Benvenuti a bordo
"Siamo su un fiume e voglio una cucina di fiume", disse perentorio il Ménoli al nuovo cuoco, un alessandrino dai capelli brizzolati che raccontava di aver esercitato nei migliori alberghi d'Europa, da Stoccolma a Madrid ad Atene, e di essere ritornato in Piemonte alla morte degli anziani genitori soltanto per curare affari di famiglia.
"Basta parlare", rispose il sostituto di "Pezzo-di-oro", condiscendente. "Faremo trote in carpione, gamberi d'acqua dolce, tinche e carpe in salsa aurora, brodetto di rana, anatra arrosto, frittate verdi, dolci alla panna cotta: vedrà che entro un mese questo ristorante sarà famoso".
Il problema però - come il Ménoli ormai aveva capito - non era tanto disporre di una cucina più o meno appetitosa, quanto di far sapere alla gente dell'esistenza dell'Italia. Non pretendeva di paragonarsi a locali rinomati di quella contrada, come il San Giorgio, sofisticato ristorante inserito nel Borgo Medievale, o la Magione del Tau, davanti all'ingresso dell'Ospedale Molinette, dove era andato una volta in una delle sue esplorazioni, apprezzandone soprattutto la padrona, giovane donna bella e severa che sembrava una inflessibile istitutrice svizzera. Ma che cosa mancava al suo dragamine rispetto all'Imbarcadero Perosino o all'Idrovolante?
Con la banda jazz le cose erano andate male. L'idea di puntare su un'attrazione però continuava a considerarla buona. Ricordò che Gisella, nella sua logorrea, una volta gli aveva parlato di un certo cliente che faceva spettacoli di magia e di prestidigitazione. "È così in gamba - gli aveva riferito - che senza accorgermene mi sono trovata senza orologio e senza mutandine!". Il Ménoli, che per non soffrire da un po' di tempo cercava di rimuovere il pensiero del mestiere di Gisella, lì per lì sentì una fitta al cuore. Alcune settimane dopo però le chiese, caso mai fosse nuovamente venuta in contatto con quella persona, di assumere qualche informazione sul mondo dei prestidigitatori.
Il caso volle che la risposta non si facesse attendere. I maghi famosi - riferì Gisella - costano un occhio e sono sempre impegnati, fanno continuamente tournée e non hanno mai una serata vuota. A Torino, però, esisteva un Circolo di maghi che teneva anche una scuola per allevare nuove leve. Alcuni sono e rimarranno dei dilettanti, altri, invece, delle nozioni apprese faranno la loro definitiva professione. Tra questi allievi, e talvolta anche tra i loro maestri, maghi ormai in pensione perché non reggono più il ritmo delle continue trasferte, non era difficile reclutare un'attrazione per il dragamine Italia. Bastava recarsi alla sede dell'associazione, di cui Gisella si era annotato l'indirizzo.
Il Circolo dei maghi si trovava in una via appartata del vecchio centro storico, vicino all'Archivio di Stato. Vi si accedeva da un portone che immetteva in un cortile con al centro un basso fabbricato destinato ad autorimessa: la sede era in un vasto magazzino seminterrato, cui portavano due corte rampe di scala. Il Ménoli si presentò a nome del cliente di Gisella e fu subito preso in consegna dal presidente, Eleuterio Balletti, in arte "Lo Gnomo", un mago anziano che per prima cosa gli illustrò le due grandi categorie in cui si ripartiscono i praticanti di quest'arte: quelli che fanno i loro giochi soltanto per il divertimento proprio e del pubblico ammettendo esplicitamente che si tratta di trucchi, e quelli che invece pretendono di possedere poteri paranormali, con ciò carpendo la buona fede degli spettatori.
"Il nostro Circolo - chiarì subito "Lo Gnomo" - è contro gli affabulatori del paranormale. Anzi, siamo dell'idea che costoro debbano essere smascherati perché plagiano le persone più ingenue, tant'è vero che molti di essi si spacciano anche per veggenti, eseguono fatture e fabbricano filtri, approfittando della leggenda che fa di Torino una capitale della magia nera.".
"A me interessa soltanto lo spettacolo - chiarì a sua volta il Ménoli -. Ho un ristorante su una barca in mezzo al Po e vorrei, senza troppa spesa, farlo conoscere con qualche attrazione".
"Non c'è nulla di ciò che i sedicenti paranormali fanno con grande solennità, si tratti di telepatia, telecinesi, preveggenza o altro, che non possa essere fatto da un qualsiasi allievo del nostro Circolo. Qual è il genere che desidera per il suo locale?".
Il Ménoli, ignaro del settore, non sapeva che cosa rispondere. Il Balletti, che forse veniva chiamato "Lo Gnomo", oltre che per la bassa statura, per la barbetta brizzolata e appuntita e per gli occhietti vivacissimi, gli illustrò allora alcune branche dell'arte magica. "Niente di meglio - disse - che farci guidare dagli oggetti custoditi in questo magazzino".
