Benvenuti a bordo
Per temperamento il Ménoli era poco incline alla riflessione e quindi recandosi dal Castello Svevo al porto per rimirare l'Italia con il nuovo occhio del padrone non ci pensò neppure lontanamente, ma tra le imbarcazioni da guerra il dragamine occupa un posto del tutto speciale.
Destinati a missioni rischiose, dal cui successo preliminare dipende la sorte delle successive operazioni affidate a corazzate e portaerei, i dragamine hanno la necessità di essere sempre, per soluzioni tecniche, un passo avanti rispetto alle mine del nemico, pena la loro stessa sopravvivenza. Per questo motivo invecchiano rapidamente. D'altra parte, il dragamine ha per sua natura due facce: una pacifista perché destinato alla bonifica di acque rese infide dal nemico, e una guerrafondaia perché, mettendo in atto tecniche ancora più sottili di quelle della parte avversa, apre la via ad azioni marittime devastanti. Si osserva così - di passaggio - come la realtà sia sempre bifronte. La mina sembra nata per offendere, ma la si può anche ritenere un semplice e quasi pacifico deterrente. Il dragamine appare come una risposta difensiva ad un'azione intenzionalmente traditrice, ma a ben guardare, preparando le acque alle corazzate, è anche strumento di aggressione.
Nell'evoluzione dei dragamine si ritrova, in filigrana, l'eterna storia della lancia e dello scudo, vecchia come la guerra di Troia e forse anche di più, se è vero che l'uomo, appena sceso dagli alberi, ha sempre combattuto il suo simile e che non vi è mai stato un paradiso terrestre che sia durato più di una stagione, il tempo di far maturare una mela.
Distinguere tra lo scudo e la lancia, è sempre stato difficile perché qualsiasi arma di difesa che sia tecnologicamente più avanzata dell'arma da offesa in dotazione alla controparte diventa essa stessa offensiva. Tema, questo, di infinite diatribe fra strateghi e fra diplomatici chiamati a risolvere questioni di disarmo.
Arcangelo Ménoli lo ignorava, eppure, osservata da questa prospettiva, l'intrecciata vicenda delle mine e dei dragamine ha qualcosa di esemplare. Non per il gusto della divagazione erudita, ma perché anche questa storia, come quella dell'arte di depurare, attiene alle prossime avventure di Arcangelo Ménoli nonché all'essenza profonda dell'era moderna, un cenno ai trascorsi delle mine e delle imbarcazioni loro antagoniste si impone.
Mentre nel caso dell'uovo e della gallina il dilemma sulla rispettiva priorità rimane irrisolto, è nota con certezza la primogenitura della mina marittima. Il prototipo data 1810 e si deve all'ingegnere navale inglese Robert Fulton. Presa una cassetta metallica a tenuta stagna, il Fulton vi aveva stipato dentro 45 chili di esplosivo, dotando il coperchio di un dispositivo che, al più piccolo urto, provocava l'esplosione. Il marchingegno aveva un peso specifico inferiore a quello dell'acqua e quindi galleggiava, ma l'ordigno veniva ormeggiato sui bassi fondali, legato con un cavo a una pesante zavorra, in modo che rimanesse, invisibile, a mezz'acqua, intorno alla profondità dove pesca di solito la chiglia di una grossa imbarcazione. La nave ignara, toccandolo con la prua o con la murata, causava la deflagrazione.
Se questa era la nuova e più aguzza lancia in dotazione alla Marina all'inizio del secolo scorso, ci fu ben presto chi si mise all'opera per provvedere uno scudo adeguato: e nacquero i primi dragamine. Si trattava di imbarcazioni non grandi, con immersione di poco superiore al metro, ma attrezzate con due lunghissimi cavi tenuti a debita distanza ai lati della nave, ampiamente divergenti, quasi a materializzare il triangolo tagliato dalla prua nel corso della navigazione. I due cavi - detti di dragaggio - venivano srotolati da un tamburo situato a poppa. Appesi a una serie di galleggianti con funi di crescente lunghezza e forzati a divergere da prismi in legno che si tenevano sotto il pelo dell'acqua, nella parte sommersa i cavi di dragaggio erano dotati di numerose e affilate cesoie disposte a distanza di alcuni metri l'una dall'altra.
Mentre il dragamine avanzava cautamente, accadeva che i suoi cavi incappassero in qualche fune tesa tra una mina e il suo ancoraggio. La cesoia, trascinata dal moto del dragamine, tranciava la fune, e la mina saliva a galla. Qui veniva avvistata e fatta esplodere con il fuoco delle artiglierie di bordo. In questo modo, a ogni passata si ripuliva un corridoio largo un centinaio di metri.
Le mine furono per la prima volta abbondantemente usate dalla Russia zarista per sbarrare l'accesso ai suoi porti nella guerra di Crimea, conflitto a cui anche il Piemonte partecipò, schierato con l'Impero Ottomano, la Gran Bretagna e la Francia. I quindicimila uomini agli ordini del generale Alfonso Lamarmora non avevano forse ben chiaro il motivo per cui nell'estate del 1855 si erano dovuti trasferire sulle spiagge del Mar Nero, in un'epoca in cui la balneazione all'estero non era ancora di moda. È certo però che, grazie alla trame del Conte di Cavour, quella spedizione guadagnò al piccolo Piemonte un posto nel Congresso di Parigi, e quindi un pulpito dal quale poter sollevare la "questione italiana" davanti alle maggiori potenze. In sovrappiù, le brave truppe savoiarde si fecero una prima cultura in fatto di mine.
