Benvenuti a bordo
Era, il Ménoli, arrivato ai trent'anni come sospeso in un'attesa. L'attesa di qualche evento per sua natura del tutto eccezionale ma ordinario nei connotati esteriori: una strizzata d'occhio della sorte che lui soltanto, Arcangelo Ménoli, nato il 4 novembre 1950 in Brindisi e ivi residente, studi medi mal frequentati, famiglia modesta ma sorretta da una paterna provvidenziale pensione di invalidità, avrebbe riconosciuto.
Stava ormai addentrandosi nel trentennio e l'aspettativa durava tuttora frustrata, quando in una mattina tersa dei primi di marzo, vagando come al solito da sfaccendato e giunto al molo militare dell'avamporto, sentì la chiamata.
Non fu una folgorazione come a Damasco. Fu dapprima un'intuizione ellittica, una indecifrabile emozione che avvertì posando l'occhio sul relitto di un dragamine apparsogli come se si fosse materializzato dal nulla nelle acque grigio-oleose della darsena, oltre la scritta in vernice gialla tracciata sulle antiche pietre della pavimentazione portuale: "Limite militare invalicabile". Era, invece, limite valicabilissimo. Il Ménoli quasi ogni giorno lo trasgrediva per andare a sedersi su un attracco e riposare la stanchezza del passeggiatore senza meta, quello svuotamento delle membra che coglie chi erra a lungo a passi brevi e strascicati, le dita molli intrecciate dietro la schiena, inconcludente: non la sana spossatezza di chi compie un'opera utile al mondo ma un languido vanificarsi delle forze mescolato alla noia e alla mancanza di obiettivi.
Il dragamine stava lievemente inclinato come in un saluto. Chissà da quanti giorni era lì, forse settimane, mesi o anni, ma viene sempre un momento in cui le pupille di un uomo infine guardano ciò che tante volte hanno visto senza consapevolezza. Così, in quella mattina nitida, con un sole già primaverile e un soffio di libeccio, Arcangelo Ménoli si trovò - inavvertitamente - a fantasticare.
Immaginò il dragamine non ancora aggredito dal marciume; anzi, lustro e intrepido, mentre solcava le acque dell'Adriatico o dell'Egeo, imperversante la seconda guerra mondiale. Avvertì il rimbombo di fuochi lontani, la secca scansione di comandi militareschi a babordo e tribordo, tra rollii e beccheggi. Gli parve che sul pennone ancora sventolasse la bandiera sabauda. Virtualmente partecipò, in candida divisa di marinaio, all'azione perigliosa di bonificare i fondali mediterranei per aprire la rotta alla flottiglia amica che avrebbe inseguito e braccato le corazzate ostili.
La sua generazione non aveva conosciuto guerre: non vittorie e non sconfitte, quindi, ma nemmeno gloria. La sua era una piccola generazione repubblicana cresciuta nell'eco di un miracolo economico che avveniva, purtroppo, sempre da qualche altra parte: in America, nella ricostruita Germania di Bonn, nella Svezia monarchica e socialdemocratica o nel nebbioso Nord Italia, non certo lì tra i fatiscenti quartieri di Brindisi, cittadina di provincia ricca soltanto, come avviene nel Sud, di qualche industria assistita e della sua Amministrazione, cioè della sua sterile burocrazia, benché dal settembre 1943 al febbraio 1944 fosse stata effimera capitale, sede del governo fuggiasco di Badoglio e di Sua Maestà Vittorio Emanuele III.
Quella fantasia suggerì al Ménoli altre possibili battaglie, ancora indefinite ma finalmente vittoriose. Percorse con lo sguardo la linea idrodinamica del vascello, provò a scrutare nel buio degli oblò, con uno sguardo lento accarezzò la poppa come alla ricerca di un messaggio più esplicito. Ma per il momento non gli riuscì di andare oltre. Il destino, evidentemente, chiedeva una pausa. Tuttavia si alzò dall'attracco con la sensazione che qualcosa di importante fosse successo.
Presa una falcata più risoluta di quella pigra dell'arrivo, mosse verso il giornalaio che apriva il suo negozietto su un vicolo dell'angiporto. Davanti agli ammiccamenti colorati delle locandine sostò un attimo, considerò i richiami a caratteri di scatola, le seduzioni di una Ilona Staller ambiguamente avvinta a una Moana Pozzi, evitò le fessure serpentesche da cui l'onorevole Andreotti sembrava indagarlo dalla copertina di Panorama e infine allungò la mano verso una delle tre copie de La Stampa che spuntavano un po' emarginate, accanto al mucchio sbilenco del quotidiano locale, tra le smunte mazzette delle tre testate nazionali.
La lettura de La Stampa era per lui una vecchia abitudine. Chi non avesse conosciuto a fondo Arcangelo Ménoli avrebbe pensato a uno snobismo, un voler apparire diverso e intellettuale, d'altra razza rispetto ai bottegai fedeli alla Gazzetta del Mezzogiorno. Leggere il quotidiano del Nord, della capitale dell'auto, dell'Avvocato che non ha bisogno di nome né di cognome, rappresentava invece per lui una inconfessata speranza di evasione, anzi di riscatto: il sogno rimosso e insieme segretamente coltivato di quell'altra vita che prima o poi intuiva sarebbe cominciata.
Come un ragazzo fantastica di Janez, Sandokàn e Kammamuri sulle pagine avventurose di Emilio Salgari, così Arcangelo Ménoli si abbeverava di delitti passionali nelle cronache torinesi e di epistole benpensanti alla rubrica "Specchio dei tempi", addentrandosi talvolta perfino nelle diatribe filosofiche sollevate da Gianni Vattimo e nelle invettive viscerali di Ceronetti, o compitando le esercitazioni di Camon sui temi più vari, dall'esistenza di Dio alla biancheria intima esibita da un'attricetta in qualche dibattito televisivo.
Quella però era una mattina speciale. Lasciata ancora di buon passo l'edicola, si imbucò poco lontano nel caffè "L'Oriente", sedette a un tavolino quadrato, scostò il posacenere ingombro di mozziconi e alzò un'occhiata al garzone Peppino.
"Il solito", disse dispiegando davanti a sè il giornale, che il caso fece aprire subito alla cronaca. Chinandosi su quella pagina il presentimento avuto poco prima di fronte all'apparizione del dragamine doveva prender corpo.