La sede del Circolo era quanto di più insolito si possa immaginare. C'erano grandi macchine per eseguire trucchi da palcoscenico, come i bauli per tagliare in tre pezzi una donna e poi ricomporla sana e sorridente o le scatole colorate per far scomparire e ricomparire colombe, conigli e anche animali pió ingombranti. C'erano tavolini per esperimenti di levitazione o per organizzare sedute spiritiche, costumi di scena resi vistosi da "paillettes" e tessuti metallizzati, una sterminata collezione di cappelli a cilindro, una doppia vetrina contenente centinaia di mazzi di carte truccati, dai classici mazzi Svengali a quelli più moderni, i cui semi possono essere letti usando occhiali all'infrarosso. Decine di altre vetrinette custodivano il materiale necessario per i trucchi più diversi e anche cimelii appartenuti a maghi famosi, e tra questi il leggendario Harry Houdini, di cui si conservava un groviglio di catene arrugginite con tanto di lucchetto truccato.
"In ogni modo - ribadiva "Lo Gnomo" passando in rivista l'eterogeneo campionario - il materiale che si usa è la cosa meno importante. Ciò che conta è l'arte del mago, la sveltezza delle sue mani e ancor più la sottigliezza del suo cervello".
"La magia - spiegava con eloquenza torrentizia a un Ménoli attonito - è prima di tutto una tecnica psicologica mirata a deviare l'attenzione dello spettatore. Noi non abbiamo una parola italiana per dire questo: siamo costretti a usare la parola inglese 'misdirection'. Le regole fondamentali della nostra arte sono semplici: basta dire quel che non si fa e fare ciò che non si dice, ricordando sempre che il pubblico non chiede altro che di essere ingannato... Distrarre, bisogna distrarre lo spettatore. Non si dimentichi che anche per i furti raffinati, quelli compiuti da amministratori e politici, è in uso l'espressione ‘distrazione di denaro’. Poi, naturalmente, ci sono tante tecniche di uso spicciolo. La principale è quella della forzatura: si chiama a collaborare un rappresentante del pubblico e gli si fa credere che sta compiendo scelte libere - per esempio indicando questa o quella carta da gioco, il fazzoletto rosso o il fazzoletto azzurro - e invece tutte queste scelte vengono forzate, cioè rese obbligatorie dal mago, senza che nessuno se ne accorga. Questo fa parte del filone delle arti magiche chiamato 'mentalismo', il più affascinante, la mia personale specializzazione...".
A modo suo, "Lo Gnomo" era anche filosofo: "Mi creda: le nostre tecniche - diceva - vengono applicate pure nella vita quotidiana, e assai meno innocentemente che da noi maghi. I politici, per esempio, più o meno consapevolmente, sono maestri della 'misdirection': anch'essi fanno sempre ciò che non dicono e non dicono mai ciò che fanno. Non parliamo poi della forzatura. In questo esercitano la loro arte più sottile, al riparo della Costituzione. La democrazia è la glorificazione stessa della misdirection. Lei crede di essere libero quando si chiude in una cabina per votare? Niente di più sbagliato. Non sceglie forse sempre tra gli stessi simboli consunti, tra le stesse facce da marpione? Mi ascolti: se tanti onesti cittadini venissero alla nostra scuola, i trucchi dei politici diventerebbero evidenti agli elettori, i più mascalzoni verrebbero rimandati a casa e finiremmo con l'essere governati meglio. Ma il discorso potrebbe andare anche più lontano. La stessa esistenza umana è, molto probabilmente, un inganno, o almeno un'illusione, un gioco di prestidigitazione del Padreterno...".
Sempre più frastornato, il Ménoli teneva per prudenza una mano premuta sul portafogli e si aggirava in quel magazzino di cui mai avrebbe sospettato l'esistenza con passo guardingo, come se da un momento all'altro sotto i suoi piedi potesse aprirsi una botola e inghiottirlo, restituendo magari un volo di colombe o un grappolo di palloncini colorati.
A rendere più espliciti i suoi discorsi straripanti, Eleuterio Balletti eseguì poi una serie di trucchi con le carte, con il cappello a cilindro e con una mezza dozzina di cerchi che inesplicabilmente si incatenavano e si liberavano l'uno dall'altro. Mostrò anche come ci si potesse senza danno trapassare la lingua con uno spillone o mangiare il vetro di una lampadina dopo averla schiacciata sotto i piedi, a condizione di usare uno spillone truccato e di alternare i pezzi di vetro con bocconi di banana.
Alla fine il Ménoli decise che i primi, non raccapriccianti, erano i trucchi più adatti per il suo scopo e passò a discutere le condizioni. Concordarono che il Balletti sarebbe andato a compiere un sopralluogo a bordo del dragamine. I maghi avrebbero potuto alternarsi: un po' lui, un po' i suoi allievi, che così avrebbero avuto l'occasione di fare pratica davanti a un pubblico poco impegnativo. Come compenso all'inizio si sarebbero accontentati della cena e di una cifra simbolica. Poi, a cose avviate, avrebbero rinegoziato.