Benvenuti a bordo
Fin dalla prima settimana di esercizio la gestione del ristorante Italia si rivelò ancora più difficile di quanto il Ménoli, nei momenti di più nero pessimismo, mentre attraversava il guado delle scartoffie burocratiche, avesse temuto.
Due giorni dopo la cena inaugurale, nell'ultima pagina della cronaca cittadina, quella dedicata agli intrattenimenti, era apparso un articoletto siglato "ed. ball." che annunciava l'apertura del locale, accennava, criticandola, alla specializzazione del cuoco nella cucina marinara, suggeriva come più congrua una cucina di fiume e concludeva con un cenno alla storia dell'imbarcazione, scambiata per per una corvetta.
L'effetto di quella segnalazione fu modesto - una dozzina di coperti a pranzo, una ventina a cena - e si esaurì in pochi giorni, dopodiché c'erano sere in cui non più di due o tre coppie si avventuravano oltre la passerella. In quel deserto, per stuzzicanti che fossero le ricette, gli ospiti cenavano malinconicamente, lo sguardo vagante al di là dei vetri sulla corrente verdognola, per poi svignarsela appena pagato il conto, che non poteva essere dei più economici.
In cucina "Pezzo-di-oro" faceva del suo meglio tra cozze gratinate e capesante ma con una clientela così ristretta gli acquisti al mercato del pesce di Porta Palazzo diventavano problematici. Ben presto sul menù bisognò ammettere, in una nota scritta in caratteri minuti, che il pescato, salvo diversa indicazione, doveva intendersi surgelato.
Era necessario farsi conoscere, pensava Arcangelo Ménoli, senza pubblicità ormai non si combina più nulla. Cosa non facile. Sul Lungopò, a tutela del paesaggio, le insegne non erano consentite: l'unico richiamo poteva venire da un menù appiccicato sull'elica-monumento a fianco della passerella. Ma il passaggio lungo l'argine si riduceva a qualche pensionato fattosi pescatore per ingannare giornate e settimane e mesi divenuti interminabili, piccole bande di ragazzotti balordi, flaccidi impiegati che correvano sudando nella tuta per combattere i malanni della sedentarietà, gruppetti litigiosi di travestiti.
Riusciva persino difficile dare al locale un indirizzo, perché il ristorante Italia non si affacciava a nessuna via: il viottolo lungo l'argine era senza nome. Sulla guida telefonica e sulle Pagine Gialle il Ménoli era stato costretto a ricorrere a una complicata circonlocuzione: “Ristorante Italia / galleggiante sulle acque del Po / lato corso Galileo Galilei / fra il ponte delle Molinette e il ponte Isabella / di fronte a La Stampa”. Quest'ultimo riferimento gli era parso il più chiaro, oltre che prestigioso. Tre linee telefoniche e una di fax lasciavano supporre un accavallarsi di prenotazioni, un parapiglia di avventori. Che non solo non c'erano, ma quei pochi andavano diradandosi, fino quasi a scomparire.
Il Ménoli apriva verso le dieci di mattina. "Pezzo-di-oro" apparecchiava i tavoli mentre sotto coperta lo sguattero Esposito Capece sbucciava patate e preparava soffritti che permeavano il dragamine con rustici aromi di cipolla. Poi "Pezzo-di-oro" scendeva in cucina, si infilava il cappello da cuoco e iniziava le sue raffinate manipolazioni gastronomiche. Purtroppo risultavano quasi sempre inutili. Nelle ore di pranzo i tavoli rimanevano perlopiù del tutto privi di avventori, invano sulle tovaglie scintillavano le posate inossidabili, i sottopiatti argentei, i bicchieri di vetro molato. Infine, verso le quindici, il Ménoli si faceva servire robuste razioni di quanto era stato preparato, lasciando poi che, in cucina, anche "Pezzo-di-oro" e il giovane Capece, che era di forte appetito, si prendessero la loro parte. Un po' meglio le cose andavano alla sera. Ma non potevano certo essere quei pochi coperti a salvare il bilancio.
Nei lunghi pomeriggi vuoti il Ménoli esplorava i dintorni per capire quali mosse avrebbero potuto portargli clientela nel locale.
Era, ed è, quello, un pezzo di Torino singolare per le istituzioni eterogenee che affianca l'una all'altra: le aule universitarie del corso di Medicina Legale, il Museo Lombroso, l'obitorio, i moderni palazzi de La Stampa e della Sai Assicurazioni, il Museo storico della Fiat, la sede dell'Associazione Marinai d'Italia.
