15
Questa volta, Riley non alzò nemmeno le mani, consapevole di quanto sarebbe apparso assurdo farlo, essendo nudo. E Noemí non glielo chiese.
-Credevi davvero che fossi così stupida? –gli domandò scuotendo la testa-. Cazzo, mi sento quasi offesa.
Alex fece spallucce.
-Dovevo provarci.
-È questa la tua giustificazione? Dovevi provarci? –Fece schioccare la lingua con disapprovazione-. Ti facevo più furbo, capitano.
-È un errore che commettono in tanti.
Lei sbuffò infastidita, e quel gesto la fece sembrare molto più vecchia di quanto non fosse.
-E ora, cosa devo fare con te?
-Non sai se lasciarmi andare o farti prima un’ultima scopata?
Noemí sorrise con fare triste.
-Direi piuttosto che non so se ucciderti adesso o portarti da March e lasciare che sia lui a decidere cosa farne di te.
-Se posso dire la mia, preferirei la seconda opzione.
La donna scosse la testa, come se Riley avesse toppato la domanda più facile dell’esame.
-Ti sbagli se credi che in questo modo la farai franca. Se ti uccido qui e adesso con un colpo, soffrirai solo per un attimo e nel giro di un minuto sarai morto. Ma se ti porto da March... –sospirò per sottolineare il concetto- vorrà dare l’esempio, in modo che a nessun altro venga in mente di derubarlo, e ti assicuro che sarà decisamente peggio e di gran lunga più doloroso. Ha degli uomini che lavorano per lui, in grado di fare in modo che l’agonia duri settimane. Li ho visti all’opera –disse con un’espressione inorridita-, e sono sembrati troppo crudeli perfino a me.
Alex inghiottì la saliva mentre valutava la prospettiva di essere torturato fino alla morte.
In altre circostanze, forse avrebbe accettato il consiglio di Noemí e se ne sarebbe andato all’altro mondo dopo una notte di sesso, invece di finire in uno scantinato legato mani e piedi mentre lo facevano a pezzetti. Ma lì fuori c’era il suo equipaggio, e se ciascuno di loro aveva fatto bene il proprio compito sabotando la nave sulla quale contavano di partire lei e i suoi uomini, si sarebbero visti costretti a trattenersi  a Orano per diversi giorni, cosa che gli avrebbe offerto qualche possibilità di uscirne ragionevolmente bene da quella situazione.
-Forse posso convincere March che valgo più da vivo che da morto.
Noemí sorrise, non riuscendo a nascondere il suo divertimento.
-Certo. E anche a comprarti una nave nuova.
-Sarebbe fantastico.
La donna alzò gli occhi al cielo, e con la pistola gli fece cenno affinché la seguisse.
Riley obbedì, rientrando nella camera, dove lei gli indicò la testiera del letto dalla quale pendevano ancora le manette.
-Chiuditele dietro la schiena –gli ordinò senza smettere di tenerlo sotto tiro-, poi sdraiati sul pavimento, faccia a terra.
-Faccia a terra? –chiese Alex prendendo le manette-. Sei sicura?
-Faccia a terra, Casanova –confermò-. Non sei poi questo granché.
-Ehi, questo sì che mi ha ferito.
-Meglio, così inizi ad abituarti. E ora, sdraiati –gli ordinò ancora quando il capitano si fu stretto le manette.
Senza vedere altra via d’uscita, Alex si lasciò cadere sul tappeto, di nuovo alla mercé della donna. Le fibre di lana gli irritavano la pelle e, con la guancia a terra, nudo e con le mani dietro la schiena, si sentì più vulnerabile che mai.
-Se non dobbiamo scopare di nuovo –disse con la voce alterata dalla posizione scomoda-, forse avrei dovuto rimettermi i pantaloni.
-Zitto –gli ordinò in un sussurro.
A quel punto, con un gesto inaspettato, Noemí gli si sdraiò sopra circondandolo con le braccia, poggiandogli una guancia nell’incavo della nuca.
Non fece altro. Rimase semplicemente lì, immobile, fragile, in silenzio, abbracciandolo disperatamente, come una bambina che incontra suo padre in mezzo al bosco.
