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L’appariscente casinò era un’isola di opulenza nel mare di desolazione della città di Cartagena.
Alex Riley si guardava attorno incredulo, pensando che non potesse esserci maggior contrasto tra la taverna in cui si era trovato fino a poco prima e quell’edificio decorato con azulejos
di Triana, mobili di Vienna e lampadari di cristallo della Boemia.
Distavano meno di duecento metri l’una dall’altro ma, dalla fine della guerra civile, li separava un muro invisibile e insormontabile, un muro che era stato innalzato a Cartagena come nel resto della Spagna per dividere vincitori e vinti. Era stata una guerra fratricida che, seppur terminata ormai da due anni, continuava a mietere centinaia di vittime all’anno in quella città dove qualsiasi persona sospettata di aver collaborato o anche solo simpatizzato con la fazione repubblicana veniva detenuta nel carcere militare o passata direttamente per le armi nel tristemente noto campo sportivo dell’Arsenal.
Ma ciò che realmente inquietava il capitano del Pingarrón era il fatto che una buona parte dei clienti del casinò era composta da ufficiali dell’esercito agli ordini di Franco, contro cui lui stesso aveva combattuto per più di due anni.
Se qualcuno di quei militari avesse sospettato di avere di fronte un ex membro del Battaglione Lincoln delle Brigate Internazionali, si sarebbe trovato con le mani legate dietro la schiena con la concessione di un’ultima sigaretta davanti a un plotone di esecuzione prima di avere il tempo di aprire bocca.
Sebbene tentasse di mostrarsi tranquillo mentre seguiva i passi di Palermo verso il salone interno, tutti gli allarmi e le sirene nella sua testa gli inviavano disperati segnali di pericolo, come un sottomarino che sta colando a picco.
In fondo, pensò guardandosi attorno, spedire l’equipaggio a cenare in un localino poco distante era stata una buona idea. Se la sua sola presenza destava di per sé degli sguardi sospettosi tra gli
oziosi militari che chiacchieravano in gruppetti attorno ai tavoli, non voleva nemmeno immaginare cosa avrebbe significato la comparsa di tutti loro insieme.
-Qui non sembra esserci miseria, eh? –gli domandò Palermo a voce bassa mentre camminava avanti a lui.
-Perché siamo venuti in questo posto? –chiese Riley, cercando di non lasciar trasparire la crescente inquietudine che provava.
-Si mangia bene –rispose l’uomo.
-Non mi prenda per il culo –sibilò.
Nicholas Palermo si fermò di botto, il suo atteggiamento improvvisamente serio.
-Deve incontrare una persona.
-Non sono venuto qui per farmi degli amici –rispose Riley, ottenendo in risposta un sorriso privo di umorismo.
-E non se ne farà, glielo assicuro –replicò senza ulteriori spiegazioni, riprendendo a camminare.
Alex Riley vacillò per un momento, ma finì per seguirlo controvoglia.
Non gli piaceva per niente quella situazione, né quel posto, né il trovarsi circondato da militari che gli avrebbero sparato senza pensarci due volte. Ma soprattutto, non gli piaceva quel tizio con gli occhi da dalmata che aveva stampata in fronte la scritta «pugnalata alle spalle».
Dopo aver attraversato il patio del casinò, salirono su per un’elegante scalinata di marmo fino al primo piano, dove Palermo si fermò davanti a una porta in legno a doppio battente su cui picchiettò con le nocche.
Un attimo dopo, un uomo in abito e dall’aspetto di un pugile in pensione si affacciò alla soglia. Rivolse uno sguardo interrogativo a Palermo e un altro palesemente diffidente al capitano.
-Il signor March ci sta aspettando –gli comunicò l’uomo di Gibilterra.
Il cuore di Riley mancò un battito nel sentire quel nome. Non immaginava potesse trattarsi di lui.
