Benvenuti a bordo
A chi non sia pratico di politica su scala locale, che un dragamine debba cedere il passo a un tram non è un fatto facilmente comprensibile. Inoltre per la potenziale clientela di un ristorante una cosa è sedersi a tavola a bordo di un battello che naviga dolcemente seguendo i meandri del Po, altra accedere a una specie di zatterone immobile. Addìo al modello parigino, addìo alla romantica attrazione di una cena da consumarsi cullati sulle acque del fiume, con un paesaggio - al di là delle finestre - che muta ad ogni portata.
Questa volta il Ménoli, di solito paziente, si adirò e andò a protestare direttamente nell'ufficio dell'assessore Crucci, mentre nell'alloggetto popolare di via Saccarelli, informata con una telefonata, la moglie Carmela si disperava, incominciando a vedere troppe ombre minacciose sul suo futuro torinese.
Non ci fu nulla da fare. La decisione era definitiva. Rimaneva soltanto da stabilire dove si sarebbe dovuto incatenare il dragamine. La questione, tuttavia, non era semplice, perché un ormeggio definitivo avrebbe configurato l'occupazione di suolo pubblico. In questo caso però non si trattava propriamente di suolo cittadino, che dipende dal Comune, ma di acqua fluviale, che attiene al Demanio, cioè allo Stato. Ecco delinearsi un altro delicato conflitto di competenze. L'Assessorato all'Arredo Urbano e Padano si rivolse all'Ufficio dei beni demaniali. Questo a sua volta interpellò a Roma vari ministeri: Interni per motivi di ordine pubblico, Tesoro per gli aspetti finanziari, Commercio e Turismo per ovvie ragioni di competenza. Infine la pratica tornò sulla scrivania dell'assessore Condona: risultò infatti che un parere di valore consultivo del Tar del Lazio attribuiva agli enti locali l'ultima opzione in proposito, purché fossero fatti salvi gli interessi demaniali.
D'intesa tra tutte le parti interessate, al dragamine fu assegnato un ancoraggio nel tratto di fiume lungo la riva sinistra a metà tra il Ponte Isabella e il Ponte Balbis, quello che immette in corso Bramante e quindi all'ingresso dell'Ospedale Molinette. In quel punto, prospicente gli ultimi prati digradanti del Parco del Valentino, il vascello non sarebbe stato visibile né dalle case né dalla strada, che è corso Galilei. Dunque non avrebbe potuto suscitare alcuna obiezione dei residenti. Inoltre, seppure non galleggianti, esistevano già, lungo quel tratto della riva del Po, altri ristoranti dai nomi coloriti, come "L'imbarcadero Perosino", che affittava anche canotti, e "L'idrovolante" (a ricordare che là negli anni Trenta, quando questi velivoli ebbero una fugace fortuna, sorgeva l'idroscalo torinese).
Il luogo prescelto era particolarmente adatto, si affermava nella delibera, anche perché in prossimità della sede subalpina dell'Associazione Marinai d'Italia, dotata di una villotta affacciata su un rialzo della sponda del Po e di un giardino nel quale spicca, nero come una tempesta, il relitto di un sommergibile impiegato nella Grande Guerra. Se un sommergibile può stare in un prato, doveva aver pensato il funzionario Severo Talucco, non è poi tanto strano che un dragamine rimanga immobile su un fiume.
Assorbito il colpo, il Ménoli si consolò constatando che il luogo assegnato era proprio in corrispondenza del palazzo tutto vetro e cemento de La Stampa. Gli parve che un cerchio si chiudesse: da un articolo di quel giornale era nata la sua avventura e davanti alla sede di quel quotidiano l'avventura andava a concludersi. Perché mai non avrebbe dovuto essere un epilogo felice?
Tuttavia quel primo e ultimo viaggio dell'Italia nel Po riempì il Ménoli di malinconia. Accesi i motori, avvolta in un odore di nafta parzialmente incombusta, l'imbarcazione si staccò come a malincuore dalla riva presso Moncalieri e lentamente discese la corrente. I lembi d'acqua sollevati dalla prua facevano pensare a una ferita, subito rimarginata nel rimescolìo intorno alla poppa. Piccole onde andavano a sciaguattare molli contro gli argini, mestamente.
Il Ménoli stava al timone, aiutato alle macchine da un giovanotto che aveva già imparolato come sguattero. Ormai era primavera avanzata e le sponde erano tutte verdi e fiorite. La brezza portava profumi di erbe appena falciate e nugoli di pappi di pioppo come una morbida tormenta.
