Benvenuti a bordo
Un rivale, se non un concorrente, era quello sciagurato "Ristotram" al quale, non del tutto a torto, il Ménoli faceva risalire tutte le sue disgrazie. Un lunedì, che per il dragamine era giorno di chiusura, volle sperimentarlo. Salito sulla bianca vettura all'ora di cena, da piazza Castello si lasciò portare a zonzo per la città, trovando le portate appena passabili. I compagni di viaggio erano tre in tutto: una coppia di sessantenni, evidentemente pensionati in cerca di qualche svago, e un distinto settantenne dal piglio dell'ex militare, con baffetti e monòcolo.
C'era poco da imparare: la cucina era modesta, l'atmosfera malinconica come sul dragamine, gli avventori così scarsi da non coprire le spese. Ma ne trasse almeno quella consolazione di sapore acidulo che taluno prova vedendo i suoi rivali incontrare disavventure in tutto simili alle proprie. Gli sembrò invece una beffa personale essere imbarcato ai Murazzi per una gita sul Po, come del resto era previsto dal programma dell'escursione. Il battello, gestito dall'Azienda delle Tramvie municipali, era già carico di sfaccendati volgari, ragazzotti con in mano lattine di Coca-Cola o coni di gelato sbrodolanti, qualcuno con una radiolina accesa a tutto volume. L'anziana coppia e l'ancor più anziano avventore del "Ristotram" si confusero nella folla, probabilmente disgustati. Il traghetto, scandendo le tappe con muggiti della sirena, fece una sosta all'imbarco del Borgo Medievale, risalì la corrente fino oltre il Ponte delle Molinette, invertì la rotta davanti alla collina di Cavoretto e tornò ai Murazzi. Il Ménoli poté così contemplare da un insolito punto di vista il suo dragamine, più spettrale che mai, senza una luce né un segno di vita.
Non gli restava ora che visitare i concorrenti più diretti. Uno si chiamava Imbarcadero Perosino, denominazione che risaliva al tempo in cui a Torino le società di canottieri erano fiorenti. Collocato sul retro del Castello del Valentino sede della facoltà di Architettura, era poco accogliente all'interno e malamente ampliato con tettoie di plastica, ma disponeva di piacevoli tavoli all'aperto, sotto il fresco delle piante. Una signora di aspetto borghese, forse una ex insegnante precocemente pensionatasi per spremere il massimo dai privilegi dell'impiego statale, serviva con scarsa disinvoltura insalate russe, risotti, scaloppine: piatti triviali e, in proporzione alla qualità, anche eccessivamente cari, ma gli avventori erano ugualmente numerosi e appagati grazie alla piacevolezza dell'aria e del verde. Il Ménoli assaggiò qualche antipasto, masticò un paio di olive che neanche lontanamente potevano reggere il paragone con quelle che si era portato in gran quantità dalla sua terra, pagò il conto e se ne andò senza aver carpito il segreto di quel successo.
Invece comprese perché fosse gremito un altro locale, i cui sette-otto gradini di accesso scendevano lungo la sponda del Po proprio di fronte al ponte levatoio del Borgo Medievale, questo singolare falso realizzato a Torino in occasione di una Esposizione alla fine del secolo scorso, anticipando il deprecabile gusto dell'imitazione che affligge gli americani.
L'idrovolante era il nome di questo locale, a ricordo del fatto che in quel tratto del Po, davanti a un capannone di legno montato su palafitte, facevano scalo questi velivoli durante la loro breve stagione, tra le due guerre mondiali. Non più di cinque o sei tavoli erano accolti in una piccola costruzione di legno dall'arredo antico, di tipo marinaro. Qui venivano servite, da due camerieri giovani e aitanti, con i capelli tirati a lustro e un orecchino al lobo sinistro, compagnie raffinate o coppie clandestine variamente assortite. Le alte tariffe compensavano il numero limitato di coperti. I quali, per via dell'ambiente particolare e per la omologa particolarità della clientela, erano sempre prenotati. Una terrazza sporta sul Po ospitava poi una decina di tavoli all'aperto, dove venivano serviti pasti veloci ai rari turisti di passaggio al Borgo Medievale e ad altra clientela occasionale.
