Benvenuti a bordo
Bisognava trovare qualche richiamo che facesse conoscere la singolarità del ristorante sul dragamine, almanaccava il Ménoli. Ma come?
Credette di aver trovato una soluzione un giorno di fine settembre, quando si affacciò alla passerella un personaggio il cui vestire elegante non riusciva a mascherare una certa trasandatezza, un'aria lievemente laida e da malvissuto. L'uomo, dell'apparente età di sessant'anni, si qualificò come un editore di periodici a fumetti di nome Geppo Zavatti e incominciò a far domande: che tipo di naviglio fosse quello, da dove provenisse, che traversie avesse conosciuto, che cucina vi si praticasse. Il Ménoli gli rispose di buon grado, raccontando della provenienza brindisina ma sorvolando sui particolari più delicati, e fece anche emergere dalla cucina "Pezzo-di-oro", che si inchinò con il suo orientale tratto untuoso.
"Oltre a occuparmi di fumetti - dichiarò l'uomo - dipingo quadri, faccio incisioni su rame e suono il clarinetto, la cornetta e il sassofono, che però detesto perché non è altro che un clarinetto con la raucedine. Piuttosto del sassofono, preferisco il kazoo. Sa cos'è il kazoo? Una specie di trombetta in cui si canta a bocca chiusa".
"Kazoo?" mormorò il Ménoli con un po' di imbarazzo.
"Sì, kazoo, ha capito bene. Ho una mia banda jazz. Venga a sentirci al Caffé Leri, in corso Vittorio, abbiamo una serata fissa il primo venerdì di ogni mese".
Lasciò cadere una lunga pausa, durante la quale estrasse dalla tasca destra della giacca una scatoletta di pastiglie di saccarina, ne versò il contenuto sul palmo di una mano e con un paio di pasticche miste a frustoli di tabacco e altre sostanze dalla dubbia natura, dolcificò il caffé che il Ménoli intanto gli aveva messo davanti. Poi aggiunse: "Lo sa che il jazz è nato nei bordelli di New Orleans ed è stato tenuto a battesimo su barconi come questo, in navigazione lungo il Mississippi?"
Il Ménoli, che non sapeva, pur sobbalzando alla qualifica di barcone applicata al suo dragamine, annuì.
"Questo - riprese l'uomo - sarebbe il posto giusto per fare jazz tradizionale, che poi è l'unico vero jazz: quello venuto dopo, dallo swing in poi, è tutto noioso. Perché non compra un pianoforte? Se vuole, vengo con la mia banda a farle qualche serata."
"Possiamo metterci d'accordo", disse il Ménoli.
Si misero d'accordo. Avrebbero incominciato con la formazione più piccola: piano, clarinetto e banjo. Poi, se le cose fossero andate bene, sarebbero intervenuti anche il trombone, il basso tuba e la cornetta. Per la prima serata, di prova, avrebbero fatto le cose senza tante formalità: niente diritti d'autore alla Siae, niente paghe ai musicanti. Soltanto un boccone di cena, dopo l'esibizione.
Il pianoforte, preso a noleggio, era un vecchio strumento verticale di fabbricazione austriaca che fu fatto accordare e venne sistemato vicino alla scaletta che scendeva in cucina, di fronte al bar. Una settimana dopo una artigianale locandina schizzata a pennarello dallo stesso Zavatti e appesa sull'argine accanto al menù annunciava il concerto del "Geppo Zavatti's New Orleans Trio".
Per essere dilettanti - il pianista di professione era un avvocato esperto di diritto internazionale, il banjoista un ricco importatore di caffé - non suonavano male. Anzi, c'era in loro un gusto filologico per il jazz degli Anni Venti che li portava a produrre copie fedeli delle esecuzioni registrate, ancora con tecniche approssimative, dai giovani King Oliver, Jelly Roll Morton, Fats Waller, Louis Armstrong e dai fratelli Doods, Johnny e Warren "Baby", che furono il primo struggente clarinettista, il secondo formidabile suonatore di batteria.
"Il jazz è una grande musica - spiegava lo Zavatti - perché in esso si vede l'ordine nel disordine e il disordine nell'ordine. Fare jazz significa mettere d'accordo la libertà con le regole, l'anarchia con le leggi. Ognuno suona per sé, inventando a suo gusto, ma anche tenendo conto di tutti gli altri. Magari andassero così le faccende della vita..."
