Benvenuti a bordo
Il piano del Ménoli, dopo il lento avvìo, ormai procedeva a grandi passi. I tasselli andavano incastrandosi al loro posto a ritmo accelerato. Mentre nel cantiere di Lido Specchiolla si restaurava il dragamine, da Torino era arrivata la definitiva approvazione del progetto accompagnata da un acconto sul finanziamento. Tramite la Camera di Commercio veniva comunicata la concessione della licenza di ristoratore con servizio di caffetteria e alcolici.
Il Ménoli, intanto, preparava il trasferimento: uno dopo l'altro portava a conclusione gli affari avviati, assumendo ormai soltanto incarichi che comportavano impegni a breve termine. Senza troppi rimpianti liquidava anche certe sue tresche con donne conosciute occasionalmente negli spostamenti di lavoro intorno a Brindisi: una Palmira collaboratrice domestica presso un grossista di olio a San Pietro Vernotico, la cassiera del Caffé Centrale di Ceglie Messapica, una matura tabaccaia di Tuturano; storie senza importanza, che il più delle volte si limitavano a passeggiate in macchina con brevi soste in luoghi appartati e toccamenti furtivi subito respinti appena superavano certi confini fissati dal costume locale. Soltanto la tabaccaia, che aveva fianchi possenti e pratica di uomini, aveva concesso di più, senza per questo riuscire a invischiare troppo il Ménoli, il quale per natura era un uccello di passo, aiutato in ciò anche da un lavoro che lo portava ora qua ora là, e sempre fuggevolmente.
La moglie Carmela, a sua volta, organizzava il trasloco. All'inizio il progetto del consorte l'aveva un po' spaventata. Spostarsi al Nord, lasciare i genitori - non ancora anziani ma sulla strada di diventarlo -, cambiare abitudini, interrompere rapporti di complice amicizia con le comari per ritrovarsi isolata in una grande città sconosciuta, non erano prospettive rassicuranti. Senza dire che il rischio imprenditoriale le era estraneo. Come se la sarebbe cavata suo marito in un'attività di cui non aveva alcuna esperienza? E quale aiuto lei avrebbe potuto dargli?
Nonostante questi dubbi, un po' per volta si era abituata all'idea, finendo con il dividere gli entusiasmi del marito, che manifestava con fierezza alle comari. E i timori si erano trasformati in impazienza.
A fine estate, la seconda dopo che gli occhi del mediatore si erano posati sull'imbarcazione, le opere di cantiere erano quasi concluse, con un rilevante sforamento rispetto al preventivo di spesa. Il Ménoli, tuttavia, sovvenzionato con denaro pubblico, pagava senza battere ciglio, ciò che gli meritò presto, in Brindisi, un apprezzamento mai raggiunto quando si occupava soltanto di trattare la compravendita di partite d'olio o di vino e nessuno ancora poteva supporre in lui tanto spirito di iniziativa.
Quasi ogni giorno il Ménoli si recava al cantiere, a seguire i lavori anche nei minimi particolari. Finché ai primi di settembre Mastrototaro poté dirgli che si preparasse al nuovo varo. O meglio: al lungo traino fino al porto ligure.
Il Ménoli compì allora un'ultima incursione a Torino per completare i preparativi. Sistematosi ancora una volta alla pensione "Glicine fiorito", dove tutto sommato si era trovato bene e dove di nuovo gli capitò di incrociare quella certa Gisella, sbrigò le formalità conclusive presso l'assessorato.
Qui, ormai, Severo Talucco lo riceveva come un vecchio conoscente. Alla familiarità contribuiva il fatto che il Ménoli non si presentava a mani vuote ma con cesti colmi di prodotti tipici pugliesi: olio vergine, mazzetti di peperoncini piccanti, frisedda, fichi secchi mandorlati, taralli e zéppole farcite di marmellata. Talucco gradiva, benché fosse uomo di specchiata integrità, nella tradizione amministrativa che si rifaceva addirittura ai rigori di Quintino Sella. Del resto quei sani profumi mediterranei non avevano nulla a che vedere con il lezzo di tangenti e corruttele che sarebbero state smascherate qualche anno dopo in molti grandi centri, dalla Lombardia alla Calabria, senza risparmiare il Piemonte, Torino in testa. Erano, quei donativi, semplicemente un segno della bonomia meridionale, e come tali il Talucco li accettava.
Con l'aiuto del funzionario il Ménoli cercò anche un alloggio, cosa difficilissima in Torino come in ogni altra località della Penisola a causa dell'equo canone, una delle erratiche toppe di colore leninista nel vestito d'Arlecchino della legislazione italiana. Venne fuori un tricamere di ringhiera, cioè con accesso dal balcone sul cortile, in un vecchio edificio gestito dall'Istituto Case Popolari del Comune. Sito in via Saccarelli, nel borgo San Donato, non lontano dal centro storico, l'appartamento non era certo adeguato al sogno di promozione sociale che il Ménoli aveva acceso nella mente della moglie Carmela, ma come sistemazione provvisoria poteva andare.