Joan March non solo era l’uomo più ricco di tutta la Spagna, ma il fatto di essere stato il principale finanziatore del colpo di stato di Franco, gli aveva assicurato uno status e un’immunità pari a quelli delle più alte cariche politiche e militari del Paese. Ma ciò che non compariva nella biografia ufficiale, pur essendo un segreto di
Pulcinella, era che il milionario maiorchino era anche il maggior contrabbandiere e trafficante di quella Spagna del dopoguerra, i suoi tentacoli si estendevano ben oltre le frontiere spagnole e vendeva segreti militari agli inglesi con la stessa nonchalance con cui riforniva di combustibile in alto mare i sottomarini nazisti con la sua flotta di petroliere. Quella totale assenza di scrupoli nel suo modo di fare affari, sommata all’impunità di cui abusava grazie alla sua amicizia con Franco, faceva di lui un uomo estremamente pericoloso e da cui era meglio tenersi alla larga.
Alex Riley capì che era troppo tardi per darsela a gambe levate quando il bestione alla porta fece un passo indietro e li invitò a entrare con un gesto che aveva più l’aria di essere una minaccia.
La porta si chiuse alle loro spalle, e mentre un secondo gorilla li perquisiva –entrambi, osservò sorpreso Riley-, si rese conto di trovarsi in una sorta di biblioteca, arredata con alcuni scaffali colmi di vecchi libri rilegati in pelle e delle poltrone dai grossi braccioli poste attorno a un tavolo rotondo.
Ma lì non c’era nessuno.
-Aspettate qui –gli ordinò la prima guardia con un tono che non ammetteva repliche.
Con un cenno, Palermo lo invitò a sedersi e il capitano del Pingarrón si accomodò distrattamente su una delle poltrone. La sua mente era molto lontana da lì, intenta a meditare sui possibili modi per annullare l’accordo e fuggire da quel casinò e da quella città il più in fretta possibile. Ma tutti i possibili scenari che immaginava finivano con lui e il suo equipaggio nel fondale della baia con una pietra legata al collo.
Un’altra cosa ben nota a tutti era il fatto che Joan March non accettava un «no» come risposta.
All’improvviso, una seconda porta all’estremità opposta della biblioteca si aprì e un’attraente donna sulla trentina dai capelli rossi, gli occhi azzurri e vestita impeccabilmente con gonna e giacca grigia fece capolino. Rivolse un lungo sguardo a Riley, come se dovesse stilarne una stima, mentre riservò a Palermo un semplice cenno della testa.
-Andiamo –disse l’uomo ad Alex, alzandosi e abbottonandosi la giacca.
Riley esitò in modo impercettibile prima di alzarsi a sua volta e seguire i passi di Palermo. Per sua sorpresa, la donna gli fece un
occhiolino civettuolo un attimo prima che varcasse la soglia in direzione del suo pericoloso –e presumibilmente breve –futuro.
Quello che immaginava dovesse essere un ufficio, si rivelò invece una sala di lettura leggermente più piccola della biblioteca, in cui le spesse tende impedivano l’ingresso della luce esterna e l’illuminazione era affidata a un paio di rachitiche lampade elettriche che pendevano pigre dall’alto soffitto.
La segretaria passò accanto a Riley e si piazzò dietro una poltrona su cui un uomo di bassa statura sulla sessantina, in completo blu e dall’aspetto di una specie di notaio, leggeva il giornale in silenzio. Amplificati da degli spessi occhiali rotondi dalla montatura nera, gli occhi dell’uomo sembravano uscire dalle orbite mentre seguivano le righe da sinistra a destra.
A Riley venne in mente l’immagine di un rettile che aveva visto una volta nel sudest asiatico. Un animale che cacciava con la lingua, cambiava colore e aveva degli occhi enormi che riusciva a muovere, a comando, in tutte le direzioni. Il paragone tra quel lucertolone acchiappamosche e l’uomo che aveva di fronte gli provocò una risata involontaria.