Al Ménoli, ignaro di quel genere musicale, i tre piacquero per l'allegria che con i loro suoni mettevano in un ambiente ormai divenuto tetro. Gisella, presente alla prova, si divertì moltissimo e attaccò subito discorso con lo Zavatti, verso il quale l'attirava una comune attitudine bordellesca, mentre Giusy si curava imparzialmente l'importatore di caffé e l'esperto di diritto internazionale. I due o tre commensali incidentalmente presenti parvero apprezzare l'accompagnamento sonoro, o quanto meno non lo disapprovarono. Conclusione: tra le parti intercorse un contratto verbale per esibizioni bisettimanali, il giovedì e il sabato. Lo Zavatti stesso si sarebbe occupato di far propagandare le serate tramite alcune radio private dove millantava conoscenze.
All'inizio la cosa suscitò una certa dose di curiosità. Il giovedì e il sabato sera qualche tavolo in più si riempiva. Nulla di travolgente, anzi, un'impresa passiva per il bilancio del Ménoli, che oltre a Gisella e Giusy ora aveva ospiti anche i tre jazzisti, e talvolta sei, quando intervenivano i suonatori del trombone, della trombetta e del basso tuba. Si poteva però sperare che in quel modo la fama del locale circolasse, creando un giro di clientela adescata dalla musica di New Orleans e trattenuta dalle sapienti ricette di "Pezzo-di-oro".
Purtroppo non fu così. Sarà perché Torino è città geometrica e quadrata non soltanto nella topografia, e i torinesi gente che rifugge da qualsiasi iniziativa insolita, ma un ristorante sull'acqua con tre anomale figure di musicanti - ciò che a Parigi, a Londra, e persino a Francoforte avrebbe ottenuto un giusto riscontro di pubblico - non interessò a nessuno. I pochi intervenuti alle prime esibizioni non si ripresentarono né passarono la parola agli amici. Dopo poche settimane, il numero dei commensali paganti era tornato quello di prima, cioè molto vicino a zero.
L'esito sconfortante non sembrava disturbare i musicanti, che avevano trovato in Gisella e in Giusy due temperamenti capaci di ricreare le origini libertine del jazz in modo ancora più efficace di quanto non riuscissero a fare loro suonando. Soprattutto il pianista, approfittando della sua aria da intellettuale inoffensivo, nel rievocare, fra un'esecuzione e l'altra, i trascorsi di Jelly Roll Morton nelle case di tolleranza di New Orleans, più di una volta aveva allungato una mano sul sedere di Gisella, della quale peraltro ignorava la professione, pur avendo oramai acquisito elementi sufficienti per intuirla. Lo Zavatti non era da meno. Anzi, con Giusy non sentiva neppure il bisogno di raccontare i soliti aneddoti sul dente di diamante da mezzo carato che Morton si era fatto incastonare tra gli incisivi o sul significato fallico del soprannome "Jelly Roll": senza tante chiacchiere, andava per via direttissima alle cosce della ragazza, che finalmente, a quegli approcci, accendeva un poco il viso, solitamente di un pallore cadaverico.
Chi non poteva essere contento era il Ménoli, sia perché i conti andavano peggiorando sia perché incominciava a sentire una dolorosa punta di gelosia nell'assistere impotente alle confidenze che i musicanti si prendevano con Gisella. Senza avvedersene, aveva assimilato la logica e la morale delle ragazze di vita, disposte a qualsiasi servizio con i clienti ma pudiche e a volte persino riottose con l'uomo che amano davvero. Come si permettevano quei comportamenti? Una cosa era il lavoro, un'altra il dopolavoro. Una pacca del pianista turbava il Ménoli più della libidine dei depravati che quasi ogni sera Gisella si trovava a soddisfare.
Per di più lo Zavatti cercava di riversare sulla gestione del ristorante la responsabilità di quel fallimento. "La cucina non è adatta, - ripeteva - troppo raffinata, troppo cara". "Ci vorrebbe - insisteva - una cucina con piatti a base di fagioli e di salsicce, ricette rustiche, una cucina creola come creoli erano molti esponenti delle origini del jazz. Cosa crede che si mangiasse nelle osterie di New Orleans?". Ma "Pezzo-di-oro" protestava: se volevano piatti di fagioli lessi e minestre di cipolla, si rivolgessero a qualcun altro, lui era specializzato in pesce, crostacei e affini, cucinati come si deve.
Andò a finire che il Ménoli si liberò di tutti quanti: congedò i musicisti, che ormai erano un fardello del tutto passivo, e licenziò "Pezzo-di-oro", che gravava non poco sul bilancio perché era stato assunto con uno stipendio abbastanza consistente, e per di più, con la sua mania di mettere in pentola aragoste, scampi, dentici e cernie, faceva salire alle stelle il costo dei rifornimenti.