Benvenuti a bordo
L'aggiramento della Penisola richiese quasi un paio di settimane ma, nonostante le preoccupazioni di Nicola Mastrototaro, non conobbe momenti difficili. Anche la meteorologia fu favorevole: benché ormai ci si addentrasse nel mese di novembre, alla navigazione arrise il bel tempo che di solito accompagna i giorni intorno a San Martino, il protettore dei traslochi.
Mentre la signora Carmela si tratteneva a Brindisi per concludere le ultime faccende relative al trasferimento, il Ménoli si installò sul dragamine dopo averne colmato la stiva di vettovaglie e ogni genere di conforto, specialmente quelli in cui commerciava: grandi damigiane di vino da tavola e olio vergine d'oliva, ma anche fichi secchi farciti con mandorle, barattoli di lampascioni in agrodolce e passata di pomodoro aromatizzata con basilico e messa in bottiglie poi sterilizzate a bagnomaria. Tutte scorte che sarebbero servite all'avvio del ristorante e che avrebbero dato alla sua cucina un genuino aroma del Salento. Imbarcò anche un gran cesto di scelti prodotti tipici destinati all'assessore Condona, e un cesto simile ma un po' più piccolo per il Talucco. Una cabina, quella che era stata del capitano, l'attrezzò per i pernottamenti. Sarebbe stato l'unico navigante, in contatto tramite megafono - quando necessario - con il conducente del rimorchiatore.
Salparono dal cantiere di Lido Specchiolla in una mattina resa luminosa e trasparente da una brezza già quasi invernale. Nicola Mastrototaro e i suoi manovali stavano in piedi accanto all'argano, salutando a braccia alzate. Il Ménoli, ritto a poppa, rispose con un cenno misurato, contegnoso, come si addice a un capitano. Quindi voltò le terga al cantiere per puntare lo sguardo al mare aperto. Il rimorchiatore azionò a lungo la sirena e si diresse al largo. Giunto a poco meno di sei miglia dalla costa, compì un'ampia virata a sud-est. Iniziava la circumnavigazione della Penisola.
Il Ménoli, che si era spostato a prua e ora - simile a una tozza e maschia polena - prendeva in faccia un vento pungente intriso di goccioline salate, vide lentamente sfilare alla sua destra litorali familiari: Torre Guaceto, Punta Penne, l'Isola di Sant'Andrea, le Isole Pedagne, Capobianco, Torre Cavallo. Passando davanti all'imbocco dei due Seni - materni, sarebbe il caso di dire, essendo quelli della sua città natale - provò un misto di malinconia e di orgoglio.
Soffriva il distacco dalle case fatiscenti del centro antico, dagli odori portuali che profondamente aveva inspirato fin dall'infanzia. Un pensiero andò alle stanze in vico San Bernardo, dove si immaginò Carmela alle prese con bauli e valigie; ai vecchi - nonni, zii, genitori - che d'ora in poi avrebbe rivisto soltanto a lunghi intervalli, per constatare sui loro volti l'implacabile scorrere del tempo. Un altro pensiero sfiorò le donne congedate, specialmente la cassiera di Ceglie Messapica, che meno gli aveva concesso.
Una confusa commozione già carica della nostalgia propria dell'emigrante lo prendeva alla gola. Ma più forte era il desiderio di mettersi alla prova dopo aver tagliato il cordone ombelicale con una terra così avara di opportunità. Avvertendo quel senso di sgomento che sempre coglie l'uomo quando entra in una fase nuova della sua vita, trasse un respiro profondo, e fu come aver soffiato via la tristezza e la paura.
Lasciata alle spalle Torre Cavallo, ecco profilarsi lidi meno conosciuti, o niente affatto: Capo d'Otranto, Tricase, Gagliano del Capo, fino a Santa Maria di Leuca, punta estrema del tacco d'Italia. Nonostante il variare del paesaggio costiero, il tempo scorreva lento. Per ingannarlo, di tanto in tanto, quando il mare era particolarmente liscio, scendeva sotto coperta e si sdraiava nella sua cuccetta. Non dormiva, a occhi socchiusi assaporava il lieve rollio, come un bimbo in una culla.
La bassa velocità (cinque o sei nodi, cioè dieci o dodici chilometri all'ora) e la necessità di costeggiare seguendo le molte frastagliature peninsulari rendevano la navigazione interminabile ma anche varia. Benché privo di cultura classica, l'unica emozione profonda il Ménoli l'ebbe tuttavia passando lo Stretto di Messina, tra Scilla e Cariddi, dove le correnti sono sempre forti e l'aria tesa, anche con il tempo buono, sicché il dragamine oscillò impennandosi e poi tuffandosi di prua nelle valli tra un'onda e l'altra, traendo gemiti e scricchiolii sinistri dall'intero fasciame.
Il mattino e il pomeriggio, con la brezza fresca che spira dal mare verso la terra, il Ménoli li passava disteso ai raggi temperati del sole autunnale, l'occhio perso a seguire il solco di schiuma bianca aperto dalla prua del rimorchiatore. Sul mezzogiorno e poco dopo il tramonto scendeva la scaletta e andava in cambusa, dove metteva mano alle vettovaglie. Stuzzicato dall'aria salmastra, mangiava e beveva con appetito. E infine tirava soddisfatto lente boccate di fumo da una vecchia pipa che non usava da anni ma che ora, fattosi temporaneamente lupo di mare, gli era parso opportuno rimettere in servizio. L'uomo del rimorchiatore, ora carpentiere di Mastrototaro ma in gioventù marinaio di tonnara, lievemente zoppo e con una cicatrice sul braccio destro dovuta a un incidente occorsogli durante una mattanza, faceva da sé, con le sue scorte di scatolame e di birra. Solo ogni tanto i due si scambiavano un saluto al megafono, per dirsi che tutto procedeva bene.