-La faccio ridere? –domandò la voce stridula dell’uomo che aveva alzato gli occhi dal giornale.
Riley, tornando improvvisamente alla realtà, inghiottì la saliva.
-Io... ehm, no. Certo che no –mormorò.
-Sa chi sono?
Davanti al pericolo di balbettare ancora, il capitano del Pingarrón annuì in silenzio.
-Bene –disse l’uomo dalla poltrona, apparentemente abituato al fatto che la gente incespicasse con le parole in sua presenza-. E sa perché si trova qui?
-Non... non esattamente.
Il sessantenne rivolse uno sguardo interrogativo a Palermo, in piedi accanto a Riley.
-Ha accettato il denaro –spiegò in risposta alla muta domanda.
Gli occhi spropositati dell’uomo tornarono su Riley.
-Ah, allora sì che lo sa. Quello che non sa è cosa implica l’accordo che ha accettato.
-Non ho avuto scelta –affermò Riley.
L’uomo guardò ancora verso Palermo, che sembrò allarmarsi nuovamente.
-L’hai minacciato o obbligato in qualche modo, Nicholas?
-No, signore. Gli ho messo il denaro davanti e lui l’ha preso.
-Allora sì che ha avuto scelta, capitano Riley.
Alex non seppe molto bene cosa rispondere a quell’affermazione e, ad ogni modo, iniziava già a sentirsi a disagio per quello stupido giochetto.
-Cosa vuole da me? –domandò, con un tono più impertinente di quanto avesse voluto.
Nella stanza piombò un improvviso silenzio. Dopo aver messo da parte il giornale, March intrecciò le dita e studiò da capo a piedi l’uomo dagli occhi ambrati che aveva di fronte.
-Da lei non voglio niente –spiegò con tranquillità-. Quello che voglio è qualcosa che possiede un uomo che in questo preciso istante sta viaggiando su una nave diretta a Orano, nella costa settentrionale dell’Algeria. È qualcosa che quell’uomo ha rubato e che io vorrei recuperare.
Riley sbatté le palpebre confuso.
-Un ladro? Vuole che acciuffi un ladro? Per questo c’è la polizia.
Joan March scosse la testa.
-Non mi ha capito. –Fece schioccare la lingua infastidito-. Non me ne frega niente del ladro. Quello che voglio è la merce.
Riley annuì.
-Capisco. Vuole che vada a Orano e recupe...
-No –lo interruppe-. Deve agire prima che arrivi a Orano.
Al capitano servirono alcuni secondi per comprendere cosa gli veniva chiesto.
-Vuole... –azzardò- che recuperi quella merce in alto mare?
-Esatto.
-Ma perché non aspetta che sbarchi?
-La merce non può raggiungere la sua destinazione per nessun motivo. È chiaro?
-Quello che lei mi sta chiedendo è di abbordare una nave in alto mare in tempo di guerra. Tutto ciò ha un nome: si chiama suicidio.
-Se fosse semplice –precisò l’uomo-, non la pagherei diecimila franchi svizzeri per il lavoro, non crede?
Alexander Riley inspirò a fondo, tentando di riordinare le idee.
Per farla breve, gli stava proponendo di compiere un atto di pirateria. Qualcosa che andava contro i suoi più profondi principi morali e il suo stesso istinto di sopravvivenza. Lui era un contrabbandiere, non un pirata. Se avesse oltrepassato quella linea e fosse sopravvissuto abbastanza per raccontarlo, non ci sarebbe più stato ritorno. Riassumendo: se non avesse accettato il lavoro, alla luce di tutte le informazioni che aveva ottenuto, non sarebbe uscito vivo da quell’edificio, ma se l’avesse accettato, anche nell’improbabile caso in cui lui e il suo equipaggio fossero sopravvissuti, sarebbero stati segnati per il resto della vita, e prima o poi, sarebbero finiti appesi a un cappio.