Il ricorso a questi ordigni divenne ancora più massiccio durante la prima guerra mondiale. Gli Alleati ne posarono 240 mila, causando agli Imperi Centrali la perdita di 110 navi e di 36 sommergibili. I tedeschi, notoriamente più efficienti, a loro volta ne impiegarono soltanto 50 mila, affondando però 600 navi degli Alleati. L'Italia, che era tra questi, continuava così ad accumulare preziosa esperienza.
Quello fu un periodo durante il quale mine e cacciamine si trovarono in parità. Ma verso la fine degli Anni Trenta i tedeschi inventarono la mina magnetica da fondo. Il suo nome dice tutto. Stava adagiata sul fondale, e quindi non c'erano più ormeggi da tranciare. A farla detonare bastava la variazione del campo magnetico indotta dalla massa ferrosa della nave-bersaglio: un ago simile a quello della bussola, deviato dalla ferraglia in transito, chiudeva un circuito elettrico e innescava l'esplosione del tritolo.
Il vantaggio delle mine durò poco. Nello scafo delle navi da guerra vennero tesi cavi elettrici che, con il loro campo magnetico, annullavano l'effetto della massa ferrosa dell'imbarcazione: in questo modo la mina non sentiva nulla. Motobarconi di legno, e quindi amagnetici, rimorchiando con lunghe gomene carichi di magnetite, avevano poi il compito di far esplodere le mine, ripulendo i fondali.
Le mine si presero una rivincita durante la seconda guerra mondiale, quando furono dotate di idrofoni, cioè di sensori che le facevano esplodere appena percepivano il rumore della nave. Pronta fu la risposta dei dragamine: una nuova generazione di queste imbarcazioni venne attrezzata con speciali "campane acustiche" che irradiavano a grande distanza dalla nave onde sonore molto simili a quelle prodotte dalla nave stessa, ma con intensità assai maggiore. La nave da guerra poteva quindi avanzare tranquillamente, mentre l'equipaggio, in posizione di sicurezza, assisteva a inquietanti spettacoli pirotecnici.
La bilancia pendeva dunque di nuovo a favore del dragamine quando nel 1958 qualcuno inventò il sensore barico: un congegno che fa esplodere la mina al minimo mutamento di pressione prodotto sul fondo del mare dal passaggio della nave. Poiché una corazzata necessariamente sposta acqua, questa tecnica non ha ancora trovato contromisure veramente efficaci. Non solo. Oggi un computer posto nella mina analizza i dati raccolti con sensori magnetici, acustici, barici ed elettromagnetici. I segnali emessi dalla nave bersaglio, per quanto flebili, non sfuggono ai sapienti microprocessori, che li confrontano con quelli custoditi nella loro memoria di silicio, sicché le mine esplodono solo quando i segnali rilevati coincidono esattamente con quelli memorizzati.
L'elettronica fa tramontare i dragamine. Al loro posto i Paesi più avanzati hanno sviluppato i cacciamine, imbarcazioni costruite non più in legno ma in alluminio o vetroresina, con motori fatti anch'essi di materiali amagnetici. I cacciamine vengono muniti di sonar, goniometri e monitor collegati a telecamere subacquee. I sonar individuano la mina fino a 600 metri di distanza e a 100 metri di profondità. Dopodiché un piccolo siluro guidato a filo va a deporre presso l'ordigno una controcarica: questa, esplodendo su un comando impartito da bordo, farà esplodere per simpatia - si dice così - la mina in agguato sul fondo.
All'inizio degli Anni Ottanta la Marina militare italiana si era dotata di una flotta di moderni cacciamine contrassegnati da nomi di piccole città di mare: Milazzo, Sapri, Vieste, Lerici. Di qui l'inutilità dei vecchi dragamine, ormai buoni per la pensione.
Quanto all'Italia, aveva fatto più che la sua parte. Apparteneva alla famiglia dei dragamine litoranei, i più piccoli, con un peso inferiore alle duecento tonnellate, mentre i costieri ne pesavano fino a quattrocento e quelli d'altura superavano le settecento. Nato nei cantieri di La Spezia in tempo per partecipare, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, alla bonifica dei mari di Trieste e dell'Istria appena conquistati, il dragamine Italia, in grado di raggiungere i 15 nodi, era stato impiegato durante il secondo conflitto mondiale tra le isole del Dodecaneso. Di tanto in tanto la sua tecnologia veniva rimodernata: dagli originari cavi di dragaggio muniti di cesoie e galleggianti alle apparecchiature per far fronte alle più evolute mine dotate di sensori magnetici e di idrofoni. Ma con l'entrata in scena dei sensori barici non c'era stato più nulla da fare, non restava che adeguarsi a ruoli meno gloriosi.
Così, tornato in acque casalinghe, il dragamine Italia era stato riattato prima a imbarcazione della Guardia di Finanza brindisina e poi a Guardacoste, per trovare infine una meritata pace nel Seno di Ponente. Meritata ma ancora provvisoria. Senza sospettare di tante imprese, né di cesoie né di sensori né di idrofoni, il Ménoli si apprestava ora a fargli vivere una nuova imprevedibile stagione.