Benvenuti a bordo
Nicola Mastrototaro, commerciante in nautica di Lido Specchiolla, congiunse le mani come per pregare: "Arcangelo, che vuoi cavare da questo colabrodo?"
"Non deve passare l'Atlantico, basta che stia a galla su un fiume che pare olio", ribatté il Ménoli.
Da mezz'ora si erano arrampicati lungo la scaletta sulla fiancata dell'Italia per una sommaria ricognizione. Mastrototaro aveva esplorato il ventre dell'imbarcazione, aggirandosi tra le cabine malconce e gli arredi semidistrutti. Aveva tamburellato con le nocche delle mani sulle lamiere ossidate per saggiarne la consistenza, assestando anche una pedata al fasciame ligneo dello scafo. In sala macchine, davanti al motore puzzolente di nafta, non era riuscito a trattenere una smorfia di disgusto. Alla fine aveva allargato le braccia. "Non mi convince questa pendenza a babordo", ripeteva tra i denti, "questa barca non galleggia, per me è adagiata sul fondale del porto".
Un esame più attento gli diede ragione: da una qualche falla apertasi nel fasciame era entrata acqua, che però si era fermata in un compartimento stagno senza invadere il resto del dragamine. Ma quella indebita zavorra aveva spostato il baricentro, prodotto una inclinazione di una decina di gradi e fatto toccare il fondo alla parte più bassa della chiglia.
"Cerchiamo di rimorchiarlo fino a Lido Specchiolla, - suggerì il Ménoli - poi in cantiere vedremo che si può fare".
"Questo diavolo si tira sotto pure il rimorchiatore", pronosticò Mastrototaro, che peraltro aveva esperienza soltanto di modesti fuoribordo e piccoli catamarani da diporto, né disdegnava il commercio di ancora più umili pedalò.
"Intanto devo levarlo di qua", insisté il Ménoli facendo le corna con la mano sinistra. "Il Ministero della Difesa mi ha fatto firmare un documento dove c'è scritto che ho sessanta giorni per procedere alla demolizione".
"E va bene", cedette il compare. "Domattina alle dieci sono qui con il rimorchiatore. Ma non rispondo di quel che può succedere".
Nell'incertezza della diagnosi, procedettero per prudenti tentativi. Il Mastrototaro, giunto al molo militare con due suoi operai tenendo il timone di un rimorchiatore preso in affitto al molo commerciale, provò dapprima a vuotare con una pompa il compartimento stagno. Subito si vide che tanta acqua usciva, tanta ne entrava: l'inclinazione a babordo non diminuiva nemmeno di mezzo grado.
Non restava che provare a spostare il dragamine in acque più profonde per vedere se stesse a galla, sia pure in posizione obliqua. Il dragamine fu agganciato con una doppia gomena al rimorchiatore, gli ormeggi vennero mollati e l'urlo della sirena annunciò l'inizio della manovra. Appena la gomena fu tesa, l'Italia ebbe un sussulto e s'inclinò ancora di più, facendo perdere l'equilibrio al Ménoli, che seguiva le operazioni dalla plancia. Al secondo strappo però il dragamine si mosse, rompendo con un gorgoglço quasi di tipo gastrico le acque oleose del Seno di Ponente. Afferratosi a una presa d'aria, il Ménoli, poco dotato di piede marino, lanciò un grido mezzo di entusiasmo e mezzo di esortazione: "Compare Mastrototaro, ci siamo! Piano, piano, mi raccomando!".
Sbilenco come uno storpio, il dragamine sfilò lungo la banchina di viale Thaon de Revel e poi di viale Regina Margherita. Il rimorchiatore, giunto davanti a piazza Dionisi, dove c'è la dogana, virò verso il canale Pigonati, che è lo stretto imbocco dei due Seni, emettendo con la sirena un altro ululato. Poco dopo, come in lentissima processione, le due imbarcazioni tagliavano le acque ferme, quasi lacustri, tra i moli dell'avamporto, uno dei quali si protende dall'isola di Sant'Andrea. Poi, accelerando lievemente, affrontarono il mare aperto, puntando subito verso nord-ovest, per costeggiare Punta Penne.