Di notte rimorchiatore e dragamine si avvicinavano al litorale e, giunti in acque basse, gettavano l'ancora, pronti a ripartire appena ad oriente il cielo schiariva. Ad evitare controlli della Finanza o della Guardia costiera, sostavano a debita distanza dai porti.
Prima di scendere a dormire nella sua cabina, il Ménoli rimaneva a fumare per mezz'oretta sul ponte, sotto le stelle, ascoltanto lo sciacquio del mare e seguendo in lontananza le luci di qualche petroliera in transito. La brezza di terra gli portava a tratti profumi struggenti di macchia mediterranea: pino marittimo, cespugli di rosmarino, fichi d'India. Lo assalivano allora pensieri dai contorni incerti, in cui tornavano a mescolarsi le immagini della moglie Carmela e della cassiera di Ceglie Messapica, la percezione vertiginosa di avere in mano il proprio destino e il sentimento dell'infinito suggerito dalla vista delle costellazioni, specialmente l'unica che riconosceva, l'Orsa Maggiore, o Gran Carro, in quella stagione così bassa sull'orizzonte da lambire le onde.
Pernottarono così lungo le coste calabre, in vista del Vesuvio e in vari altri punti panoramici, risalendo la costa tirrenica da Civitavecchia a Livorno, da La Spezia a Genova. Finché un pomeriggio, mentre il Sole calava dietro gli Appennini liguri, avvistarono la Torre di Leon Pancaldo, secolare costruzione a custodia del porto di Savona. Ormai la meta poteva dirsi raggiunta, e con essa anche la nuova linea di partenza, questa volta per un trasferimento su terraferma.
Il rimorchiatore sorpassò la squadrata fortezza di Priamar, altro simbolo savonese, proseguì per un miglio o poco più e cautamente accostò ad un molo di Vado Ligure dove erano ormeggiate varie imbarcazioni in demolizione: un luogo molto simile a quello dove l'Italia per anni era rimasta a marcire. Qui il Ménoli slegò la doppia gomena, sciogliendo il dragamine dal rimorchiatore, che se ne ripartì subito nella direzione da dove era venuto, cercando di dare nell'occhio il meno possibile. Di lì a poco l'ex marinaio di tonnara calava l'ancora nel porto di Savona e, dopo tanto navigare, si apprestava a passare finalmente una notte in un letto ben piantato sul pavimento.
Il Ménoli aveva organizzato ogni cosa con cura. Una impresa specializzata in trasporti eccezionali su strada, cui l'uomo del rimorchiatore la sera stessa confermò l'arrivo del dragamine, il giorno seguente inviò al molo di Vado le gru necessarie per issare l'imbarcazione su uno speciale rimorchio con diciotto paia di ruote.
Tutto ciò avvenne puntualmente, ma non senza ardue difficoltà, considerata la stazza del dragamine. L'impresa di trasporti a sua volta aveva provveduto a comunicare la traslazione di quel carico eccezionale alle autorità competenti, che disposero per tre notti, dalle 2 alle 5, la chiusura al traffico dell'autostrada Torino-Savona.
Neppure così il viaggio fu un'operazione banale. Al traino di un mezzo cingolato, il vascello risalì i tornanti appenninici viaggiando poco più che a passo d'uomo, con un Ménoli preoccupatissimo in piedi sulla tolda, avvinghiato al parapetto, come se fosse ancora per mare. Nelle gallerie l'imbarcazione, che in larghezza occupava quasi l'intera carreggiata, in altezza passava a stento, tanto che il Ménoli doveva curvarsi, sfiorando la volta rocciosa con il capo.
Alle cinque di mattina, scaduto il tempo concesso dalla Società dell'autostrada, il convoglio si arrestò su una piazzuola di sosta in vicinanza del valico di Altare. Una giornata di attesa, durante la quale il Ménoli rimase accampato nella sua cabina confortato soltanto dai cibi provvidamente imbarcati, poi, alle due di notte, sotto il cielo stellato e una fetta di luna calante, la partenza per la seconda tappa. Ancora una sosta in una piazzuola sulla collina di Vicoforte presso Mondovì, da dove all'alba il Ménoli poté spaziare con lo sguardo sull'arco delle Alpi e sulla Provincia Granda; infine, la notte seguente, per viadotti ormai rettilinei affacciati sulle ondulazioni di Carró e di Fossano, poi sulla piana di Marene e Savigliano, l'ultimo balzo verso Torino.
Che cosa pensassero gli utenti dell'autostrada transitando accanto a un dragamine parcheggiato in montagna, come incagliato nel verde degli Appennini liguri e poi delle colline monregalesi, non è dato sapere. Certo la scena doveva apparire surreale. Sarebbe risultata piuttosto comica, invece, se i passanti avessero potuto gettare uno sguardo sotto coperta, dove il Ménoli continuava a vivere da marinaio, passava il pomeriggio fumando la pipa e si consolava con pane e mortadella, lampascioni sott'olio e vino bianco di San Severo. Fatto sta che il 28 novembre finalmente l'imbarcazione giunse a Moncalieri, cittadina a sud di Torino, e qui l'impresa di trasporti la calò delicatamente nelle acque del Po.
Dovevano essere le sue acque; tranquille, accoglienti acque fluviali. E invece subito vi si incagliò. Non per colpa di una secca. Per una spinosa questione burocratica.