Il dragamine sfilò davanti alla confluenza del torrente Sangone, lasciandosi dietro il profilo a scatola del Palazzo del Lavoro e quello circense del Palazzo a Vela, si infilò sotto la passerella pedonale (costruita anch'essa, come i palazzi, per l'Esposizione che celebrò, nel 1961, il centenario dell'unità nazionale), poi sotto l'arcata centrale del Ponte Balbis. Ormai era arrivato. Giunto in corrispondenza del punto stabilito, fece manovra tracciando un'ampia curva per mettersi con la prua controcorrente, quindi accostò, tenendo i motori al minimo. Il ragazzo saltò sull'argine di cemento e il Ménoli gli lanciò due gomene, che provvisoriamente vennero legate ad anelli infissi nell'argine. In ultimo, il motore si spense, per sempre.
Era difficile considerare quel viaggio brevissimo ed estremo come qualcosa di diverso da un funerale. Ma tanto valeva rassegnarsi e terminare il rito al più presto. Poiché gli attracchi definitivi erano già stati predisposti, il giorno stesso il dragamine fu saldamente connesso a due barre d'acciaio, una a prua e una a poppa, che lo tenevano a pochi metri dalla riva. Grosse catene completarono l'imprigionamento. Una larga passerella metallica fornita di sicuri mancorrenti venne gettata tra l'ingresso della sala ricavata sul ponte dell'imbarcazione e il vialetto asfaltato che costeggia il fiume, percorso abituale di pescatori sfaccendati e di podisti dilettanti in lotta con l'adipe accumulato nei glutei e sulla pancia.
Nei giorni successivi si procedette ad allacciare l'imbarcazione alla rete elettrica e a quella telefonica, per cui una squadra di operai poté smantellare la sala macchine, ormai inutile, mentre un sommozzatore rimuoveva l'elica e il timone, che in caso di piena sarebbero stati persino pericolosi. L'ex sala macchine divenne un ampliamento della cambusa, piccolo vantaggio, come il servizio telefonico e la corrente elettrica, derivato dalla forzata immobilità.
L'elica, di nuovo connessa all'albero motore, fu poi sistemata in cima all'argine, di fianco alla passerella, monumento al passato glorioso del dragamine, ma anche triste simbolo della sua definitiva paralisi, pennellata finale al quadro metafisico di una imbarcazione ferma in mezzo ad acqua che si muove. Una targa di bronzo fu collocata presso l'elica. La scritta recitava: Dragamine Italia / In ricordo dei marinai / che difesero la Patria. Un tocco di nazionalismo, aveva pensato il Ménoli, non guasta, neppure abbinato a un ristorante.
A questo punto non gli restava che completare i preparativi e iniziare l'attività. Non c'era tempo da perdere, se non voleva stare sulle spese.
Trovò un cuoco egiziano, vicino ai trent'anni, pelle olivastra, lungo e magro come un bastone, che aveva appena lasciato una pizzeria chiusa in seguito a decesso del proprietario.
"Io pezzo di oro per cucinare pesce", disse al Ménoli l'egiziano chinando verso di lui la piccola testa dal naso affilato. Faceva parte della prima ondata di extracomunitari fortunosamente approdati in Italia un po' da tutto il bacino mediterraneo - Turchia, Egitto, Algeria, Tunisia, Libia, Marocco - e, disse, possedeva già un regolare permesso di soggiorno nonché un diploma di terza media, ottenuto frequentando un corso per immigrati presso la scuola statale "Giuseppe Parini", in Borgata Milano. Nonostante ciò non padroneggiava ancora la lingua italiana. "Pezzo di oro" era probabilmente la traduzione letterale di una frase idiomatica cairota.
Il Ménoli, che se l'era visto arrivare sul dragamine mentre stava dispiegando le tovaglie sui tavoli, sorrise. Pezzo di oro o no, lo trovò simpatico.
"Proviamo", gli disse. E prese accordi per l'esperimento gastronomico, che si sarebbe svolto il giorno dopo.
Congedato il cuoco, mentre sbarrava la passerella di accesso all'Italia per avviarsi a casa, si sentì apostrofare da una voce femminile allegra e disinvolta: "Ehi, bel marinaio!".
Era Gisella, la ragazza modenese che aveva conosciuto alla pensione del "Glicine fiorito".