-Ventimila –disse infine, emergendo dai suoi pensieri.
-Come dice?
-Dovrà pagarmi ventimila franchi se vuole che facciamo il lavoro.
Il milionario accennò un sorriso di fronte a quella richiesta inaspettata.
-Cosa le fa pensare di essere nella posizione di contrattare? –domandò divertito-. Lei ha accettato diecimila. Questi sono gli accordi.
-Non più –insistette il capitano con fermezza -. Quello che mi chiede è molto complicato e può avere delle conseguenze imprevedibili per me e per il mio equipaggio. Perciò accetto, ma non lo farò per meno di ventimila.
Il sorriso svanì dal volto di March quando capì che non si trattava di uno scherzo.
-Non mi piace che la gente venga meno alla parola data –sibilò minaccioso.
-E non lo farò –precisò Riley-. Sto solamente ristabilendo i termini dell’accordo. Farlo per meno sarebbe un’emerita stupidaggine.
Per sorpresa di Alex, senza dire una parola il banchiere prese il giornale che aveva messo da parte e si accinse a rimettersi a leggere, come se quella conversazione non stesse avendo luogo.
La strana situazione si protrasse per quasi un minuto, durante il quale il capitano rimase in piedi in silenzio, in attesa che succedesse qualcosa.
A quel punto, si voltò verso Palermo per capire cosa stesse succedendo.
-Tutto qui? –gli domandò con un sussurro-. Abbiamo fini...?
-Ha quarantotto ore –disse March all’improvviso e senza alzare lo sguardo dalla lettura.
Riley aprì la bocca per protestare, ma prima che una sola parola gli uscisse dalla bocca, il banchiere aggiunse:
-La Genoa
ha fatto scalo oggi a mezzogiorno a Palma di Maiorca, e prevede di arrivare a Orano domani sera. Per allora, lei avrà già recuperato la mercanzia che dovrà consegnare il giorno seguente. –Voltò pagina e alzò un nodoso indice in direzione della giovane donna dai capelli rossi-. La mia assistente, Noemí, le fornirà i dettagli necessari.
L’accordo era siglato. Riley capì che, volente o nolente, non poteva tirarsi indietro.
-D’accordo –si sentì dire, con una sicurezza che non sapeva da dove venisse.
Nicholas Palermo, questa volta, gli fece un cenno con il capo per indicargli che dovevano lasciare la stanza, dopodiché aprì la porta e si fece di lato per lasciar passare Riley. Quando si accingeva ad andarsene, il banchiere disse alle sue spalle:
-E, capitano... le conviene non deludermi. –Un sorriso inquietante affiorò sulle sue labbra mentre lo trafiggeva con quegli occhi da camaleonte-. Capisce cosa intendo?
Riley si voltò e lo guardò per un istante, calibrando la minaccia implicita nelle sue parole. Ma il suo sguardo si spostò immediatamente sulla giovane che attendeva dietro di lui.
Con modi deliberatamente lenti, la segretaria aveva estratto un rasoio da barba dalla tasca superiore della giacca. Lo aprì con un clic e passò la lama lungo la generosa scollatura con fare provocante. Una sottile linea rossa sgorgò dalla ferita e, con un’espressione di piacere, passò un dito sul sangue e se lo portò alle labbra, assaporandolo con un godimento tale che le si dilatarono le pupille.
Riley concluse, senza troppo sforzo, che a quella tipa mancava qualche rotella.
Il siparietto del coltello, in fondo, era un messaggio: uno strano modo di avvertirlo che, se avesse fatto qualche cazzata, si sarebbe guadagnato una morte lenta e dolorosa.
Il capitano del Pingarrón strinse i pugni e, senza aggiungere una sola parola, diede le spalle al banchiere e alla sua assistente e uscì dalla stanza con fare preoccupato.
Se c’era una cosa che gli era stata estremamente chiara, era che quella storia non poteva finire bene.