E quando Alex pensò che quella situazione non potesse essere più sconcertante, sentì vicino all’orecchio il suono soffocato di un singhiozzo e la calda umidità di qualche lacrima che gli scivolava lentamente lungo la schiena.
L’orologio a muro posizionato sul banco della reception dell’hotel indicava le nove del mattino quando le porte dell’ascensore si aprirono al piano terra, mostrando due uomini in abiti dal taglio europeo, sebbene un tantino demodé. Indossavano ampi cappotti grigi nonostante fosse ormai giugno e occhiali da sole, benché si trovassero all’interno di un edificio. Rivolsero delle occhiate di controllo ai pochi clienti che si trovavano in quel momento nella hall dell’hotel, e quando si ritennero soddisfatti, uscirono dall’ascensore e si piazzarono uno su ogni lato.
Alle loro spalle apparve Noemí, elegante e attraente con la sua appariscente chioma scarlatta, vestita con un sobrio tailleur grigio, borsetta in spalla e una valigetta metallica ammanettata al polso destro.
Al suo fianco, Alex Riley, alto, scuro, dagli occhi dorati e l’aria di chi non dorme da giorni, si guardò furtivamente attorno non appena le porte dell’ascensore si furono chiuse alle loro spalle. Teneva le mani unite davanti a sé, in modo innaturale, come se stesse pregando mentre camminava, coperte dalla sua stessa giacca per nascondere le manette che lo immobilizzavano.
-Stai cercando i tuoi amici? –gli chiese lei, con la mano libera affondata nella tasca della giacca dove teneva la Beretta, come Riley sapeva bene, pronta a sparare alla minima scusa.
-Eh? No, che dici –rispose con teatrale nonchalance-. Stavo cercando il ristorante. Mi hanno detto che la colazione qui è da leccarsi i baffi.
Noemí lo guardò con l’aria di non credere a una sola parola, ma ciononostante rispose:
-Non c’è tempo per la colazione. –Fece un cenno con il mento verso la porta e aggiunse-: Andiamo, ci stanno aspettando.
I due gorilla che li precedevano attraversarono la hall con passo spedito. Uno si piazzò al centro con fare vigile e l’altro si collocò vicino alla porta d’ingresso. Noemí e Riley seguirono i loro passi. Quando arrivarono all’entrata, il portiere aprì diligentemente la porta per farli passare.
Lei non degnò di uno sguardo il giovane magrebino con l’uniforme dell’hotel, ma Alex lo riconobbe eccome e, quando nel passargli accanto sentì che gli sfiorava il pantalone in modo apparentemente accidentale, capì che gli aveva lasciato qualcosa in tasca.
Temendo che Noemí o i suoi uomini potessero accorgersene, Riley non fece alcun cenno di riconoscimento verso Aziz, né si portò la mano alla tasca, reprimendo il desiderio.
Nell’uscire all’esterno, scoprì che due auto li aspettavano con il motore acceso, mentre un altro scagnozzo faceva il palo. Pensò che se invece di un hotel si fosse trattato di una banca, sarebbe sembrata una rapina da manuale.
Appena raggiunsero la seconda auto, un’antiquata ma imponente Lancia Astura del 1932, il gorilla aprì la portiera e Noemí gli fece cenno di andare per primo. Si accomodarono uno accanto all’altra nell’ampio abitacolo, mentre i due scagnozzi presero posto nei sedili di fronte a loro. Alex capì che non sarebbe stato facile controllare cosa gli aveva messo Aziz in tasca, ma era sicuro che si trattasse di un biglietto da parte dei suoi amici. Si domandò se fossero istruzioni su ciò che doveva fare, un avvertimento che indicava che qualcosa stava andando storto o la fattura dell’hotel dell’ultimo giorno.
Le due automobili partirono immediatamente, e Riley non riuscì a evitare di guardare all’esterno con la speranza di vedere Jack nascosto dietro una palma, con il pollice alzato ad assicurargli che andava tutto bene.
Ma lì non c’era nessun altro se non degli spazzini magri e apatici, appoggiati alle loro scope, distratti momentaneamente dalla partenza della piccola comitiva che imboccò Boulevard Joffre verso sud, in direzione opposta a quella che si supponeva dovessero seguire.
Riley lasciò trascorrere un paio di minuti, in attesa che svoltassero da un momento all’altro, ma ciò non avvenne. Girò la testa per constatare che la striscia azzurra del Mar Mediterraneo si allontanava sempre di più.
