Benvenuti a bordo
A portare un tocco di allegria capitava, ogni tanto, Gisella. All'inizio delle sue frequentazioni compariva verso l'ora di chiusura, dopo mezzanotte, quando ormai Pezzo-di-oro e il garzone Capece se n'erano andati e il Ménoli si tratteneva dietro al bancone del bar a fare i conti delle entrate e delle uscite su una piccola calcolatrice.
"Come vanno gli affari?", domandava.
"Bene", mentiva il Ménoli, riponendo la macchinetta.
"Allora facciamo festa, mettimi su un po' di musica", diceva la donna, sempre in abiti vistosi e succinti, in bilico su tacchi altissimi e con quel suo profumo alla violetta.
Bevevano un liquore - vodka ghiacciata, un amaro, una grappa - e chiacchieravano, mentre a basso volume girava una cassetta con vecchie canzoni di Rosanna Fratello o di Toni Santagata, due interpreti che riportavano al Ménoli una boccata d'aria pugliese.
La conversazione, con Gisella, non languiva mai. Aveva sempre qualcosa da raccontare: storie buffe di clienti - alcuni afflitti dai più vari disturbi sessuali, altri alla ricerca di prestazioni stravaganti -, ricordi dell'infanzia a Bagazzano, disavventure e delusioni adolescenziali che per slittamenti progressivi l'avevano portata a quella vita, pettegolezzi su colleghe, incontri con personaggi ora torvi ora patetici dell'ambiente della prostituzione.
In certo qual modo affezionata al suo lavoro, Gisella si dilungava anche nello spiegare al Ménoli come negli ultimi tempi quell'antico mestiere si fosse radicalmente evoluto, con la quasi scomparsa della losca figura del protettore e la conquista, da parte delle ragazze di vita delle ultime generazioni, di una piena, soddisfacente autonomia.
"Ci voleva il femminismo", si infervorava la donna. "Senza le lotte femministe saremmo ancora come schiave. Io, caro mio, non voglio neppure un fidanzato, altro che il pappone! Peccato che adesso arrivino altre schiavitù...", e riferiva di ragazze eroinomani che lavoravano sotto il ricatto degli spacciatori, o di nigeriane attirate in Italia da organizzazioni che poi si rivelavano vere e proprie società per l'esercizio del lenocinio su scala industriale.
Qualche volta scendevano anche la scaletta e finivano nudi e avvinghiati nella solita cabina. Era, da parte della donna, qualcosa di completamente alieno sia dal lavoro sia dal sesso. Un mettere a disposizione quel che aveva, così come il Ménoli metteva il bicchierino di grappa e la colonna sonora. Pur in assenza di qualsiasi attrazione fisica, Gisella trovava distensiva quella compagnia, dopo aver sopportato l'avvicendarsi sul suo corpo di clienti quasi sempre sgradevoli, per un motivo o per l'altro, ancorché redditizi.
Se le effusioni trafelate del Ménoli lasciavano la donna del tutto indifferente, lui, invece, alla carne turgida che gli si offriva, a quella femminilità nel pieno della maturazione che gli era dato di cogliere un attimo prima del declino, era estremamente sensibile. Così sensibile che in genere il rapporto si risolveva in pochi minuti, adducendo un profondo rilassamento, sia pure di tipo diverso, a entrambe le parti.
Con il passare delle settimane e il crescere della confidenza, Gisella infittì le visite e incominciò a presentarsi anche all'ora di cena. La sala era sempre così vuota che l'ospite, talvolta accompagnata dall'amica, la pallida Giusy, risultava al Ménoli doppiamente gradita: almeno il locale ospitava una parvenza di clientela. Né gli sembrava che ci fosse da preoccuparsi se qualche raro commensale lanciava occhiate insistenti, ma anche cariche di disappunto, verso quella signora dalle gonne sempre troppo corte e attillate, ora in calze a rete, ora in stivali di finta pelle rossa alti fin sopra al ginocchio. Quanto a "Pezzo-di-oro", di tanto in tanto, lasciati i fornelli, poco impegnati per mancanza di avventori, si affacciava dalla scaletta e guardava con un sorriso comprensivo il Ménoli seduto al tavolo di prua di fronte alla donna, mentre il ragazzo Capece li serviva posando occhiate avide nella scollatura e sulle spalle nude di Gisella.
Bevuto il caffé, la donna si alzava in fretta e raggiungeva il suo nuovo monocamera, dove ormai riceveva soltanto su appuntamento, dopo averlo dotato di videocitofono a scanso di brutte sorprese. Non di rado però tornava sul dragamine anche a fine serata, e allora era quasi di rigore la discesa in cabina.
In principio il Ménoli aveva fruito di quelle prestazioni con qualche rimorso pensando a Carmela che lo attendeva in solitudine nell'alloggetto dell'Istituto Case Popolari. Ben presto però aveva incominciato a darsi delle giustificazioni. In fondo, rifletteva, tra le lenzuola matrimoniali Carmela non aveva mai dimostrato un grande entusiasmo. Mai una volta che prendesse l'iniziativa, mai che le uscisse di bocca più che qualche sospiro, fosse anche soltanto un timido gemito.
Ad alleggerire la sua coscienza, poi, era intervenuto anche un altro fatto. Durante l'ultimo anno, cioè da quando si erano trasferiti a Torino, colto da un indistinto desiderio di paternità, nei rapporti con la moglie aveva smesso di prendere qualsiasi precauzione. Ma non era successo nulla. Gli si era così insinuato il sospetto che sotto quella disposizione frigida si nascondesse qualcosa di più grave: forse la maledizione biblica della sterilità, ciò che, secondo una diffusa cultura meridionale, restituisce intera al maschio la libertà di iniziativa.
Così, pur senza venir meno al cosiddetto debito coniugale, ma soltanto diradandone l'assolvimento, il Ménoli, quasi senza accorgersene era venuto affezionandosi a Gisella, superando persino il disprezzo che molti uomini, e non soltanto del Sud, hanno verso le donne di facili costumi, pur essendone il più delle volte utenti abituali. Anzi, che Gisella, solita a considerare l'amplesso un'attività da retribuire, gli si concedesse per amicizia - non poteva dirsi per amore, se ne rendeva conto anche lui - finì con il lusingarlo, legandolo sempre di più alla donna, della quale non finiva di apprezzare la forma abbondante, le mammelle scampananti quando si curvava su di lui e, va anche detto, le consumate virtù professionali.