Di lì c'erano ancora ventisei chilometri di mare, che il dragamine, sempre simile a uno sciancato, percorse nella scia del rimorchiatore. In quelle precarie condizioni, fu un lungo viaggio. Soltanto nel tardo pomeriggio l'Italia approdò nel piccolo cantiere che Mastrototaro possedeva a Lido Specchiolla. Qui giunto, il rimorchiatore invertì la rotta e più speditamente fu ricondotto al porto commerciale di Brindisi. Il dragamine, invece, venne tirato in secco con due argani per una valutazione più precisa del suo stato.
Era davvero malconcio. Come in tutti i dragamine, che per i noti motivi devono essere costruiti con materiale amagnetico, il guscio dell'"Italia" era di legno: rovere, abete e, nei punti più delicati, dove si richiedeva più resistenza, esotico teak. Alghe e cozze, nei lunghi anni di disuso, avevano colonizzato il fasciame sotto la linea di galleggiamento e, incrostandolo con una poltiglia verdastra, ne avevano agevolato la marcescenza. Ora che la carena era in vista, si notava la falla che aveva causato il pencolamento a babordo. Ma anche sopra la linea di galleggiamento le ingiurie del tempo e dell'abbandono erano evidenti. Sulla prua a stento si leggeva la scritta Italia. Ben distinte erano soltanto le quattro grandi cifre dalla linea spigolosa che, secondo l'uso militare, identificavano l'imbarcazione: 1669. Sotto la poppa, l'elica sporgeva corrosa, in un groviglio di vegetazione marina. La stessa chiglia, cioè la grossa trave che corre per tutta la lunghezza della nave sul fondo della carena, quasi come una spina dorsale, appariva offesa in più di un punto.
"Credimi, Arcangelo, non può tenere il mare neanche se ci lavoro tutta l'estate con tutte le braccia del cantiere", disse Nicola Mastrototaro usando il tono più persuasivo di cui era capace.
"Mi basterebbe costeggiare fino a Comacchio. Il fiume non mi spaventa. È navigabile fino a Pavia. Di lì in poi si vedrà", premeva il Ménoli.
Fu una lunga discussione, davanti a due bicchieri, un bottiglione di vino bianco frizzante e un portacenere che presto fu pieno di mozziconi. Alla fine arrivarono a un compromesso. Nel cantiere di Mastrototaro si sarebbero fatti i lavori più grossi: tappare la falla, ripulire e calafatare lo scafo, revisionare il motore a nafta, rimuovere e rottamare la cabina di comando che si levava, ormai inutile, sopra il ponte. Perché, oltre tutto, bisognava ridurre l'altezza dell'imbarcazione, se si voleva che passasse sotto le arcate dei ponti. Mastrototaro si impegnava anche a dare una sistemata alla cambusa e alle cabine. Al termine delle opere pattuite, l'Italia doveva essere in grado almeno di tenere la pigra corrente del Po.
A quelle acque il dragamine non sarebbe però arrivato navigando con le proprie forze, ma trainato lungo la costa della Penisola fino al porto di Savona, e poi per via di terra. Così si sarebbero anche aggirate le difficoltà di immatricolazione: tutto sommato l'ordine di demolizione c'era, e presentare l'imbarcazione come un prodotto fresco di cantiere sembrava eccessivo persino al Ménoli. Una volta giunto a Torino e calato nel Po, il dragamine non avrebbe più incontrato ostacoli, neppure di ordine burocratico. Altre acque, altra giurisdizione, nessuna capitaneria di porto.
"Un ristorante non si immatricola" pensava. E poi c'era l'appoggio del funzionario Severo Talucco, e ancora più in alto la benevolenza dell'assessore Condona.