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Il taxi sgangherato attraversò Orano da est a ovest, circolando in una città che poco aveva a che fare con l’immagine preconcetta di un’urbe nordafricana. Le strade erano ben lastricate, i marciapiedi ampi, sebbene stranamente sprovvisti di alberi che facessero ombra, e la maggior parte degli edifici erano stati costruiti secondo lo stile Haussmann, così tipico della metropoli. Se non fosse stato per il sole cocente e per le donne con il tipico haik
bianco che le copriva dalla testa ai piedi –conferendo loro un curioso aspetto che a Riley ricordò delle enormi cicogne-, avrebbero potuto pensare di trovarsi a passeggiare in qualche quartiere parigino.
-Era già stato qui prima d’ora, capitaine
? –domandò Julie, rompendo il pesante silenzio che avevano mantenuto da quando il tassista aveva pronunciato il nome della malattia.
-Qualche volta –rispose distratto, senza smettere di guardare fuori dal finestrino.
-C’è molta gente per strada. Non sembra... che ci sia una piaga in città.
Riley non riusciva a smettere di riflettere sull’inquietante nesso tra il loro lavoro e ciò che stava succedendo in quella città, cercando inconsciamente dei segnali che lo aiutassero a separare una cosa dall’altra. Forse Julie stava pensando lo stesso, e la sua osservazione era frutto del desiderio di sbagliarsi.
-No, non sembra –ammise, notando tuttavia che nell’ampia Boulevard Clemenceau, sulla quale circolavano, c’era molto meno traffico rispetto all’ultima volta. Ma in realtà non poteva esserne sicuro.
A quel punto la strada si aprì sulla piccola e raccolta piazza della Bastiglia, al cui centro si ergeva una fontana ora asciutta, circondata da aiuole fiorite, palme e aranci. Il taxi fece il giro della piazza e si fermò davanti a un elegante edificio bianco di cinque piani, di fronte alla cui porta attendeva sull’attenti un portinaio in uniforme con tight e stravagante cappello a cilindro.
Un facchino arrivò immediatamente a prendere le due valigie degli ospiti appena arrivati. Mente Julie lo seguiva fino alla reception dell’albergo, Alex pagò il tassista il doppio di quanto aveva chiesto.
-Io e la signorina non siamo sposati –gli spiegò con un occhiolino-. Mi capisce, vero?
Il tassista annuì comprensivo, come se finalmente ogni tessera andasse al proprio posto.
-Naturellement, monsieur
.
-Perciò le chiedo la massima discrezione. Lei non ci ha mai visti, d’accordo?
-Non vi ho mai visti –ripeté, e sfoderò un sorriso complice e sdentato mentre riponeva il denaro nella tasca della camicia-. Mai.
Fingendo di essere solo amici, presero due stanze contigue, sotto falso nome, al secondo piano. Riley aprì la porta della propria camera e si buttò sul letto con il solo desiderio di dormire un paio d’ore. Ma prima che potesse chiudere gli occhi, qualcuno bussò alla porta.
-Sì? –chiese alzando la testa.
-Service de chambre, monsieur
–rispose una voce da adolescente-. J’apporte le champagne que vous avez commandé
.
Controvoglia, Alex si alzò in piedi e dopo aver dato un’occhiata dallo spioncino per confermare che si trattasse davvero di un facchino, fece scorrere la serratura e aprì la porta.
Di fronte a lui, lo stesso giovane magrebino che li aveva aiutati con le valigie reggeva con entrambe le mani un pesante cestello per il ghiaccio in cristallo dal quale spuntava il collo dorato di una bottiglia di Moët & Chandon.
-Grazie –disse al ragazzo, mettendogli in tasca un biglietto da dieci franchi-. Come ti chiami?
-Aziz, monsieur
.
-Beh, ascoltami bene, Aziz. Domani avrai altri dieci franchi se ogni due ore mi porti su dell’altro ghiaccio per lo champagne.
-Oui, monsieur
. –Sorrise entusiasta-. J’apporterai toute la glace qu’il faut.
-Stupendo. Non dimenticartene.
Detto ciò si voltò, chiuse la porta con il piede e andò a piazzare il cestello sul tavolo decorato, si avvicinò alla valigia che si trovava
ancora sul letto, la aprì e ne estrasse, da mezzo ai vestiti, l’involucro di tela e elastico. Con attenzione, iniziò a svolgere gli strati che avvolgevano l’oggetto come foglie di lattuga fino a quando non apparve la scatola di ottone di Rieux. Trattenendo il fiato tolse la sicura e aprì il coperchio. Nell’interno foderato di feltro nero, adagiata in un buco fatto su misura, c’era una piccola provetta di vetro piena di una sostanza densa e trasparente.