Tornando a Brindisi, il Ménoli aveva nella valigia il progetto del ristorante-imbarcazione definitivamente approvato dall'Assessorato all'arredo Urbano e Padano. In un primo tempo aveva pensato di abbattere le paratie tra le cabine per ricavarne un salone direttamente comunicante con la cucina. Nella buona stagione, il ponte, rimossa la torretta di comando, poteva trasformarsi in una terrazza dove intrattenere la clientela per l'aperitivo e per il caffé. Sotto coperta, i commensali avrebbero goduto di un ambiente più intimo. Ma il progetto, abbozzato da un geometra di Ostuni iscritto all'Albo di Brindisi, era stato respinto dai Vigili del Fuoco di Torino per motivi di sicurezza. Lo stretto boccaporto di accesso alla sala, percorribile da una sola persona per volta, e l'erta scaletta cui immetteva, non avrebbero consentito una rapida evacuazione in caso di incendio o altra emergenza. Fu quindi prescritto dalle competenti autorità che sotto coperta rimanessero soltanto la vecchia cambusa (con funzione esclusiva di dispensa), la cucina (opportunamente adeguata ai regolamenti del competente Istituto d'Igiene), i servizi e la sala macchine, mentre il locale ristorante doveva essere realizzato sopraelevando il ponte. Qui sarebbe stato più facile predisporre accessi in ottemperanza alle vigenti norme di sicurezza, che prevedevano anche una larga scialuppa sospesa a poppa e un congruo numero di salvagente in sughero distribuiti lungo tutto lo scafo.
"L'imbarcazione risulterà più tozza - aveva ammesso il comandante dei Vigili del Fuoco Salvatore Lo Vito - ma questo non sarà un inconveniente perché non esistono problemi di velocità".
"Mi raccomando - aggiunse l'architetto che prestava la sua consulenza all'Assessorato - qui è scritto a chiare lettere: la sovrastruttura che sorgerà sulla plancia avrà per tetto un telone bianco e l'aspetto finale dovrà essere quello di un vascello fantasma...".
Scaramantico come la maggior parte dei suoi conterranei, il Ménoli aveva cercato in fretta nelle tasche qualcosa di metallico e, non trovandolo, si era arrangiato con altro talismano. In ogni modo, sul treno che lo riportava a Brindisi, aveva estratto dalla valigia il disegno riveduto e corretto secondo le duplici esigenze, quelle tecniche dei Vigili del Fuoco e quelle estetiche dell'Assessorato, e si era convinto che nell'insieme il dragamine Italia avrebbe avuto un aspetto molto attraente. L'unica seccatura consisteva nel fatto che quei lavori per ricavare la sala sulla plancia si sarebbero dovuti fare a Torino per non rendere l'imbarcazione troppo ingombrante e praticamente intrasportabile nel tratto su terraferma.
Alla fine di settembre Nicola Mastrototaro aveva perfezionato le opere di sua competenza. Al compare rese un ultimo servizio organizzandogli il traino del dragamine, ormai irriconoscibile come tale, fino al porto di Savona. Se ne sarebbe occupato un suo carpentiere in possesso di un piccolo rimorchiatore.
"Auguriamoci di avere bonaccia per tutti i giorni necessari", disse Mastrototaro facendo gli scongiuri, e il Ménoli con lui. "Io ho fatto del mio meglio, ma non posso garantire che tenga il mare se appena l'onda si muove un po'. Ad ogni buon conto, per questo e altri motivi che voi ben conoscete, converrà costeggiare all'interno delle sei miglia".
"Non preoccupatevi, starò io al timone", lo rassicurò il Ménoli, che ormai si sentiva quasi un capitano di lungo corso.
Il varo fu una cerimonia semplice ma a modo suo commovente, senza bottiglia di spumante ma con un vassoio di pizzette, qualche bicchiere di birra e la signora Carmela che faceva da madrina vestita come per andare a messa la domenica. Il dragamine scivolò in acqua e vi rimase finalmente diritto. Per semplice esperimento, si provò ad accendere le macchine. La carcassa fremette e vibrò fin nelle fibre più riposte, un fumo nero e maleodorante di nafta incombusta si levò dal comignolo, formando una nube così densa che la brezza stentava a disperderla. Il fasciame gemette come se stesse per cedere sotto le sollecitazioni, ma infine l'elica, che era stata tirata a lustro, si mosse, suscitando un risucchio nell'acqua stagnante del cantiere.
Dalla manovalanza si levarono grida gioiose e innocenti bestemmie di compiacimento.
"Buon vento a voi", augurò Mastrototaro spegnendo subito i motori. E tese al Ménoli la mano abbronzata e pelosa.