Benvenuti a bordo
Ormai era autunno fatto. Sul Po sempre più spesso si depositava un tenue velo di nebbia, le formazioni di cavedani non scodinzolavano più in superficie nuotando controcorrente e i cortei di anatre si facevano vedere soltanto nelle ore più tiepide della giornata, quando il sole bucava le brume e con i suoi raggi cavava struggenti colori dorati dalle foglie secche ancora attaccate agli alberi.
Per sbarcare il lunario e far fronte alle rate del mutuo, il Ménoli stava esperendo un nuovo tentativo. Conservando un menù ispirato alla cucina di fiume soltanto per cena, all'ora di pranzo il dragamine si trasformava in una tavola calda molto economica, così da competere con i molti bar che offrivano agli impiegati nelle aziende della zona soprattutto toast e tramezzini, ma anche semplici piatti dai sapori casalinghi: riso bollito all'inglese, frittate di zucchini, scaloppine al vino bianco.
Il cuoco aveva rifiutato di prestarsi a una ristorazione di rango così basso. Si degnava di stare davanti ai fornelli soltanto alla sera, con un contratto a tempo parziale che alleggeriva ulteriormente le spese di gestione. A preparare panini e piatti da tavola calda provvedeva la donna delle pulizie, tale Santina Pignatelli, una zitella cinquantenne certo non favorita da Venere, con un grosso bitorzolo peloso su una guancia, ma forse proprio per questo lavoratrice e devota al padrone. Il ragazzo Capece stava di servizio ai tavoli, aiutato dal Ménoli quando non era alla cassa o ad azionare le leve della macchina del caffé espresso.
Per cena la scena cambiava, l'Italia diventava un ristorante di qualità. Verso le dieci, liquidati gli antipasti e i primi piatti, arrivava il mago di turno, si infilava giù per la scaletta in abiti borghesi, ne risaliva indossando una giacca sgargiante e incominciava ad eseguire i suoi numeri.
All'inizio si esibiva lo stesso Balletti, gran teorico della sua arte ma un po' fuori esercizio da quando aveva smesso una regolare attività. Poi incominciarono ad alternarsi i giovani allievi del Circolo. In qualche caso tentarono anche trucchi da palcoscenico: levitazione di ragazze che simulavano uno stato di 'trance' o apparente trafittura delle stesse fanciulle con spade e coltelli. Il Ménoli si era infatti lasciato convincere dal Balletti: le emozioni forti avrebbero fatto richiamo. Questi effetti richiedevano però apparati ingombranti e speciali sistemi di illuminazione perché non si vedessero i trucchi. Più spesso, quindi, i maghi in servizio sul dragamine si orientavano verso banali manipolazioni con le carte. Talvolta, poi, coinvolgevano i commensali di tavolo in tavolo: per esempio tagliavano con forbici truccate la cravatta di qualche cliente restituendola alla fine perfettamente integra. Oppure puntavano sui classici giochi di prestidigitazione in cui compaiono e scompaiono sigarette accese o una inimmaginabile quantità di oggetti viene estratta da cilindri in apparenza completamente vuoti. In chiusura, non mancava mai un esperimento di lettura del pensiero o di preveggenza, tecniche nelle quali il Balletti eccelleva, e di conseguenza i suoi allievi.
Gli avventori seguivano i numeri più o meno distrattamente. Alcuni, pochi, si divertivano e applaudivano. Altri, la maggioranza, erano un po' imbarazzati quando il mago li sceglieva come controparte e trovavano che lo spettacolo finiva con il disturbare sia la degustazione sia la conversazione. Così, per variare, di tanto in tanto, il Ménoli richiamava il "Geppo Zavatti's New Orleans Trio", pregando però i musicisti di eseguire in sordina i loro soliti pezzi, tra i quali ricorrevano con particolare frequenza "Doctor Jazz", caratterizzato da una interminabile nota di clarinetto, il buffo "Hyena stomp", in cui lo Zavatti eseguiva la risata della iena, per la quale aveva un'autentica inclinazione, e "Dead Man Blues", un brano che, pur essendo di tema funerario, dopo le malinconiche note introduttive si trasformava in un'allegra marcetta.
Poiché nonostante tutti questi sforzi il ristorante Italia stentava a imporsi, il Ménoli aveva escogitato un ulteriore sistema per procurarsi clientela: affittava il dragamine, banda jazz compresa, a famiglie che dovevano festeggiare battesimi, prime comunioni, cresime e nozze. In questo modo il tutto esaurito era sicuro e facendo un po' di cresta sulle materie prime acquistate riusciva persino a rifornire la cambusa per i giorni successivi. Anche la via dei banchetti organizzati però non era senza inconvenienti. Talvolta, per ospitare questi conviti rituali, era costretto a sospendere il servizio di tavola calda e ad appendere il cartello con la scritta "Locale riservato", scontentando la clientela abituale. Inoltre, pur avendo preso contatto con il parroco del quartiere e con un usciere dell'ufficio municipale dove si celebrano i matrimoni civili, coloro che eleggevano il dragamine come luogo dei festeggiamenti erano pur sempre una esigua minoranza perché quella scelta appariva alla maggior parte dei torinesi troppo stravagante.