Quando si riebbe dalla sorpresa del fatto che quell’oggetto così piccolo valesse tanto denaro, constatò con sollievo che l’ampolla non solo era ancora intatta, ma era anche fredda al tatto. Reggendo la scatola come se fosse un neonato, rimise il coperchio e si avvicinò al tavolo. Tolse quindi la bottiglia di champagne dal ghiaccio e al suo posto vi introdusse la scatola, immergendola fino in fondo tra i cubetti.
Contemplò la bottiglia per un istante, indeciso se aprirla o no. Aveva tempo a sufficienza prima di andare a cena e incontrare il resto dell’equipaggio.
-Dopo –si disse infine, conservandola nello scrittoio facendo così mostra di un insolito autocontrollo.
Alle nove di sera, con indosso gli stessi vestiti con i quali era arrivato in albergo, ma pettinato e ripulito, bussò alla porta di Julie, che aprì immediatamente, comparendo sulla soglia.
-Pronta? –le chiese.
La francese si portò le mani sui fianchi e sorrise con malizia. Aveva indossato un vestito scollato bordeaux che le arrivava appena sopra il ginocchio.
-A lei cosa sembra, capitaine
?
Riley la guardò da capo a piedi con ammirazione, inghiottendo la saliva.
-Sei molto bella –le disse con il tono più neutro possibile.
-Merci
–lo ringraziò lei felice, come una bambina con un vestito nuovo.
Riley la invitò ad accompagnarlo con un gesto e Julie uscì in corridoio, chiudendosi la porta alle spalle.
Mentre raggiungevano l’ascensore, Alex la guardò di nuovo.
-Ma... quanta roba hai portato? –domandò, sorpreso che la sua valigia fosse rimasta a galla con tutto quel peso.
Julie lo guardò con la coda dell’occhio.
-Non si chiedono queste cose a una signora, capitaine
.
Dopo aver consumato una cena pantagruelica nel ristorante dell’albergo, alla quale non mancò un ottimo filetto ciascuno, una bottiglia di borgogna e un gelato gigante per Julie, decisero che, invece di prendere un taxi, sarebbe stata una buona idea camminare fino al quartiere vicino al porto dove si trovava l’edificio in cui avevano fissato l’incontro con il resto dell’equipaggio.
La notte era finalmente calata sulla città e, sebbene la polvere del deserto velasse le stelle privando di una certa bellezza il cielo notturno, la piacevole temperatura e la brezza marina rendevano quel momento ideale per fare due passi per le tortuose stradine del centro storico.
Percorsero la scoscesa Rue Philippe in direzione del porto e passarono accanto alla moschea del Pascià, con i suoi muri di calce e lo slanciato minareto in muratura. La maggior parte dei negozi erano chiusi, ma paradossalmente quello era il momento del giorno con maggior affluenza di persone per strada. Le sale da tè piazzavano i tavolini in strada, dove algerini e occidentali fumavano tabacco di mela nelle shisha
mentre osservavano la gente passeggiare, e numerose bancarelle di frutta e cibo facevano affari d’oro, pubblicizzando a gran voce succhi di frutta con ghiaccio e spiedini di pollo marinato che sfrigolavano in piccole graticole portatili. Un aroma seducente di cibo, tabacco e spezie impregnava la Rue Philippe come la corrente di un fiume intangibile diretto al mare.
Riley stava pensando che non sembrava una città afflitta dalla peste quando Julie si fermò all’improvviso, afferrandolo per un braccio.
-Capitaine
–mormorò spaventata, indicando un piccolo mucchio di spazzatura vicino al marciapiede.
Alex guardò nel punto che gli indicava e capì immediatamente il tono di voce della sua pilota.
Tra i resti di cibo, carta e il loro stesso sangue secco, giacevano morti una ventina di topi.
Istintivamente, bloccò il passaggio a Julie con un braccio e fece un passo indietro.
-Non avvicinarti –le ordinò.
-Non ne avevo alcuna intenzione.
Riley si guardò attorno, stupito dall’indifferenza con cui la gente mangiava, beveva e fumava a pochi metri dai topi morti, portatori della peggior piaga conosciuta dall’uomo.
-Il tassista aveva ragione... –ricordò Julie-. Non lo sanno.
Quella era l’unica spiegazione possibile, pensò Riley: il fatto che le autorità avessero occultato il fatto e disinformato la popolazione per non scatenare il panico. Ma il risultato era quello che avevano davanti: centinaia di uomini, donne e bambini che passeggiavano e conducevano una vita normale, ignari di quanto fossero vicini alla morte.
-Allontaniamoci da qui –grugnì, afferrando Julie per un braccio e trascinandola lungo la strada.
Riley sgomitò per farsi strada, desideroso di andarsene da lì e smettere di vedere i volti di tutta quella gente, estranea all’orribile destino che la minacciava. Appena vide una strada solitaria sulla destra, la imboccò senza lasciare la mano di Julie, come se stesse accompagnando una bambina a scuola.
