polvere.
E lo sparo zittì le cavallette
e una striscia di sangue gli uscì dalla bocca
serpeggiando tra gli aghi dei pini.
Per questo usiamo troppe parentesi
e la mano indecisa non tocca
la maniglia della porta per aprire.
6
Scampò alla morte Samuele che nel Pequod strizzava lo spermaceti nel grande tino per renderlo fluido, e strizzando lo spermaceti stringeva le mani dei suoi simili, e nel profumo che si spandeva dalla tinozza non distingueva più l’inebriante sperma della balena dalle mani dei suoi simili, sognando una vita di quotidiani lavori come strizzare spermaceti, fabbricare tini, alla sera accendere la lampada, abitare una casa di pietra.
Quale spermaceti da strizzare ci hanno lasciato queste nostre tinozze polverose e piene di ragnatele? È restata una balena sui mari? Dio gira ancora nei mondi per more? E c’è un Pequod per noi, un’alba col Pequod alla fonda?
7
Ci vorranno giorni e giorni per lavare questa colpa
che non è colpa né mia né tua
ma di chi diede gli ordini e di chi vi obbedì,
per tutto il fascismo che ci brulica sotto
come un formicaio nascosto dall’erba:
fascismo nell’occhio della quaglia tremante
e in quello del ragazzo che attraversa il grano.
8
Molti uomini che ti hanno conosciuto si dimenticheranno di te
ma la terra non può dimenticarti non avendoti mai conosciuto, essendo priva di occhi e di mani.
Tu solo dentro di te come un rotolo svolgi queste immagini di paesi rallentate dalla distanza degli anni,
con pezzi di pellicola bruciati da una luce violenta
per aver tenuto troppo aperto il diaframma dei sensi o del cuore.
Ti tendi e ti afflosci come la campanula presa per i capelli dal vento
nello sforzo di restare abbarbicato alla terra
e qualcosa si rompe in te,
qualcosa simile all’addome della campanula che, rinsecchito dal tempo, lascia cadere minuscoli semi:
e cadono i nostri semi di parole e di nervi che prolungano il mondo
e assicurano alla vita la sua eternità.
9
Da bambino, avendo commesso sacrilegio, essendomi accostato alla mensa eucaristica in peccato mortale
(per timore che non accostandomi alla mensa eucaristica il mio maestro capisse che ero in peccato mortale),
avendo commesso sacrilegio trascorrevo notti infelici e piene di paura
e aspettavo la fine del mondo (perché ero convinto che la fine del mondo fosse ormai prossima)
e prima di andare a letto spiavo le stelle, se ci fosse tra gli astri un indizio,
qualcosa come un tremore insolito nelle loro gocce di luce,
ma il cielo era lo stesso di mille anni fa, calmo, solenne, profondo,
non turbato come il mio cuore. E sotto le coperte io vegliavo, sicuro che ci fosse frode in quel cielo,
una cosmica malizia, e che la rovina inizierebbe d’improvviso come un temporale d’estate
quando non c’è pausa tra il primo tuono e la violenza dell’acquazzone;
ma poiché non c’era che quel silenzio senza scosse stavo attento alle voci dei passanti
e talvolta mi pareva che in quelle voci ci fosse uno spaventato stupore, mi pareva di udire delle grida
e tremavo sotto le lenzuola. Ora so che se il mondo finirà non sarà per il sacrilegio di un bambino
e non sarà Dio a spaccarlo in due come un melone.
10
Il bambino dalmata
gridò «mamma»
e il suo grido era un ciottolo
che balzava sul mare.
Io, supino sulla roccia,
saltai su.
Ma il bambino era tranquillo,
e non c’era donna tra gli scogli.
C’era solo
nella sacca senza vento di quell’aria
l’orizzonte tenero del mare.
C’era solo
il bambino dalmata
che si avvicinava sul suo sandolo
e tuffava
la pagaia nel mare.
Mamma a chi?
Alla nuvola? Alla terra?
Alla barca? Alla pagaia?
11
Ci saranno stelle nel cielo
se quaggiù ci saranno ciglia.
Ci saranno giorni chiari
se quaggiù ci saranno pupille.
Ci saranno tepori
se quaggiù ci sarà pelle.