Il primo ad attirare l'attenzione del Ménoli fu, naturalmente, l'edificio de La Stampa, tipico esempio di architettura industriale degli Anni Sessanta. Finalmente poteva vedere da vicino l'incubatrice del suo giornale preferito, l'istituzione che per lui, uomo del Sud, era stata simbolo del Nord produttivo. Un pomeriggio osò varcarne la soglia, rischiando di cadere disteso nell'atrio perché la porta, automatica, gli spalancò inopinatamente i battenti di cristallo proprio mentre lui, ignaro dell'esistenza di sensori a infrarossi, sbilanciato, si sporgeva in avanti per sospingerli.
"Desidera fare una necrologia?", si sentì domandare da un usciere che stava in una guardiola di vetro antiproiettile e che lo apostrofava con cadenza taurinense amplificata da un altoparlante. "Di là, i primi tre sportelli".
Il Ménoli fece con la mano destra un segno negativo, accompagnato da corna, riflesso condizionato che cercò subito di dissimulare. "No, mi piacerebbe visitare lo stabilimento", momorò.
"Parli nel microfono!", intimò la voce metallica dell'usciere. Reiterata la richiesta, apprese che la visita era possibile, ma al mattino, su appuntamento, insieme con le scolaresche che avevano il giornale come meta dello loro escursioni. Fattosi inserire nell'apposita lista d'attesa, qualche settimana dopo, aggregato a una sessantina di ragazzini delle scuole medie, poté visitare la vasta redazione disseminata di videoterminali, l'asettica tipografia dove i poligrafici si aggiravano in camice bianco come infermieri, le sale protette del computer centrale e delle telecomunicazioni. Ebbe persino il privilegio di assistere all'avvìo delle rotative, che allora tiravano ancora Stampa Sera e non erano ancora state trasferite in altro fabbricato. La vertiginosa accelerazione dei tamburi, il dipanarsi degli enormi rotoli di carta e infine il carosello delle copie che affluivano al reparto spedizione, gli suscitarono quello stupore che sempre provava davanti alla potenza delle macchine.
Prudentemente girava al largo dall'ingresso dell'obitorio, davanti al quale ogni mattina, cercando parcheggio, scorgeva capannelli di parenti contriti, corone di fiori e furgoni mortuari. Gli capitava invece spesso, nei pomeriggi oziosi, di sedersi su una panchina davanti al palazzo dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Torino, che era poi lo stesso dell'obitorio, ma mentre questo si apriva sull'anonimo lato posteriore dell'edificio, l'Istituto aveva il suo ingresso dal lato della facciata - di linee vagamente fasciste - che guarda ai giardini ed al Po. Lì seduto, con il giornale aperto sulle ginocchia, il Ménoli considerava, senza riuscire a interpretarla, la scritta latina che sovrasta l'accesso: "Justitia hic gaudet viventibus succurrere et Manes placare".
Dalla sua panchina il Ménoli assisteva alla sfilata di fantesche filippine che spingevano carrozzine di neonati, guardava bambini dondolarsi su due altalene sotto gli occhi vigili di nonne e zie, vedeva studenti sciamare dall'Istituto di Medicina Legale, talvolta ancora sgomenti e pallidi per aver appena esaminato nell'annesso obitorio, sotto la guida del docente, cadaveri di suicidi, di assassinati o comunque di soggetti deceduti in circostanze misteriose.
Una volta gli venne di attaccar discorso con il sorvegliante. Apprese così che all'ultimo piano dell'edificio, chiuso al pubblico, aveva sede il Museo di antropologia criminale intitolato a Cesare Lombroso, lo scienziato positivista, gli fu spiegato, che credeva di aver individuato i tratti somatici del delinquente.
Entrato in confidenza con il custode, questi un giorno gli offrì l'opportunità di dare uno sguardo ai reperti conservati nel Museo, poche stanze polverose dall'apparenza di magazzino. Vide così, suo malgrado, una collezione di ingiallite fotografie di facce patibolari, cervelli di rapinatori e di omicidi conservati in vasi di vetro sotto formalina, nonché l'encefalo dello stesso Lombroso, che lo studioso volle lasciare ai cultori della sua triste scienza. Sotto formalina, c'era addirittura la testa di un ghigliottinato, o impiccato che fosse, assai ben conservata, con tanto di capelli, ancora corvini, solo lievemente scomposti. E poi crani dei più diversi malviventi, ricami a punto croce o sculture in mollica di pane opera paziente di ergastolani, armi improprie usate per commettere uxoricidi e infanticidi, accette che servirono a perpetrare i più truci delitti, talune ancora macchiate di sangue rappreso.
Dopo quella visita, ogni notte, sbarrando l'accesso al dragamine prima di far ritorno a casa, non poté più evitare che il pensiero gli andasse per un attimo, con un brivido, a quei reperti tenebrosi, testimonianza di abissi del comportamento umano sui quali non avrebbe mai voluto affacciarsi, forse per una inconfessata paura che ogni uomo ha di scoprire in sé il mostro.