Riley non rallentò il passo fino a quando la penombra della strada non li avvolse, lasciando alle loro spalle gli odori, le voci e i visi.
Julie, al suo fianco, lo osservò mentre camminavano, e perfino al buio riuscì a distinguere i muscoli della sua mascella che si contraevano e il suo sguardo fisso in qualche punto al di là della strada.
Su entrambi i lati dello stretto passaggio, le persiane e le controfinestre delle case intonacate erano chiuse. Le fiamme tremolanti delle lampade a olio illuminavano a stento il passaggio; nonostante ciò, Riley credette di vedere dei piccoli rigonfiamenti scuri trascinarsi negli angoli. Non volle nemmeno guardarli e tenne lo sguardo fisso davanti a sé come se non fossero lì.
Alla fine della strada, tuttavia, una piccola folla si ammassava davanti alla porta di una casa. Per un attimo Alex pensò di tornare indietro, ma non potevano passare la notte a evitare la gente, perciò decise di proseguire.
Alla luce proveniente dall’abitazione, vide che si trattava di una decina di donne algerine con il velo che facevano la fila per entrare al suo interno.
Gli passarono vicino, quasi strisciando alla parete dall’altro lato della strada. Ma quando passarono davanti alla porta, dei
lamenti di donna li fecero fermare.
Al di sopra delle teste coperte dal velo, intravidero l’interno della casa. In un solo istante videro diverse donne singhiozzare attorno a un tavolo basso in legno decorato con dei fiori. Al centro del tavolo, giacevano due rigonfiamenti coperti da un lenzuolo bianco. Capirono immediatamente che si trattava di una veglia funebre e che sotto il lenzuolo c’erano i defunti, simili ai tanti che Riley aveva visto in tutta la sua vita, soprattutto durante gli anni della guerra civile spagnola. Ma questa volta non erano in Spagna e i cadaveri non erano vittime di una guerra.
-Mon Dieu
... –mormorò Julie con la voce distorta dall’orrore-. Sono bambini.
Sui volti di Julie e Riley poteva ancora leggersi il terrore quando, mezz’ora dopo, si trovavano seduti al tavolo di un vecchio bar del porto. Era un locale buio e malandato, dalle pareti coperte di sudice piastrelle con motivi ad arabeschi, il pavimento seminato di stuzzicadenti usati e piccoli resti di cibo incastrati negli angoli. Si trattava di un bar, tutto sommato, consigliabile solo a marinai che spremono gli ultimi centesimi della loro paga o a delinquenti in cerca di un posto discreto dove concludere affari, di quelli in cui nessuno sa, vede o sente niente.
Li aspettava lì, attorno a un tavolino coperto di cicatrici in un angolo del locale, l’equipaggio del Pingarrón al completo, appena sbarcato dopo aver ormeggiato in un molo vicino all’imboccatura del porto.
-È così grave? –domandò César a sua moglie, dopo averle sentito raccontare di quanto stava succedendo in città.
-C’est terrible
–confermò lei con la voce rotta-. I bambini stanno... mon Dieu
. Moriranno tutti.
Un amaro silenzio seguì l’affermazione di Julie, nella cui espressione affranta l’equipaggio del Pingarrón poté leggere la portata della tragedia.
-E credete –intervenne Jack con lo sguardo fisso sulla bottiglia di birra Pélican
che aveva davanti, come se da questa potesse giungere una risposta- che ciò che vuole March, quello che aveva con sé quel dottore francese e che noi gli abbiamo preso sia... la cura.
Julie si strinse nelle spalle senza sapere bene cosa dire, e tutti
gli sguardi si concentrarono su Riley.
Alex rimase in silenzio, come aveva fatto praticamente da quando avevano messo piede nel locale, assorto nei propri pensieri. Ci mise un momento a capire che gli altri stavano aspettando una risposta.
-Non lo so –ammise, per poi aggiungere con un’alzata di spalle-: Però...
-Capisco... –annuì Jack-. Perciò...
Il capitano sospirò.
-Temo di sì.
Il gallego lo guardò a lungo.
-Allora –azzardò-, dovremo...?
-Non vedo altra scelta.
-Ma, come?
-Non lo so ancora.
Jack fece schioccare la lingua, contrariato.
-Merda.
-Già.
Il resto dell’equipaggio seguì lo scambio di frasi a metà come degli spettatori a una partita di tennis. Solo che in questo caso ignoravano completamente le regole del gioco.
-Si può sapere di cosa state parlando? –chiese finalmente César.
Jack guardò Riley con la coda dell’occhio.
-Spiegaglielo –lo incitò.
Il capitano del Pingarrón guardò uno per uno i membri del suo equipaggio, e prima di tutto li avvertì:
-Vi dico già che non vi piacerà.