Benvenuti a bordo
Si è già accennato che il recupero del Po e delle sue sponde torinesi non era questione nuova, come avrebbe potuto supporre un lettore occasionale dell'articolo che aveva attratto il Ménoli. Era vero però che finalmente l'operazione stava per dare i suoi frutti.
Ancora relativamente pulito negli Anni Cinquanta, il fiume aveva incominciato a intorbidirsi nel decennio seguente. Era il tempo del miracolo economico, che significò più automobili (un proliferare di Seicento e Cinquecento) perché il benessere mette voglia di muoversi, e più detersivi, perché chi si rimpannuccia incomincia a lavarsi quasi maniacalmente e avanza pretese di bucati sempre più bianchi. Oltre alla produzione destinata al florido mercato, da industrie grandi medie e piccole defluivano senza posa solventi, idrocarburi, olii diversi e, in quantità minori ma ugualmente micidiali, scarti di lavorazione contenenti metalli come il cromo, il cadmio, lo zinco e altri ancora.
Intanto cresceva anche la popolazione: quella della città, che superò il milione di abitanti facendo di Torino una metropoli, e più ancora quella dei comuni della cosiddetta "cintura", dove gli immigrati portavano dal Sud i loro dialetti e le loro pizzerie. Al fosforo dei detersivi e al cromo delle attività metallurgiche si aggiungeva così il moltiplicato prodotto organico della popolazione miracolata. L'orrendo miscuglio, convogliato prima in piccole fogne di quartiere, poi in cloache via via più possenti, finiva con lo scaricarsi nel Po, tanto che la portata dei contributi velenosi e maleodoranti ben presto divenne comparabile a quella del fiume, valutata mediamente in sessanta metri cubi al secondo.
Dapprima il fenomeno non parve preoccupante. L'equazione benessere uguale rifiuti e, in ultima analisi, uguale liquami, sfuggì anche alle menti più pensose. Ad accorgersi dei miasmi, dopo i pesci, che sono muti e sparirono in silenzio, furono inizialmente i canottieri, categoria di sportivi già molto rappresentata e attiva sulle sponde torinesi del Po. Ma l'allarme rimase inascoltato, al punto che una flottiglia di seicento imbarcazioni a remi in breve si ridusse a poche decine di legni. Interessi economici ben radicati e politicamente protetti facevano da occhiuto puntello all'indifferenza dei più.
Tuttavia, per gradi, le cose cambiavano. Al mutamento concorrevano due fenomeni paralleli. Da un lato si diffondeva quella che verrà poi chiamata la "coscienza ecologica". Dall'altro, ben più potente, si insinuava tra gli imprenditori l'idea che il disinquinamento poteva essere un affare.
Questi due fattori, alleati naturali pur ignorandosi l'un l'altro, incominciarono a dar vita a una ricca industria mirante a riportare l'ambiente a quelle condizioni di natura che altre industrie avevano distrutto. Ne derivava un nodo di interessi nuovo e inestricabile: l'industria del disinquinamento vedeva nelle industrie inquinanti una ragione di vita e il motore della propria espansione; d'altra parte le industrie inquinanti, pur continuando a inquinare, avviarono a loro volta iniziative imprenditoriali anche nel settore del disinquinamento; gli ecologisti, all'intreccio di ambigue e non ben visibili connivenze, fornivano un forte supporto lanciando allarmi emotivi, scagliandosi in anatemi e manovrando l'antica arma della demagogia; i politici, infine, vedevano in tutto ciò un mercato al quale applicare redditizie tangenti. Di conseguenza inquinatori, disinquinatori, profeti dell'ambiente e pubblici amministratori si coagulavano in una stessa cultura, non diversamente da come già si erano coagulati progresso industriale, benessere e rifiuti.