Ci saranno baci
se quaggiù ci saranno bocche.
Ci saranno nuvole
se quaggiù ci saranno capelli.
Ci saranno more
se quaggiù ci saranno mani.
Bocche, mani, pupille
durate in eterno!
Ci saranno lacrime
se quaggiù ci saranno ciglia.
12
Ma la Serbia era bella e anche la Bosnia (il mondo era bello)
e il lampo della Sava
e la scatola vuota delle sigarette e l’aroma che vi era rimasto
e la marmotta nei boschi
e il daino all’abbeverata.
Era buono il sciroppo di lamponi (il mondo era buono)
e l’odore delle assi appena segate
e l’odore del timo che aleggiava sul pascolo
e l’odore della torta di semi di papavero.
Era bella la danza in cerchio delle ragazze di Ciaciak o di qualche altra città
e la danza delle stelle sul mio capo
ed essere in Serbia o in Bosnia (essere al mondo)
e fumare, bere sciroppo di lamponi,
avere amici, sentire
l’odore del timo nei pascoli.
13
Le ragazze devote a Saint-Tropez (le ragazze col saint-tropez)
voglio dire, le ragazze coll’ombelico fuori,
sembrano saperne sulla vita più di me e di te,
forse perché il tenero ombelico è una valvola di qualche apparato interno
e il ventre dorato percepisce messaggi dal sistema solare,
una cosa è certa, che le ragazze devote a Saint-Tropez ne sanno tante che noi nemmeno c’immaginiamo,
noi che magari non sappiamo nuotare, non sappiamo andare in bicicletta,
discutiamo se Locke valga Kant, scacciando con la mano infastidita la formica che ci cammina nel lobo dell’orecchio,
ed esse, le devote a Saint-Tropez coi culetti stretti nei calzoni e i ventri dorati
percepiscono qualcosa, nel passaggio da stagione a stagione, che a noi è sfuggito,
qualcosa che per essere inteso aveva bisogno di una sensibile valvola
com’è appunto un ombelico in un ventre dorato.
14
Eppure sono qui da tremila anni,
sono sicuro di aver già conosciuto il luccichio di queste barene
quando ancora il faro non trafiggeva col suo raggio la tenera farfalla della costa,
e sono sicuro di aver già letto questo strano alfabeto scritto lentamente sulla roccia dalle onde e dal vento
e aver già sentito questo odore di fritto uscire da una locanda per mercanti fenici
e aver provato il senso di unto che danno i nastri delle alghe quando si avvolgono alle dita dei piedi, (forse allora non erano piedi,
e forse le alghe non erano alghe).
Coccinella che mi salivi dal calcagno su per la gamba
inerpicandoti in mezzo ai miei peli come in un prato d’erba,
eri tu la postina del tempo non ancora accaduto
o una borchia dell’antico volume che narra com’io rotolai tra gli scogli
alga, ostrica, pesce, o legno di navi scomparse,
o goccia di sale che la maretta regalava alla spiaggia?
15
Ora smettila di piangere, cuoricino burroso, o ti chiamo l’uomo nero oppure Sanguineti,
l’uomo nero col sacco o Sanguineti con le sue parentesi che sono ferri chirurgici
utilissimi contro i capricci dei cuoricini burrosi, oppure ti chiamo
(peggio ancora) uno vestito da soldato tedesco e lo vesto con l’elmetto che arrugginisce nel campo in testa a uno spaventapasseri,
o lo vesto da parà o da aviatore americano che va a bombardare Hiroscima,
e se la prolungata abitudine non ti rende spaventosi i babau del presente
lo vesto da cavaliere teutonico, da inquisitore, da cosacco della Santa Alleanza.
Bada a te, se non la smetti di piangere, cuoricino burroso,
io ti faccio arrivare i marziani, io ti spiego il segreto dei quattro cavalli dell’apocalisse,
io per castigo ti faccio leggere i romanzi dei cuoricini burrosi
che hanno saragatizzato le selve trasformandole in giardini della ricordanza,
io più fastidioso di una lavagna raschiata dal gesso ti cigolo dentro l’orecchio «oceano, stella»,
e la galassia usata dalla fantascienza per spaventare i bambini
(i quali ignorano come una volta versava latte per le plaghe del cielo,
grande mammella che rassicurava le notti del mondo),
io te la metto sotto il naso, cuoricino burroso,
perché la smetta di frignare e ti rivolga alle cose importanti.
