Benvenuti a bordo
All'inizio erano gocce rade e svogliate, che aprivano piccoli cerchi sull'acqua quasi ferma del Po. Più che una pioggia, una spruzzata come quella che davano i parroci quando, verso Pasqua, armati di aspersorio e seguiti da due chierichetti, passavano a benedire le case. Tra una benedizione e l'altra, il sole compariva fugacemente tra le nubi e talvolta, appena schermato da cirri sottili, rimaneva visibile, simile a una luna sbiadita, anche mentre la pioggia ricominciava a tamburellare.
Andò avanti così per tre o quattro giorni, poi da nord-ovest giunsero nubi più fosche e le gocce, fattesi pesanti ma ancora rade, cadevano nel Po come sputi, mentre nell'aria gli animi più sensibili, o semplicemente meteoropatici, avvertivano nel cielo una indefinita minaccia. Ben presto le gocce diventarono più fitte, e infine non soltanto Torino, ma l'intera Padania e vaste regioni d'Europa si trovarono sotto un diluvio costante, determinato, che sembrava non dovesse smettere più.
Anche la temperatura aveva subito un crollo improvviso, e in montagna nevicava come in pieno inverno. I colonnelli dell'Aeronautica spiegavano in Tv che si era instaurata una circolazione d'aria anomala, circolazione che faceva scendere le gelide correnti a getto del Circolo polare artico fino a latitudini temperate. Dimostrando grande flessibilità, quegli stessi giornalisti che fino a poche settimane prima predicavano l'imminente desertificazione del pianeta a causa dell'effetto serra, incominciarono a rilevare i segni inequivocabili di una nuova era glaciale. Le nevicate fuori stagione - affermavano nei loro articoli - coprendo di un manto candido vaste regioni, riflettevano nello spazio la radiazione solare, contribuendo al raffreddamento della Terra e quindi a nuove nevicate. Anche le nuvole, sempre più estese, con il loro biancore svolgevano la stessa funzione. Veniva così a crearsi un "effetto ghiacciaia in fuga", che nel volgere di poche stagioni avrebbe potuto trasformare gran parte della superficie terrestre in una gelida banchisa polare, simile a quella che da sempre ricopre la Groenlandia e l'Antartide.
La siccità era stata così prolungata che il suolo dapprima assorbì l'acqua avidamente, come una spugna. Per una settimana il livello del Po non sembrò neppure registrare il mutamento meteorologico. Poi il fiume incominciò lentamente a salire, a riconquistare le distese di ghiaia, infine a gonfiarsi e a lambire gli argini.
Sotto quella pioggia testarda, che durava senza soste ormai da una quindicina di giorni, il dragamine era tornato a galleggiare, e adesso la corrente gli fluiva attorno veloce, gorgogliando a poppa in turbolenze limacciose.
Non sembrava però che ci fosse un serio motivo per allarmarsi. Piuttosto, in una sera precocemente buia per la nuvolaglia grigia e bassa, al Ménoli avvenne di trattenersi a fissare da un oblò della cucina l'acqua che scorreva precipitosamente, e a forza di fissarla - per il principio di relatività dei moti - a un certo punto si accorse che non avrebbe più saputo dire se fosse l'acqua a filare via o il dragamine a solcarla ad andatura sostenuta. "Come ogni cosa dipende dal punto di vista!", si sorprese a meditare.
Pioggia o non pioggia, nulla era cambiato nell'attività dell'Italia. I tavoli erano sempre al gran completo, nuove facce comparivano ogni sera, ognuna con una storia e una speranza, mescolandosi alle facce note e ricorrenti dei frequentatori delle cabine. Gli affari non potevano andare meglio. In fondo, come Gisella aveva intuito, l'uomo è semplice. Non diversamente da ogni altra forma vivente, dall'ameba al filosofo, chiede cibo e amore, o almeno sesso, e quella barca - novella Arca di Noè - era attrezzata appunto per soddisfare i bisogni primari.
"Avevi proprio ragione, - disse una notte il Ménoli a Gisella dopo essersi sfogato sulle sue carni frollate ma accoglienti - tutto sommato svolgiamo una funzione preziosa, contribuiamo ad alleviare le tristezze del mondo".
"È la stessa cosa che ogni tanto mi veniva in mente salendo le scale del Glicine o tirandomi dietro la porta del mio pied-à-terre a fine giornata", rispose Gisella con la più grande disinvoltura. "A proposito: hanno tolto i sigilli. Ieri sono passata davanti al portone e mi sono fermata a leggere i nomi del citofono. È diventato lo studio di un commercialista".
L'uomo le accarezzò con tenerezza le natiche tonde come meloni.
"Ora sei contenta di aver cambiato vita?" domandò.
"Mi torna sempre in mente Giusy", deviò Gisella, "Quei capelli sciolti, quella bocca e quegli occhi aperti".
La pioggia crepitava rabbiosa e violenta sul dragamine, oltre l'oblò la si vedeva scendere di sbieco, compatta come una barriera contro la luce dei lampioni, a increspare le acque livide e gonfie del Po. Il Ménoli s'incantò a rimirarla soprappensiero, con l'occhio vuoto di chi si trova in stato di ipnosi. Incominciava ad avvertire una indefinita inquietudine. Per qualche oscura associazione, il pensiero gli corse a Brindisi, con i due seni diramantisi come corna dal Canale Pigonati, i genitori valetudinari che invecchiavano lontani, la cassiera riluttante del Caffé Centrale di Ceglie Messapica, la tabaccaia compiacente. Mentre queste immagini scorrevano sullo schermo della memoria, ebbe come il presentimento di una sciagura e sentì dentro di sé tutta la fragilità delle creature umane.
"Non rivestirti, Gisella", sussurrò allora, in preda alla voglia di prolungarsi in una discendenza che da qualche tempo covava in lui, specie da quando si era convinto che Carmela fosse sterile. "Questa sera si replica, e senza guanto francese".