Benvenuti a bordo
L'ultima estate non aveva registrato né piogge né temporali; per tutto l'autunno, dall'alba al tramonto, il sole non era mai stato offuscato da nuvole; pure l'inverno risultò tra i più asciutti: cielo terso, freddo moderato e secco, niente neve, soltanto qualche nebbia e, in gennaio, all'alba, il pizzo candido della galaverna sui ramaggi degli alberi, come un fine ricamo.
Anche l'inizio della primavera era trascorso all'insegna della siccità. I pozzi si prosciugavano a mano a mano che le falde acquifere scendevano sempre più in profondità. In molti paesi, e non soltanto del Sud, si profilava lo spettro della sete e del razionamento idrico. Sulle Alpi quasi tutti i ghiacciai arretravano lasciando allo scoperto sassaie desolate.
Gli esperti intervistati alla televisione dissertavano di una "tropicalizzazione della zona temperata" ormai chiaramente in atto. "Ci troviamo di fronte ai segnali inquietanti dell'effetto serra", scrivevano i giornali senza neppure il beneficio del dubbio. E minacciavano al popolo le conseguenze nefaste dell'anidride carbonica, dei clorofluorocarburi, degli ossidi di azoto che le attività dell'uomo contemporaneo immettono in enormi quantità nell'atmosfera rischiando di modificarne i millenari equilibri.
Questi gas - spiegavano penne edotte - proprio come il vetro o la plastica delle serre, sono trasparenti alla radiazione luminosa del sole, che dunque raggiunge liberamente il suolo, ma sono opachi per la radiazione infrarossa, o calorifica, che la terra dovrebbe restituire allo spazio interplanetario durante la notte. Di conseguenza il calore si accumula. La temperatura più alta causa lo scioglimento dei ghiacciai e l'evaporazione dell'acqua. Il vapore, a sua volta, agisce esattamente come l'anidride carbonica e gli altri gas incriminati. Risultato finale, un "effetto serra in fuga", tale cioè da incrementare all'infinito se stesso. Ancora pochi anni e questo fenomeno maligno avrebbe fatto squagliare le calotte polari e trasformato l'ambiente terrestre in un deserto rovente.
Se la siccità aveva colpito gran parte dell'Europa centrale e dell'area mediterranea, naturalmente la regione padana non faceva eccezione. Per limitarci al Lungopò torinese, i prati del parco del Valentino, in aprile, quando dovrebbero essere di un verde lussureggiante, apparivano chiazzati di giallo, erba secca pronta a incendiarsi al primo mozzicone gettato via avventatamente. A causa del clima insolitamente mite, le gemme degli alberi si erano schiuse in anticipo, ma la fioritura era stata malsana e stenta, i frutti erano caduti prima di prender forma e ora le foglie illanguidivano nella vana attesa di una spruzzata di pioggia.
"Anche il tempo è cambiato", commentava la gente, che, nel suo buon senso, in questo mondo non vede se non peggioramenti. "Tutta colpa delle diavolerie degli scienziati", dicevano alcuni. "Dello sfruttamento delle risorse naturali per arricchire i soliti padroni", accusavano altri, più inclini agli schemi ideologici.
Sarebbe bastato ragionare non con il metro umano degli anni o dei decenni ma, come fa la Natura, dei secoli se non delle migliaia di secoli, per rendersi conto che sempre su questo pianeta si sono alternati periodi di siccità e periodi piovosi, epoche più calde ed epoche più fredde. La statistica, tuttavia, nulla può contro le percezioni soggettive, e l'uomo della strada non aveva poi tutti i torti a giudicare sulla base della propria memoria, peraltro non sempre buona. In fondo non si poteva pretendere che massaie e manovali, ma anche notai, avvocati e giornalisti, avessero a mente le stucchevoli serie di dati raccolti con pluviometri, termometri e altri strumenti da capannina meteorologica.
Chiunque avesse torto o ragione, rimaneva però il fatto che la siccità si prolungava. Anche a Torino il livello del fiume Po era sceso ai minimi storici e in molti punti affioravano secche sabbiose, ingombre di alghe essiccate e, purtroppo, anche di sacchetti e bottiglie di plastica nonché dei residuati più vari. Gli argini di cemento emergevano bianchi e spogli, ormai superflui, tanto la poca acqua rimasta scorreva lontano, nella zona centrale dell'alveo. Qua e là, lungo le sponde, stagnavano pozze che lentamente si prosciugavano sotto il sole, mentre i pesci rimastivi prigionieri boccheggiavano tra la ghiaia e la melma.
Il dragamine Italia ormai poteva essere raggiunto a piedi, anche senza passerella. Il graduale ritirarsi delle acque aveva finito col depositarlo dolcemente sul fondo del fiume, rendendo inutili le catene e le sbarre di ancoraggio. Il Ménoli ne aveva approfittato per curare la manutenzione del fasciame, facendolo ripulire dalle alghe e dalle altre incrostazioni accumulate nei due anni di stazionamento. Dopo l'operazione, il dragamine, perfettamente stuccato e riverniciato, aveva ripreso il nitore di quando, nel cantiere di Lido Specchiolla, Nicola Mastrototaro glielo aveva riconsegnato.
Il denaro per questi lavori non mancava. Da quando l'imbarcazione era diventata luogo d'incontro e di riparo per i cuori solitari, non solo il Ménoli pagava regolarmente le cambiali e le rate del mutuo, ma retribuiva abbastanza largamente la banda jazz dello Zavatti e accumulava risparmi che finivano in parti uguali sul suo conto corrente e su quello di Gisella, sempre più compresa nel suo ruolo di pronuba cassiera.
Il servizio di tavola calda, poco redditizio, era stato liquidato, e con esso Santina Pignatelli, la zitella di aspetto repellente che provvedeva a preparare insalate e tramezzini, sostituita da una donna a ore che aveva cura di tener pulita la cucina e mettere ordine nelle cabine cambiando ogni giorno le lenzuola nelle cuccette. Oltre tutto così, aprendo i battenti del loro dragamine soltanto a pomeriggio inoltrato, Gisella e il Ménoli, sempre costretti a far tardi per lavoro, e talvolta tardissimo per il proprio piacere, potevano concedersi di dormire fino all'ora di pranzo.
Ogni sera della settimana, tranne il giorno di chiusura, il dragamine imbarcava il suo carico di esistenze giovani o attempate, romantiche o perverse, felici o infelici, inquiete o già appagate. Era accaduto d'inverno, quando la solitudine si fa sentire più cruda, continuava ad accadere di primavera, quando si risvegliano i fremiti primordiali della fecondità, quel misterioso desiderio di immortalità, incontrollabile e per certi versi disperato, che si annida profondamente in alcune delle nostre cellule.
E il "tutto esaurito" continuò anche quando, con una brusca svolta meteorologica, verso la fine di aprile il cielo si coprì di nuvole gravide di tiepidi vapori e incominciò, finalmente, a piovere.