16
Per molti anni da bambino ho pensato a una dimensione diversa, vasta come un pianeta eppure raccolta dentro le pareti di casa.
Vi vivevano esseri in tutto simili a noi, con fauna, flora e nuvole,
e nei miei terrori notturni ho spesso sentito bisbigli dentro le pareti e passi frusciare
e tremare ragnatele negli angoli, il situs tradire l’estranea presenza sotto la calce.
Dio, non bastava una scopa, non serviva uccidere il ragno,
non era sufficiente picchiare coi pugni sul muro perché se ne andassero,
e i miei genitori accorrevano, «cos’hai, di che cosa hai paura, vedi come tutto è normale», accendendo la luce,
ma come spiegare che quelli non erano dentro la stanza ma nelle pareti?
17
«Bitte, per favore, ragazzo
qual è la strada per Padova?»
mi chiese il soldato tedesco
alto sulla motocicletta.
Aveva foglie sopra l’elmetto
e il parabellum nero a tracolla.
Io dissi «di là» e indicai
il nord con la mano,
il nord fiorito di montagne azzurre.
E il soldato tedesco partì
diretto a Verona
verso i broli di pesche e di prugne.
Chi aveva preso la strada di casa
senza saperlo
io non lo vidi più,
ma per altri non ci furono prugne
bensì pallottole aghi bastoni.
E piuttosto che torni la peste
è meglio dimenticare l’Ogino-Knaus
e fare tanti bambini.
18
Ma mia madre mi sveglia al mattino e dicendo che la valigia è pronta, che è settembre e le fucsie stanno sfiorendo,
sottintende che in cucina c’è il caffelatte, che fuori dei vetri c’è il sole, che nella strada ci sono automobili,
che in collina il gallo ha cantato mentre ancora dormivo cacciando i fantasmi notturni
col suo rauco chicchirichì, come nell’inno di Ambrogio.
E allora capisco com’è dolce questa polpa d’anguria del tempo in cui siamo alzati, com’è bello staccarla dalla scorza delle notti
badando a non ingoiare i semi, pulendola con la punta del coltello,
il tempo in cui siamo alzati (anche se il cuore continua a battere quando dormiamo),
pulendo la polpa dei giorni con la punta del coltello, seme per seme, intenzione per intenzione,
nella luce vigilante della sottesa coscienza.
19
Papà come spaccavi
l’anguria in due
con un colpo secco del tuo coltellaccio
non c’è più nessuno.
D’estate sotto la lampada
col succo che allagava la tavola.
Come dividevi la vita
tra bene e male
non c’è più nessuno.
Com’eri giusto a fare le parti
tra tutti noi
con un colpo secco del tuo coltellaccio
non c’è più nessuno.
Come ridevi e sputavi i semi
come ti liberavi di crucci e sconfitte
godendo solo del dolce
non c’è più nessuno.
20
Eravamo ad ’Otociaz mia moglie ed io ed erano le quattro del mattino,
e la locanda immersa nel silenzio, e dai vetri semichiusi veniva l’odore del pascolo,
erano le quattro del mattino ad ’Otociaz fresca nell’alba appena spuntata
e si avvicinava un frastuono di carri sul pavé e sollevando la testa
vidi passare un carro trainato da un cavallo fulvo e pesante
e a cassetta c’era un contadino e sul carro, immersi nel fieno,
una donna con un fazzoletto in testa e un bambino dai grandi occhi
che andavano senza dubbio nei campi; e ancora quel frastuono sul pavé nell’alba silenziosa di ’Otociaz m’indusse a sollevare la testa
e vidi un’autoblindo, ma il suo frastuono sul pavé non si sarebbe distinto da quello del carro,
e dalla botola emergeva la testa di un soldato giovane con la bustina piegata sull’orecchio sinistro,
e l’autoblindo sbandò, rientrò nella sua carreggiata con un guizzo animale.