Il sorriso scaltro sul viso di Noemí gli comunicò tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Tuttavia, disse:
-Non andiamo al porto.
-No, non andiamo al porto –confermò lei con un sorriso soddisfatto.
Un brivido percorse la schiena di Riley quando capì che il suo piano di fuga si stava sgretolando. Forse Noemí aveva deciso di continuare via terra dopo che l’equipaggio del Pingarrón aveva sabotato la sua nave. Ma fino a dove? Alex calcolò quanto ci avrebbero messo a raggiungere Melilla, il centro spagnolo più vicino nel nord Africa a quasi cinquecento chilometri di distanza lungo strade infernali e sotto un sole cocente. Era una follia.
Si accorse che Noemí lo guardava insistentemente, come in attesa di una sua reazione man mano che traeva le sue conclusioni. Gli ricordò una gatta che osserva un topo mentre decide come mangiarlo.
-Ti stai chiedendo –azzardò lei- se sono così stupida da andare via terra fino ad Algeri o Melilla, non è così?
-In realtà, mi stavo chiedendo se potresti lasciarmi a una fermata dell’autobus e proseguire da sola con i tuoi amici. –Rivolse uno sguardo al tizio con l’aria da pugile che sedeva di fronte a lui-. Non mi entusiasma l’idea di stare dodici ore ficcato qui dentro. Inizia a puzzare da far schifo.
Sulle labbra di Noemí comparve un sorriso mentre con il dorso della mano gli accarezzava una guancia.
-Mi mancherai, capitano –mormorò con affetto.
A Riley quelle parole suonarono come un addio. Sospirò con il naso, tentando di far combaciare i ricordi della notte precedente con quella donna che lo stava condannando a morte.
-Non mi dirai dove siamo diretti –precisò invece, osservando come il veicolo svoltava a sinistra, verso la strada costiera.
-Perché ti interessa?
-Sono curioso.
Lei lo ignorò, riportando l’attenzione sul paesaggio al di là del finestrino, dove la città andava dissolvendosi per lasciare spazio a un paesaggio arido e sassoso.
-Facciamo un patto.
-Che tipo di patto? –chiese Riley, intrigato.
-Uno in cui io ti dico dove andiamo e in cambio tu mi dici cosa c’è scritto in quel biglietto che il portiere ti ha messo in tasca.
Riley aprì la bocca per negare, ma si ridusse tutto a un gesto vacuo.
-Non ho potuto leggerlo –confessò infine.
Noemí sollevò il mento e alzò le sopracciglia.
-E cosa aspetti? Non tenermi sulle spine.
Riley inclinò il corpo verso sinistra per raggiungere la tasca di destra con le mani ammanettate. Il gorilla seduto di fronte, quello con l’aria da pugile, si portò con discrezione la mano alla fondina che portava sotto la giacca e, con una smorfia che un tempo doveva essere un sorriso, esibì una dentatura con incisivi d’argento.
Alex fu tentato di fare un commento ironico sull’argenteria di sua nonna, ma in un momento così delicato sarebbe stato come darsi la zappa sui piedi.
Estrasse il bigliettino lentamente e, quando il gorilla fece per prenderglielo, se lo mise in bocca e iniziò a masticarlo frettolosamente prima di inghiottirlo.
Noemí non riuscì a trattenere una risata.
-Ahahah! Bella mossa! –gli riconobbe tra le risate, senza sembrare minimamente interessata a ciò che aveva appena fatto-. Questo sì che non me l’aspettavo.
Riley si passò la mano sulle labbra.
-Ti avevo detto che avevo fame.
-È vero. Ci saremmo dovuti fermare a fare colazione.
-Colpa tua. Perciò ora devi dirmi dove siamo diretti.
Ancora con il sorriso sulle labbra, Noemí guardò fuori dal finestrino e rispose:
-Non ce n’è bisogno. Siamo quasi arrivati.
Anche Alex guardò fuori dal finestrino e distinse subito una bandiera francese logora che sventolava su un pennone vicino a un grande cartello di legno che dava il benvenuto.
Il suo cuore perse un battito quando appena lì sotto lesse: «Aérodrome d’Oran ».