Benvenuti a bordo
"Chi devo annunciare?" domandò con sguardo sospettoso il sergente che piantonava l'ingresso del Castello Svevo affacciato al Seno di Ponente, di fronte al Monumento al Marinaio, dove aveva sede il comando della Marina militare.
"Dite al capitano Bellacozza che mi manda Santo Patrucco", disse il Ménoli, con una risposta solo in apparenza obliqua, in realtà ben mirata tenendo presenti la latitudine del luogo e la sede specifica cui desiderava accedere. E intanto allungò all'inquisitore un proprio biglietto da visita dove, sotto cognome e nome, nell'ordine come sui registri della scuola e negli atti dell'anagrafe, aveva fatto scrivere "Consulente in attività commerciali".
Il sergente, a lento piede, tornò dopo qualche minuto e gli restituì il biglietto come se fosse stato un documento ufficiale, il passaporto o la carta d'identità.
"Potete andare, ultima stanza in fondo, sulla destra".
Il capitano di fregata Sauro Bellacozza era un uomo di corporatura esile, sui quarant'anni, con baffetti sottili e naso aquilino. Un infortunio lo aveva costretto prematuramente ai servizi sedentari. Molti anni prima, durante un'esercitazione, un sottotenente di vascello era finito in mare nell'atto di sporgersi per afferrare la gomena lanciata da una scialuppa. Il Bellacozza, che allora, essendo agli inizi della carriera, portava i gradi di capo di terza classe, si era tuffato per soccorrere il superiore ma in un maldestro impatto con l'acqua aveva riportato un trauma al timpano dell'orecchio sinistro. Il danno, in sè non grave, aveva però lasciato uno strascico: una noiosa labirintite. Questa, trascurata, cronicizzò, e gli tolse il senso dell'equilibrio. La conseguenza fu che, anche in terraferma, il Bellacozza aveva sempre la sensazione di beccheggiare come se si fosse trovato in plancia tra onde tempestose. Gliene venne una camminata barcollante e un continuo senso di nausea che gli passava soltanto stando seduto, e meglio ancora coricato. L'assegnazione a un lavoro di ufficio e un avanzamento di carriera per meriti acquisiti in servizio erano stati i provvedimenti delle superiori autorità a risarcimento della menomazione subita.
Nel Castello Svevo il Bellacozza occupava un locale semibuio, vasto e squallido, arredato da scaffali pieni di classificatori dalla costa nera con il buco per infilarci il dito, un tavolaccio che fungeva da scrivania, due sedie di legno compensato e un mobiletto a cassettiera che reggeva una vetusta macchina per scrivere Remington con le leve dei tasti a vista.
"Vi porto i saluti del ragionier Santo Patrucco", esordì il Ménoli a un muto cenno interrogativo del funzionario.
"Accomodatevi".
"Sono qui soltanto per un'informazione", incominciò senza sedersi, come per togliere importanza all'incontro. E raccontò di taluni suoi traffici in materie prime da riciclare - legno, metallo e ogni altro genere di residuato - per finire con un accenno al naviglio in disuso che si trovava all'ancora nella zona militare del porto. "Per esempio, ho notato", aggiunse come incidentalmente, "una imbarcazione ormai ridotta a relitto, forse un dragamine, che potrebbe fornire il tipo di rottami per i quali avrei collocazione".
"Sì, il dragamine Italia", intervenne il capitano Sauro Bellacozza. "Vediamo".
Da un cassetto estrasse una mazzetta di fascicoli contenuti in cartelline gialle. Su ognuna, a penna, in quella che con inavvertita ridondanza si usava chiamare "bella calligrafia", c'era scritto un nome sottolineato da uno svolazzo. Quasi subito venne fuori una cartellina intestata "Pratica Italia", con l'accento sulla a ben calcato, in forma di falce di luna. Il Bellacozza spalancò l'incartamento mugolando, ne rivoltò qualche foglio, veline sbiadite con in alto il bollo del Ministero della Difesa.
"Se ne può parlare" borbottò scorrendo le carte. "Tornate a trovarmi tra qualche settimana, il tempo di fare gli accertamenti del caso a Roma". Su Roma appoggiò la voce, a far intendere che si trattava di cosa complessa e, come tale, incerta, ma che lui avrebbe fatto tutto il possibile.
"Non c'è fretta, anch'io ho i miei accertamenti da fare presso il cliente. Questo vuol essere soltanto un sondaggio, in caso di disponibilità ci sarà modo di approfondire il discorso", disse il Ménoli, che di trattative era esperto. E tese la mano al capitano Bellacozza, il quale, a capo chino, parve non rilevarla.
"Arrivedervi", tagliò corto il militare mettendo da parte il fascicolo sulla destra del tavolaccio.
Il Ménoli estrasse dal portafogli il biglietto da visita restituitogli dal piantone e lo posò sul fascicolo.
"Vi saluto, Capitano. Il mio telefono è scritto qui. Mi cerca lei?".
"Quando saprò qualcosa".
Un minuto dopo il Ménoli tornava alla luce abbagliante del viale Thaon de Revel. Benché nei modi il Bellacozza fosse stato piuttosto brusco, si sentiva soddisfatto. La ruvidezza era probabilmente da ascrivere non a ostilità ma alla formazione militare. In ogni modo il primo passo era compiuto. Ora si trattava di esplorare il terreno torinese, prendere contatto con quell'assessore, individuare la strada che poteva portare al finanziamento dell'iniziativa.
Nella penombra del suo stanzone era soddisfatto anche il capitano di fregata Sauro Bellacozza. Tra le carte appena sfogliate alla svelta aveva trovato un vecchio ordine di demolizione che riguardava, guarda caso, proprio l'Italia. Demolizione per la quale, tuttavia, il Ministero della Difesa non aveva mai stanziato i fondi necessari. Ecco perché il dragamine rimaneva a marcire nelle acque stagnanti del porto. Ora però il Bellacozza intravvedeva la possibilità di rendere un servizio al ministero e insieme di intascare una discreta somma in pagamento dal Ménoli.
"Un affare, un affare per tutti e due...", mormorï tra sè con un breve sorriso il Bellacozza, che in Marina, salendo di grado da sottotenente di vascello a tenente, e poi da capitano di corvetta a capitano di fregata, aveva perfezionato l'arte meridionale di arrangiarsi.