Fino alle sei del mattino carri agricoli e autoblindo scossero il calmo silenzio di ’Otociaz
cacciando dalle chiome dei platani che nascondono le bianche facciate
stormi di passeri, svegliando il postino, il direttore del kombinat, la vecchia maestra, noi due forestieri insoliti,
carri agricoli e autoblindo verso la zona dei terreni coltivati e del pascolo,
senza che l’autoblindo danneggiasse il raccolto o volesse superare il cavallo pacifico,
ma soldati, donne e bambini nell’aria mattutina di ’Otociaz,
ma carri agricoli e autoblindo parevano dirigersi allo stesso posto, quello dove vivono le timide lepri e i fagiani,
verso una patria che per due ore a ’Otociaz abbiamo sognato spiando tra i platani.
21
Dissi a Oscar Davicio «abbiamo un’idea approssimativa del mondo e un’idea approssimativa dell’Europa»,
e Oscar Davicio «avete un’idea approssimativa della Serbia», e io «un’idea approssimativa dell’Italia»,
e Davicio «la Serbia è qualcosa», e io «la Serbia è come il mar dei Sargassi,
una zona di calme correnti circolari, l’occhio di un ciclone storico
generato dalla zuffa dell’est e dell’ovest, dove galleggiano rottami come nel mar dei Sargassi,
o nubi turchine come nell’occhio calmo dei cicloni»,
e Davicio «la nostra letteratura», e io gli risposi «la nostra»,
e i serbi erano allegri come ragazzi
e avevano grandi mani e franchi sorrisi
e come pirati dalmati appostati dietro le isole
s’impadronivano di questi velieri naufragati (cultura francese e russa),
varcavano leggeri come uccelli questi brandelli di nubi turchine (Chlebnikov e Michaux) che galleggiavano nell’occhio calmo del ciclone,
bravi ad uccidere re, ad affrontare con barconi dalmati incrociatori tedeschi,
e il loro yogurt sgorgava dal pascolo e l’odore del loro sudore era diverso da quello del sud
e nella loro lingua l’amore fluiva tra parola e parola come la resina tra le scaglie del pino.
22
Ci sono spiagge dove Arianna non potrebbe lamentarsi di Teseo che l’ha abbandonata,
spiagge per un’estate-albicocca, con piedi bruni che si muovono su ghiaie di peppermint,
liberi di pensare al diluvio o all’ora del pranzo,
e la chiave della macchina è in camera sotto il cuscino assieme a un silenzioso scorpione,
l’alluminio resiste all’ossido e non fa tremare i grandi cristalli,
c’è soltanto l’esaltazione del corniolo che non paga posteggio
e il cicaleccio dei cardellini nella pineta in lite per quattro pignoli.
Il sangue non è acqua e si hanno erezioni di maschi per giovani donne
(voglio dire: torsi di maschi che spuntano ritti tra le rocce sonore)
e per fortuna l’acqua non è sangue ma soltanto idrogeno ossigeno e sali
altrimenti lambirebbe queste coscie ben levigate, ci sarebbero fortunali per questi ripidi dorsi.
Perciò l’estate-albicocca per molti è soltanto copula e conto d’albergo
e di quello che a noi ha confidato il garbino, resta a loro soltanto un sentore di salso tra i denti,
una formica dentro i vestiti, un ago di pino tra le lenzuola dell’ultimo sonno,
un’orma di catrame sotto il calcagno che nemmeno la nafta cancella.
23
Il telegrafista che porta un telegramma
il bambino che porta i fiori alla maestra
il garzone che porta il pane alla signora
portano qualcosa per gli altri
e riportano qualcosa per sé.
Il telegrafista una mancia
il bambino un bel voto
il garzone un’occhiata della bella signora.
E il telegrafista il bambino il garzone
ritornano a casa
e non si preoccupano
se il telegramma recava cattive notizie
se i fiori sfioriscono presto
se il pane era vecchio.
Chi fa commissioni ha cuore leggero
e torna a casa leggero
portando sul manubrio o dentro la borsa
una mancia un bel voto un’occhiata.