Procedendo questa evoluzione del quadro sociale, finalmente, nei primi Anni Settanta, sulla base di un consenso politico-economico alquanto variegato, nasceva un ente denominato Consorzio Po-Sangone con il compito di creare una rete di collettori per incanalare ogni liquame della metropoli e di altri dieci comuni circonvicini non più verso le acque del fiume ma ad un grande e razionale centro di depurazione, che fu localizzato nel comune di Settimo al confine con il paese precollinare di San Mauro, noto per le sue fragole. Oltre ai politici destinatari di mazzette (queste sarebbero state scoperte ben più tardi), sommamente ne avrebbe tratto beneficio il Po, ma se ne sarebbero avvantaggiati anche il Sangone, la Dora Riparia e la Stura di Lanzo, i tre corsi d'acqua che, nell'ordine, si riversano nel Po tra le cittadine di Moncalieri e di Settimo. E naturalmente il mar Adriatico, sbocco ultimo di ogni chiavica padana.
Seguì un'epoca difficile. Ad amministrazioni di centrosinistra erano subentrate giunte socialcomuniste. Nelle stanze dei palazzi municipali, provinciali e regionali si era verificato un avvicendamento di clientele, o anche un semplice sovrapporsi delle nuove alle vecchie. Nelle strade sparavano i militanti di Brigate Rosse, di Prima Linea e di altri movimenti estremisti che avevano a cuore il ribaltamento del sistema. La produzione industriale calava, le ore di cassa integrazione aumentavano, scioperi selvaggi quasi quotidianamente paralizzavano trasporti, sanità, scuole, aziende pubbliche e private. Insomma, problemi più importanti premevano, e i lavori per la nuova rete collettrice segnarono il passo, nonostante i duecento miliardi investiti dal Consorzio (per inciso, anche i funzionari incaricati della riscossione delle relative mazzette furono poi, negli Anni Novanta, chiamati collettori).
Un poco tuttavia l'impresa procedeva. Ora qui ora là si avviava uno scavo, un altro si chiudeva, tubazioni venivano posate, raccordi allacciati, sotto gli occhi di borghesi ignari, i quali mai avrebbero sospettato che tanto lavoro dipendesse dalle loro deiezioni.
Così, pur con esasperante lentezza, in tredici anni centocinquanta chilometri di nuove cloache furono sepolti nel ventre metropolitano, sicché verso l'inizio degli Anni Ottanta il collettore poteva dirsi quasi ultimato. Nel suo occulto sistema intestinale potevano scorrere, a detta dei tecnici, sedici metri cubi di liquame al secondo e novecento milioni di litri di acqua al giorno. Il depuratore sorto tra Settimo e San Mauro, il più grande e avanzato d'Italia, avrebbe provveduto a ridurli in fanghi inerti, traendone anche gas di origine biologica che avrebbe mosso una piccola centrale elettrica.
Più che una tecnica, la depurazione è un'arte, forse l'unica per la quale il secolo ventesimo passerà alla storia. Non sarà dunque fuor di luogo delineare i principi fondamentali della cultura fognaria. Va da sé che i riferimenti specifici saranno all'impianto torinese, ma ciò non costituirà un limite in quanto esso fu considerato, almeno in Italia, un modello inimitabile per dimensioni ed efficienza.
Esistono molti tipi di sporcizia. Alcuni sono antichi, altri nuovissimi e strettamente connessi al progresso economico e sociale.
Ciò che familiarmente chiamiamo sporco appartiene alla classe antica: si tratta, scientificamente, di un miscuglio di grassi, proteine, polveri e altri materiali in genere non solubili in acqua, che aderiscono a calzini, colletti, mutande e ogni sorta di biancheria intima, oppure a pentole, piatti, posateria e altro ancora, pelle umana inclusa.