A uno di questi tavoli sedette il Ménoli nella sua esplorazione, e mentre attendeva un piatto di spaghetti all'arrabbiata rimase estatico a osservare dei cavedani che a decine, appena sotto il pelo dell'acqua, con il muso contro corrente, aspettavano a bocca aperta che il fiume portasse loro qualche preda. Stavano ognuno a una spanna dall'altro, muovendo le pinne lo stretto necessario per compensare la corrente. Di tanto in tanto, per qualche motivo misterioso, uno abbandonava rapidamente la sua posizione, creando un rimescolio in tutti gli altri e un baluginare di squame ramate, ma la formazione di lì a un istante si ricomponeva, ordinata come prima.
Era, questo, un aspetto dell'avvenuta purificazione delle acque padane. Occupate da topi di fogna e colonie di alghe e di colibacilli, le correnti del Po avevano visto quasi estinguersi la fauna ittica. Gli stessi gabbiani, giunti da chissà dove in colonie numerose, non vivevano più di pesca ma di sozzerie che andavano sbecchettando agli sbocchi delle fogne o nelle discariche abusive, non disdegnando neppure i cassonetti dell'immondizia, sempre traboccanti e spalancati per la sfacciata incuria dell'Azienda preposta alla raccolta dei rifiuti. Ma con il graduale ripulirsi delle acque, il Po aveva incominciato a ripopolarsi. Per primi si erano ripresentati appunto i cavedani, che sono pesci robusti e di palato buono. Erano così tornati anche i pescatori, a chiusura del cerchio biologico. La maggior parte di essi, però, non si fidava a mettere in padella i cavedani che abboccavano, e, liberatili dall'amo, li ributtava in acqua, sicché il Po ne ospitava ormai una popolazione esorbitante. Carpe e trote si aggiunsero ben presto, e qualcuno sosteneva che sul fondale si nascondessero persino dei lucci.
Altro indizio di una natura in ripresa erano le anatre e i cigni che un po' per volta erano ricomparsi sul fiume, via via che scomparivano le perfide schiume, diradavano le alghe, si correggeva il livello di acidità e venivano filtrati i metalli pesanti prima dispersi nelle acque. Merli, abili come odontoiatri quando cavano denti, con il loro becco giallo estraevano dai prati delle rive vermi invano riluttanti, cornacchie allargavano le loro ali nere in ampie planate lanciando gridi gutturali. Per non parlare delle gazze e dei cuculi che si scambiavano da un albero all'altro il loro richiamo irridente.
Addirittura un giorno fece la sua apparizione un'upupa. Con l'elegante piumaggio rosso-cannella striato di bianco e il ciuffo erigibile sul capo, il becco lungo e sottile, l'uccello fu notato sul prato pensile davanti alla redazione culturale de La Stampa. Grandi furono lo stupore e l'ammirazione ma nessun letterato riconobbe il volatile caro a Montale. Per individuarlo ci volle il cronista "verde" Noé Delfini. L'evento apparve così straordinario che fu chiamato un fotografo e il giorno dopo l'upupa metropolitana ebbe l'onore di un articolo nella cronaca cittadina. Per i redattori letterari, con allusione a un titolo di Leonardo Sciascia, quello divenne "il giorno dell'upupa".
Insomma, il fiume, con i suoi dintorni, era tornato ad essere un'oasi accogliente, ciò che avrebbe dovuto richiamarvi i cittadini amanti della natura. Il che in effetti avveniva: il sabato e la domenica distinti professionisti filavano sulla corrente uscendo a mezzo busto dalle loro canoe con la pagaia roteante tra le mani, giovani mamme spingevano davanti a sé passeggini con le loro creature, gruppetti di anziani andavano a godersi i refoli freschi che sempre spirano vicino ai corsi d'acqua. Eppure, nonostante tutto, il dragamine Italia rimaneva ignorato e deserto. Di fronte ad esso, sulla sponda destra, financo lo scalcinato Imbarco n. 6 vivacchiava decorosamente affittando barche e cabine verniciate di azzurro e fornendo ai propri clienti tramezzini di insalata russa da mandar giù versandoci sopra un bicchiere di birra.
All'avvicinarsi dell'autunno gli alberi si erano accesi di gialli e di rossi, l'acqua scivolava via liscia e verde-azzurra, le famiglie degli anatroccoli navigavano da una spiaggetta all'altra segnalandosi con versi rochi e tuffando, di tanto in tanto, il collo sott'acqua, mentre agitavano le zampe palmate per mantenere quella precaria posizione. La natura padana, a settembre, viveva il suo momento di grazia. Possibile che soltanto il dragamine venisse evitato da tutti?