24
Abbiamo corso da bambini la corsa dei sacchi
traballando goffi verso un traguardo di mele
e da grandi
con le gambe sciolte in apparenza
puntiamo ad altre mete,
ma nessuno di noi ha discusso la norma
che presiede alla corsa, nessuno
si è accorto, se non troppo tardi, che la struttura era data,
che l’espansione dell’umano trovava confini
nei legislatori e nei prìncipi,
che un editto poteva esiliare occhi castani
o capelli biondi,
un piano industriale mettere fine ai miosotidi;
che il poeta era libero soltanto nel regno dei segni
(anche se poteva chiudere in una bottiglia
il suo messaggio e lanciarlo al futuro
attraverso la lenta corrente degli anni);
anche se poteva questo: puntare al futuro
come a un traguardo di mele
correndo nel sacco delle sue parole,
sgambettando nella sua goffa prigione di iuta
in un mondo così veloce!
25
Ma come rendere più trasparente questa sacca d’aria dove viviamo?
Siamo dentro alle cose e con le cose e non c’è immagine senza le cose
e nessuna è sciolta né c’è possibilità di un loro riscatto senza l’animale politico.
Noi tendiamo allo schema e lo schema ci risponde come una lente incrinata
moltiplicando i petali del rododendro o rompendo in due la testa dell’uomo,
in ogni caso rubandoci pezzi di realtà che non ci riesce di mettere a fuoco.
Eppure lo schema è necessario all’animale politico
che soltanto può comporre il gioco di pazienza delle cose dentro le quali viviamo
e con le tessere colorate delle cose ricostruire il disegno dell’uomo,
ma lo schema significa perdere un milione d’impercettibili dati che fanno reale la nostra presenza
e ideologizzare significa perdere ancora natura,
e qui è la crisi vivente negli occhi dell’uomo come nella pinna del pesce che di quegli occhi ha bisogno:
per liberare la natura è necessaria la storia
ma fare storia significa perdere ancora natura.
26
Per partito preso le fragole continuano a crescere e i frutti di rosa selvatica arrossano le siepi anche se nessuno li coglie.
Essere uomo significa essere urbano e dimenticare l’alone luminoso degli antichi pittori olandesi.
Noi avevamo portato una colazione al sacco per girare a lungo in metrò
e un libretto di devozioni per superare i posti di blocco del neocapitalismo
sognando impossibili salvezze in scapolari di foglie o in medagliette di nuvole,
prendendo i clacson per violini e le camicie da notte per pepli.
E tuttavia per partito preso il merlo torna a fischiare
e ci gabella il cemento per legno e la ninfomane per pastorella.
Ci si imbatte nella verità poche volte come camminando scalzi in un coccio tagliente.
Eppure per partito preso i settembrini fioriscono ancora, si stringono l’uno all’altro come lana di un gregge
e quando tramontana li scuote, contano sulle dita il numero giusto delle sillabe.
Io inganno gli altri oppure le cose ingannano me.
Ho una collezione di ombrelli ma da dieci anni non piove,
il mulino non c’è più e il vento continua a soffiare.
LA RESSA
Toccati dallo spirito nel sonno
ci siamo svegliati più buoni.
Fanno ressa con mille proposte,
hanno le braccia cariche di doni.
Si attendono molto da noi:
le fauci gorgogliano amore.
È scomparso il gonfio livore
della burrasca da Oslo ad Hanoi.
Stanotte il mondo è cambiato?
È vero, da un milione di notti
cambiava: ma in vecchie botti
non si può chiudere il vino nuovo.
Non si sono spostati di un millimetro,
non hanno deposto gli antichi pensieri.
Ci vorrebbero arresi al loro ieri,
ciechi di fronte al baleno del mondo.
Come se osasse l’inverno
proporre all’implacabile stagione
che già urge nei rami e dispone
vittoriosa i suoi giorni e i suoi fiori:
«Non sgorgare, ruscello di calendule,
non traboccare dal monte al piano,
ma lasciamo che tremino gli aceri
sotto la frusta della tramontana».
IL SALTIMPALO
Il saltimpalo sulla cancellata
di cemento
accendeva d’un imprevisto squillo
l’aria del pomeriggio sonnolento.
Lungo la ferrovia
c’era solo quel segno color sangue
nell’ora della siesta.
Io guardavo dall’aula, ancora vuota,
della scuola campestre.
Quali vaste frontiere,
quali strani domini potevano
acquietare il mio cuore?