Studiosi di chimica industriale hanno però escogitato detersivi sempre più efficaci contro lo sporco antico. Essenzialmente la loro funzione consiste nel rendere solubile in acqua lo sporco. Ciò avviene tramite sorprendenti fenomeni molecolari. La struttura chimica dei detersivi, infatti, è tale che le loro molecole hanno una estremità idrofila (cioè in grado di agganciare, come con un uncino, le molecole di acqua) e una estremità idrofoba (cioè incapace di reagire con l'acqua). La molecola di detersivo, dal banale sapone alle mirabili preparazioni che la pubblicità impone a fantesche e padrone di casa, con l'estremità idrofoba arpiona le molecole di grasso dello sporco. L'estremità idrofila, invece, stabilisce interazioni elettrostatiche con l'acqua. Quando tutta una masserella di sporco è circondata da molecole di detersivo, finisce con lo staccarsi dalle fibre, siano esse di calzini o mutande, in quando essa tutt'intorno risulta idrofila, e quindi emulsionabile, solubile in acqua.
Peccato che nella tecnologia si annidi talvolta qualcosa di perverso. La tenzone molecolare che si svolge tra detersivo e sporco antico termina regolarmente con la vittoria del detersivo, ma lo sporco antico, una volta rimosso, deve pure essere smaltito da qualche parte. Per di più, il vittorioso detersivo è esso stesso un tipo di sporco, non antico ma nuovo, contenendo, per esempio, fosforo e altre sostanze che, immesse nella rete idrica del pianeta, devono essere ascritte alla numerosa famiglia degli inquinanti. Il fosforo, infatti, feconda in eccesso fiumi e mari, portando alla proliferazione di alghe; queste ossigenano esageratamente le acque, inducendo modificazioni ambientali che eliminano i pesci, in mancanza dei quali altri equilibri biologici verranno intaccati, e così via in una catena senza fine.
Di qui già si vede come nelle acque reflue scorra qualcosa di più immondo di ciò che si voleva pulire. E questo non è nulla rispetto a quant'altro è rilevabile nelle fogne bianche e nere: fetidi resti di cibi digeriti, sostanze organiche putrescenti, cellulosa, plastica e una varietà quasi illimitata di sostanze chimiche, dalle innocue alle più venefiche, derivanti da lavorazioni industriali.
Era un tale insieme di mefitici sottoprodotti che, prima del sorgere della coscienza ecologica, trovava nei fiumi e poi nel mare il recapito finale. Torino, con 230 milioni di metri cubi di liquami all'anno, ovviamente non faceva eccezione.
Giunse però la tecnologia a offrire una via d'uscita. Convogliate le deiezioni prima in canalicoli capillari e poi in chiaviche di diametro crescente fino a un solo grande collettore, oggi è possibile metabolizzare l'enorme massa di rifiuti per mezzo di sofisticate budella chimiche e meccaniche.
È in esse che si vede la sapienza della tecnica nell'imitare con strutture grandiose ciò che la natura fa nel piccolo delle sue creature. All'impianto di depurazione arriva dunque il liquame bruto, che contiene imparzialmente sostanze organiche e minerali, ora disciolte ora sospese. Quelle sospese a loro volta sono distinguibili in sostanze sedimentabili e in sostanze non sedimentabili, cioè allo stato colloidale.
La prima fase del trattamento consiste nella grigliatura, che trattiene i corpi solidi più grandi. Seguono la stacciatura, che ferma i resti minori, fino alla misura di quattro millimetri; il dissabbiamento, che filtra particole ancora più piccole trascinate dal liquame; e la sgrassatura, che estrae sostanze lipidiche, tendenti a galleggiare sul più denso liquame. Ognuno di questi trattamenti, come è facile immaginare, origina prodotti che devono essere smaltiti, per cui sono necessarie vaste opere di ingegneria: piscine grandi come campi da calcio, collegate in cascata e servite da griglie, coclee, pompe, raschiatori. Ai trattamenti preliminari segue la fase di sedimentazione primaria, che avviene in vasche circolari dal diametro di decine di metri dove si separa dall'acqua il fango fresco di fogna.
A questo punto il fango fresco è la materia con cui bisogna fare i conti. Si apre allora la biforcazione tra la linea liquami e la linea fanghi: i primi verranno digeriti con la collaborazione di batteri aerobi, i secondi mettendo al lavoro batteri anaerobi. Si scopre, in tale circostanza, quanto importanti siano i microbi, autentici spazzini del mondo, e si capisce perché dobbiamo essere grati al fatto che - come appurò un biologo - sulla Terra per ogni chilogrammo di elefante ci sono almeno sedici chilogrammi di batteri.