La fetta più consistente delle entrate continuava dunque a essere garantita dalle serate all'insegna della magia. I prestidigitatori rinnovavano abbastanza di frequente il loro repertorio, la gente, in complesso, si divertiva e il Ménoli non doveva stare sempre con gli occhi aperti per moderare gli approcci dei musicanti nei confronti di Gisella. Neppure con i maghi però era del tutto tranquillo. Anzi, benché la maggior parte di essi manifestasse atteggiamenti effemminati dichiarando a volte apertamente la mancanza di qualsiasi apprezzamento per le doti muliebri, proprio uno di essi procurò al Ménoli la peggior ferita di gelosia. Si esibiva, quella sera, un certo Mago Aldebaran, un quarantenne dai capelli biondi, quasi certamente tinti o forse posticci. Gisella, riconoscendolo, gli si era gettata cinguettando tra le braccia e dopo avergli schioccato un bacio per guancia lasciandogli l'impronta del rossetto si era rivolta al Ménoli dicendogli: "Vedi, questo è l'amico manosvelta di cui ti ho parlato...".
A parte rari inconvenienti di questo tipo, il rapporto tra il Ménoli e Gisella andava avanti senza scossoni. La donna, prima di raggiungere la sua alcova, si presentava regolarmente per consumare uno spuntino. Completava poi il pasto dopo mezzanotte, quando, ormai abitualmente, tornava in compagnia di Giusy, con la quale divideva il monolocale. Di tanto in tanto, Giusy se ne andava con i musicanti, il cuoco e il garzone, lasciandoli infine alla loro intimità. E allora il Ménoli si gettava famelico su quella carne dalla pelle profumata, di cui sentiva sempre più morbosamente il richiamo.
Altre volte, invece, quando Gisella era troppo provata o il Ménoli non era in vena, si limitavano a chiacchierare, commentando l'esibizione dei musicanti o i numeri di magia.
"Sai che anch'io sono stata una maga?" disse una notte Gisella al Ménoli mentre lo aiutava a togliere le tovaglie con macchie di unto o di vino.
"Una maga?"
"Sì, il capo di una banda di zingari mi aveva insegnato a leggere la mano. Così per un po' ho fatto anche la chiromante".
"Ci credevi o sapevi di imbrogliare?"
"Non sono una che imbroglia. Allora ci credevo sì. Avevo imparato a riconoscere le linee del palmo: quella della vita, quella dell'amore, i taglietti che indicano le malattie, le deviazioni che annunciano i divorzi, i piccoli buchi dei debiti, la montagna dell'amore. I destini della gente mi sembravano così chiari... Bastava un'occhiata, era straordinario riconoscerli in quelle pieghe. Mi dicevano che indovinavo. Passato, presente e futuro".
"E perché hai smesso?"
"Per colpa di una scimmia, una femmina di scimpanzé. Si chiamava Buana, era dello stesso zingaro che mi aveva insegnato la chiromanzia. Un giorno le presi la mano. Aveva anche lei righe e pieghe, incroci e ramificazioni. Ma come poteva una scimmia essere padrona del proprio destino se dipendeva in tutto dai suoi padroni, che se ne servivano per il loro accattonaggio? E poi le scimmie hanno quattro mani e due sinistre. Come possono avere due destini?"
"Non sarebbero troppi se avessero due anime", disse il Ménoli, che a volte aveva uscite estrose.
Gisella rise. "Da quel giorno ho smesso di leggere la mano. Posso fare solo un mestiere in cui credo".
"Nel tuo di adesso credi?"
"E perché no? Niente di più pulito. Di qua il mio corpo, di là i soldi. Tutto finisce lì".
Il Ménoli si morsicò le labbra. Poi allungò la sinistra verso Gisella.
"Guarda la mia mano. Che ci vedi?"
"Se ti ho detto che sono tutte storie!"
"Guarda lo stesso".
Gisella prese tra le sue la mano del Ménoli e sentì che era sudaticcia. La esaminò lungamente. Nel silenzio risuonò il verso stridulo di qualche uccello notturno.
"Allora?"
"Vedo un cambiamento: soldi, fortuna. E poi... c'è qualcosa di improvviso. Forse un viaggio inaspettato, non voluto, breve ma molto pericoloso..."
L'uomo corrugò la fronte e interrogò: "Breve ma pericoloso?"
"Di cosa ti preoccupi? Te l'ho detto che sono tutte fandonie...".
Il Ménoli se ne dovette convincere. Niente cambiambenti, niente soldi, niente fortuna. L'assedio delle cambiali si faceva sempre più stringente. Mentre attingeva alle ultime riserve, giornate e serate sul dragamine sembravano avviate ormai a un monotono tran-tran e gli affari seguivano un andamento incerto che è quasi più penoso della bancarotta.
Finché una sera, a mezzanotte suonata, mentre il mago di turno richiudeva la valigetta dei suoi trucchi, Gisella tornò da sola e con l'aria sconvolta. Sculettando nervosa tra i tavoli si precipitò verso il Ménoli, che con uno straccio stava lucidando la macchina del caffé e, chinatasi sul suo orecchio, soffiò: "Hanno ammazzato Giusy".