Conoscevo il segreto degli uccelli
e dei fiori,
il minerale azzurro dei linguaggi,
ma mi pareva cosa assurda chiedere
pietà dei miei errori,
ch’erano errori d’uomo e non valevano
pietà se di poeta solamente.
Oh, l’umano avvenire,
per altre vie, in più limpidi atti,
non farebbe ritorno?
Con quali patti
conciliare linguaggio e presente?
Pensavo a un verso
di tutti come il tuono,
come il cielo e le stelle,
come saranno le macchine un giorno.
Non più materia di rara conquista,
poi frastornato scialo.
Con un rapido guizzo il saltimpalo
oltre i binari mi sparì alla vista.
CONSOLATIO AD UXOREM
Autunno è il minuscolo seme nel vento,
è il colore di terra del tuo cappotto,
scarpa, larva, codirosso
tra le ultime scintille dei miosotidi.
Perché fare il maestro di scuola?
Tonfano i ricci ed è sempre più tardi.
L’ultimo lampo d’estate ha lasciato
un alone bianco nei tuoi sguardi.
Forse dovrei cercarmi un impiego,
avremmo in futuro dei giorni più lieti.
Oggi in uffici di liscio metallo
la grande industria si apre ai poeti.
Ma mi vesto da uomo morale,
mi puntello ostinato coi versi.
O anni e anni dispersi
ragionando di bene e di male.
Se un giorno la neve cadrà
su queste remote colline
dove la più tenue verità
ha lo stesso rimbombo delle mine
di mezzogiorno, allora tenerezza
sibilerai come una frustata;
lacrima, sarai acido;
mia giovinezza, sarai mano armata.
Saremo in viaggio noi due
e in un vagone caldo e raccolto
farò zucchero filato della luce
che la neve nell’aria avrà sciolto.
Essi avranno le loro parole
che vedremo dai finestrini
alte e luccicanti nel sole
come le vette degli Appennini.
E le nostre saranno di quarzo,
irrigidite nella fredda coltre,
ma si scioglieranno come a marzo
al fragore del treno sul ponte.
Sprizzerà primavera come un lampo
dal cuore, e giunti alla capitale
il Presidente taglierà il nastro
del sonante poema nazionale.
DIRETE
Direte: Io l’ho conosciuto,
ma per adesso è sufficiente questo
amore che ci lega. Tutto il resto
esce dal nostro compito presente.
Direte: È nato qui,
ma la città sarà diversa ormai.
Banchieri, arcipreti, merciai
cancelleranno le nostre strade.
Era bravo, direte:
e scorrerà su lui scrittore arcaico
di più fresche parole un fiume rauco
profondo come il Lete.
L’ALLODOLA
La neve era un margine bianco
alla pagina fitta del tempo,
un’elica di vento sul calanco,
la tomba dell’allodola stecchita.
Una volta l’allodola
cantava in un luogo di Gellio
(avicula parva, nomen cassita)
gettando monete e collane
dal cielo estivo,
quando i noccioli erano abellane
o còryli e il verso un fiore
secco in un vecchio libro.
Ora calchiamo le bianche colline
in cerca dell’allodola,
nella burrasca spenta canzone.
Ma quando il tempo sarà tutto bianco
chi ripeterà il nostro nome?
VERSI D’AMORE
Mi sono detto: bisogna scrivere
versi d’amore,
e ho preso la bava di una lumaca
e ne ho fatto ceralacca per sigillo
di lettere piene di sospiri,
e ho preso sangue di rondine
per farne inchiostro di parole chiare
e ho preso sudore di piedi in corsa
per farne ali di cuori ansanti.
Fallimento. La porta non riceve
che la sua chiave
e chi reca grimaldelli è colpevole.
PIOGGIA
Per cinque minuti qualcosa è mutato nel mondo,
i fiori hanno smesso di tinnire:
il polline si è fatto di ghiaccio:
gli uccelli si sono fermati nell’aria:
il becchino è rimasto con la zappa sospesa sul capo:
la luna ha incrociato leggera la strada del sole:
le finestre si sono aperte in silenzio:
mille città hanno cominciato a sorridere:
gli amanti si sono guardati,
a lungo guardati:
e ha preso a piovere.
Che amore c’era intorno, che cerchio di zenzero e canfora
e come luccicavano tutte le cose.