Seguiamo prima la linea liquami, richiamando però la nozione scolastica che i batteri aerobi per vivere hanno bisogno di ossigeno mentre gli anaerobi campano benissimo in sua assenza. Dopo la sedimentazione primaria, il liquame rimasto passa in vasche dove viene insufflato ossigeno. Le bolle d'aria agitano la massa e la ossidano, mentre i batteri aerobi svolgono la loro opera digestiva inducendo una seconda sedimentazione. Il liquido che rimane nelle vasche è acqua apparentemente pulita ma che contiene ancora circa cinquantamila germi per centimetro cubo. La disinfezione avviene in altro impianto, iniettando cloro. Ne risulta un'acqua ancora non potabile, ma che può già senza rischi essere reimmessa nell'ambiente. L'evaporazione e le piogge provvederanno a riportarla prima o poi, di nuovo bevibile, fino ai rubinetti domestici.
Vediamo ora la linea fanghi, cui pervengono anche le sedimentazioni della linea liquami già descritta. Un lento rimescolamento in ampie vasche circolari sottrae ai fanghi gran parte dell'acqua, riducendone il volume di un sessanta per cento. Ne escono pronti per la digestione anaerobica, una forma di fermentazione in cui si producono anidride carbonica e metano. Il metano, scoperto da Alessandro Volta come gas delle paludi, notoriamente possiede un forte potere calorifico: viene quindi bruciato per produrre vapore, il quale fa girare una turbina che a sua volta genera elettricità, poi usata per riscaldare l'impianto digestore.
I tecnici hanno calcolato con soddisfazione che un impianto di depurazione può cavare la potenza di due cavalli vapore ogni mille abitanti serviti. Nel caso di Torino, poiché l'impianto serve un comprensorio di un milione e quattrocentomila abitanti, ciò significa che tali cittadini con le loro deiezioni sviluppano la considerevole potenza di 2.800 cavalli vapore. La cosa è poco risaputa, minoranza esigua sono i torinesi consapevoli del contributo energetico dei propri escrementi. Senza dubbio se una adeguata divulgazione avesse provveduto a informare l'opinione pubblica, l'impianto avrebbe incontrato meno ostacoli sul suo cammino.
Tuttavia, bene o male, tra indugi e rincorse, l'opera era andata avanti. Così, nei primi Anni Ottanta, non passava mese senza che altre acque bianche e nere venissero imbrigliate e connesse al sistema depuratore. Certo, parecchi nodi rimanevano da sciogliere. A monte di Torino, i comuni di Moncalieri e di Nichelino rimandavano l'allacciamento al collettore per mancanza di fondi o forse per altri incoffessabili motivi. Sulla riva sinistra del fiume continuavano a immettersi i malsani efflussi ospedalieri. Sulla riva destra, in zona Meisino, persisteva una condotta che scaricava quattrocento litri di liquami al secondo. Fatto ancora più grave, tra Settimo e San Mauro, nel recinto intorno alle vasche di depurazione, si accumulavano montagne di sedimenti, frutto ultimo del processo aerobio e anaerobio, il cui smaltimento rimaneva un enigma anche per gli ingegneri del riciclaggio: persino la scienza più smaliziata incontra dei limiti. Tuttavia, nell'insieme, l'imponente impianto incominciava a funzionare e le acque padane, impercettibilmente, a illimpidirsi.
Le cose stavano a questo punto quando il municipio torinese decise di sferrare all'inquinamento del fiume l'ultimo attacco. Del quale il Ménoli aveva appreso dal giornale prediletto. Residue opposizioni e interessi da smascherare, ipogei quanto il sistema collettore, avevano i giorni contati. Gli assessori all'Ecologia e all'Arredo urbano, puntando a consensi popolari, erano pronti ad accogliere proposte per coronare anche visibilmente l'impresa di risanamento ambientale. E tra queste - perché no? - la sua.