Benvenuti a bordo
Giusy, non più pallida del solito, giaceva nuda su un sofà di velluto amaranto con gli occhi spalancati e il braccio sinistro abbandonato a sfiorare il pavimento.
Arcangelo Ménoli non era mai stato in quel pied-à-terre. Si era sempre rifiutato di visitarlo, preferiva non conoscere il teatro dell'attività di Gisella, l'osceno palcoscenico di chissà quali lascivie, se non proprio perversioni. Ora si era lasciato trascinare fin là dalla donna sconvolta, pur rendendosi conto che stava compiendo un'imprudenza. "Avvertiamo subito la polizia", aveva provato a dire, ma Gisella era allergica a quella parola. "E se fosse ancora viva? Io sono scappata senza neanche toccarla. Non perdiamo tempo, andiamo a vedere!".
No, non c'era più niente da fare per Giusy. Per qualche istante il Ménoli la contemplò in silenzio, come paralizzato: non riusciva a staccare lo sguardo da quegli occhi che parevano scrutare una voragine e da quella bocca rimasta semiaperta, come in un urlo muto. Gisella stava appesa al suo braccio, il viso contratto in una smorfia di orrore, singhiozzando sommessamente ma senza lacrime.
Si curvarono sul cadavere. Videro allora che sul collo di Giusy c'era un livido bluastro, una vasta ecchimosi, e che nel pugno sinistro, appoggiato al tappeto, la donna stringeva ancora una calza a rete.
"Strangolata!", mormorò tra i denti il Ménoli.
In effetti l'assassino doveva aver usato quell'indumento, arma impropria classica in delitti del genere. La donna doveva aver lottato, riuscendo a strapparsi dal collo la calza. Forse aveva gridato. E allora l'omicida probabilmente aveva completato il soffocamento con le mani.
"Sai con chi era?" domandò il Ménoli.
"Come potrei saperlo? Uno dei soliti, uno dei tanti. Lo sai anche tu, lei lavora soltanto al pomeriggio, quando io sono a casa mia a dormire. Ma oggi verso le quattro mi ha telefonato per dirmi che questa sera aveva bisogno del pied-à-terre dalle undici a mezzanotte. Così io ho preso solo due appuntamenti e alle undici meno un quarto sono uscita. Per far passare il tempo mi sono infilata nel bar 'La Frasca', qui vicino. Ho bevuto un Bacardi con un cubetto di ghiaccio e ho chiacchierato un po' con il cameriere, un ragazzo di vent'anni piuttosto strano: dice che pratica la 'street art'..."
"Che cosa?"
"Sì, ritaglia delle sagome su carta da giornale, delle specie di mascherine traforate che rappresentano facce o diavoli o fiori o altro, e poi con una bomboletta di vernice spray disegna figure e scritte sui muri. Una specie di affreschi, insomma. Dice che all'estero è di gran moda, e che sarebbe ancora più divertente se si potesse farlo sui vagoni della metropolitana, come a New York, a Londra e a Parigi, ma Torino non ce l'ha..."
"Meno parole inutili, qui c'è la tua amica morta morta!", tagliò il Ménoli, che oltre ad essere spaventato incominciava a irritarsi per il frivolo divagare di Gisella, questa volta più fuori luogo del solito.
"Volevo solo spiegarti: me l'hai chiesto tu".
"E poi?".
"Poi, verso mezzanotte e dieci, sono tornata qui: avevo ancora un appuntamento. Ho trovato la porta socchiusa, la luce accesa. L'ho vista così, mi sono tirata dietro la porta e sono scappata".
"E il tuo cliente?".
"Già, non ci pensavo più... Sarà venuto, avrà suonato al citofono e se ne sarà andato".
"Ora chiamiamo la polizia, non c'è altro da fare. Imprimiti bene in mente tutti i particolari, le ore, i minuti, le ultime parole che Giusy ti ha detto. Ci torchieranno per giorni e giorni, cercheranno di farci cadere in contraddizioni...".
"Tu non c'entri niente, da questa storia puoi soltanto averne delle grane", disse allora Gisella, che sembrava aver ripreso il controllo di sé. "Vattene a casa. Ci penso io. Appena posso ti tengo informato".
Gisella fu fermata e rilasciata dopo ventiquattro ore. La sua versione era convincente, l'alibi del cameriere dedito alla "street art" era stato verificato e del resto non c'era motivo di sospettarla. Se poi fosse stata legata in qualche modo indiretto al delitto, poteva essere più utile in libertà che in galera: forse avrebbe compiuto un passo falso o incontrato personaggi equivoci e, con il suo comportamento, avrebbe indirettamente suggerito agli inquirenti qualche pista. Coltivando questa speranza il commissario dispose che, con la dovuta discrezione, venisse pedinata. Il Ménoli, il cui nome non era mai affiorato nell'interrogatorio della donna, non venne disturbato. Su di lui venne soltanto esercitata una sorveglianza alla lontana, dopo che gli inquirenti ebbero constatato che la compagna della vittima frequentava con regolarità il dragamine.
Il giorno dopo, appena tornata a piede libero, Gisella si presentò al Ménoli con addosso i vestiti stropicciati di due giorni prima e in mano un mazzetto di rose gialle.
"Accompagnami, voglio vederla", disse al Ménoli.
"Come sarebbe a dire?".
"Mi hanno detto che è qui, all'obitorio".
Risalirono la stradina lungo la riva del Po e due minuti dopo erano nella penombra fresca di quel luogo che fino ad allora, scaramanticamente, il Ménoli aveva di proposito evitato, al punto da cambiare marciapiede per non passargli neppure davanti.
Gisella parlottò a voce bassa con il custode, che si allontanò per andare a chiedere la necessaria autorizzazione. Mentre attendevano, il forte odore di lisoformio e altri disinfettanti emanato dagli squallidi tavoli di marmo dove i cadaveri venivano provvisoriamente distesi li assalì allo stomaco al punto da stordirli.
I rilievi autoptici erano già stati compiuti e i risultati consegnati al giudice istruttore: nulla ostava alla richiesta della donna di dare un ultimo saluto alla sua compagna. Due inservienti in camice nero sfilarono il corpo di Giusy dalla cella frigorifera e rivoltarono un lembo del lenzuolo che lo copriva. Senza trucco, il volto della ragazza era come di candida cera, la bocca e gli occhi finalmente chiusi. L'ecchimosi al collo non si vedeva quasi pió perché il colletto della camicetta era stato sollevato a coprire le impronte della violenza. Qualche famigliare, o qualche anima pietosa, le aveva portato, per l'ultimo viaggio, abiti adolescenziali, da collegiale.
Rimasero un attimo in raccoglimento, attraversati dai pensieri che inevitabilmente suscita l'incontro con la morte, poi Gisella fece un cenno all'inserviente, il quale ridistese sul cadavere il sudario, che poteva anche sembrare una comune zanzariera. Su quel lenzuolo, vicino ai piedi, depose le rose gialle. La cella frigorifera si richiuse con un tonfo cupo.
Uscendo, alla mente del Ménoli si affacciò l'immagine della testa di ghigliottinato dai capelli in lieve disordine che aveva visto sotto formalina al Museo Lombroso di antropologia criminale, in quello stesso edificio.
"Giusy non aveva neppure un ricciolo fuori posto", pensò. E a Gisella disse: "Vieni, ti devo parlare".