«Santità, giunge notizia urgentissima dal nostro oratore a Parigi, il re di Francia è in punto di morte.»
Era l’alba del 1° gennaio 1515. Papa Leone X, svegliato dal cardinale camerlengo, suo segretario personale, era costernato: «Ma com’è possibile? Appena qualche mese fa ha sposato Maria Tudor, la sorella del re d’Inghilterra Enrico VIII, e poi è ancora giovane. Ha appena… quanti anni aveva? Anzi, quanti anni ha?»
«Cinquantatré, santità, soltanto cinquantatré.»
«Ecco, pochi per morire, in particolare se si è un re; ma forse è un falso allarme…»
Non era un falso allarme. In realtà Luigi XII stava morendo proprio in quelle ore.
«È la successione che mi preoccupa» aggiunse pensieroso il papa de’ Medici, «conosco bene quel Francesco di Valois Angoulême. Quando sarà re, prenderà il nome di Francesco I. È cugino, ma soprattutto genero, di Luigi, avendone sposato la figlia Claudia. Da ciò deriva la sua legittimazione al trono. Anche lui, come il suocero e il cugino, discende da Valentina Visconti tramite suo nonno, Giovanni conte d’Angoulême, quindi lui può avanzare delle pretese ereditarie su Milano e di sicuro lo farà. Prima o poi lo vedremo scendere in Italia con un suo esercito, come ha fatto più volte senza successo suo suocero. Francesco mi sembra pericoloso, forse perché il suo regno diventa sempre più forte. Ci aspettano altri anni difficili.»
«E pensare» aggiunse il segretario, «che il Valois è cugino, non so se di secondo o terzo grado, di Massimiliano Sforza.»
«Sappiamo bene» rispose il papa con un tono conclusivo e rassegnato, «che questi legami familiari non contano assolutamente nulla».
La zia di Massimiliano, Bona di Savoia, moglie di Galeazzo Maria, era infatti zia per via paterna di Luisa di Savoia, la madre del futuro re. L’amara conclusione del pontefice, comunque, era la pura verità: le politiche dinastiche di quei tempi creavano intricate reti di rapporti interfamiliari così ingarbugliati che spesso finivano per non avere alcun valore politico e per non creare alcun legame, men che meno affettivo, come in questo caso.
Facile profezia, quella del pontefice. Francesco I, appena incoronato re, prese a parlare pubblicamente e ufficialmente dell’«impresa d’Italia», di volere «in ogni modo recuperare Genova e Milano». Leone X, che prima di chiunque altro aveva previsto i propositi del sovrano francese e che si considerava strenuo difensore di Milano e dell’Italia tutta, prese l’iniziativa promuovendo ancora una Lega tra lo Stato della Chiesa, l’Impero, la Spagna, i cantoni Svizzeri e il Ducato di Milano. L’alleanza fu conclusa in tempi rapidi, il 16 febbraio 1515, appena quarantasei giorni dopo la proclamazione di Francesco I, tanta era stata l’apprensione provocata dai suoi intenti bellicosi ed espansionistici. Il comando della Lega fu affidato al de Cardona, Prospero Colonna fu messo a capo delle truppe milanesi e Marcantonio Colonna di quelle papali.
Altrettanto immediata fu la reazione che giunse d’Oltralpe. Francesco I replicò le mosse del suo predecessore rinnovando il Trattato di Blois con Venezia. Ma fece anche ulteriori tentativi: uno vano, cercando di convincere i temibili Svizzeri a disinteressarsi di Milano. L’altro, ossia accattivarsi Genova, si rivelò invece fin troppo agile: il doge Ottaviano Fregoso si impegnò a non contrastare e, anzi, ad assecondare il passaggio dei Francesi giacché per la Superba – che pure aveva sempre mal tollerato il dominio di fatto di Milano – era la flotta spagnola il principale ostacolo alla sua navigazione nel Mediterraneo e ai suoi traffici marittimi.
Quando le intenzioni dei Francesi e i loro preparativi all’invasione della Lombardia furono evidenti, le forze della Lega cominciarono a prendere posizione: 12.000 Svizzeri scesero lungo le valli alpine del Piemonte occidentale per andare a sistemarsi all’imboccatura della strategica valle di Susa. Intanto, mentre re Massimiliano I faceva rafforzare tutti i presidi lungo la valle dell’Adda per contrastare l’arrivo dei Veneziani, Prospero Colonna portò l’esercito sforzesco verso le Prealpi, tra il Verbano e il Lario; il de Cardona con i suoi Spagnoli andò a presidiare Cremona e Marcantonio Colonna con le truppe pontificie, Verona. Il papa, intanto, proseguiva la sua attività politica e diplomatica coinvolgendo, oltre ai Colonna, potenti casate romane come i gli Orsini e i Savelli e il duca di Urbino, spingendoli a portare le loro truppe in Lombardia.
«Gli Svizzeri sono attestati a Susa e certo prima o poi scenderanno in pianura» spiegò Massimiliano al fratello che, avendo il comando del Castello, era di fatto il responsabile dell’eventuale ultima resistenza. «Noi però dobbiamo avere la certezza che si impegneranno nella difesa di Milano; per questo mi hanno chiesto una somma enorme, 300.000 scudi.»
Francesco trasecolò: «Che guaio, Massimiliano! Come hai potuto promettere tanto denaro? Non saremo mai in grado di pagare quella somma».
«Lo so bene e non ci resta che chiedere ai nostri sudditi di sacrificarsi se vogliono evitare un nuovo dominio francese che tanto hanno odiato. Intendo dire, Francesco, che siamo costretti a imporre una tassa straordinaria una tantum, ne va della sopravvivenza del Ducato.»
«Un’altra tassa? È una follia! Negli ultimi anni Milano e le altre città sono state dissanguate. No, Massimiliano, così rischiamo una rivolta.»
«Io, invece, sono certo che i milanesi capiranno e pagheranno. In ogni caso, è deciso. Ed è già pronta la grida: una prima metà del contributo dovrà essere versata entro tre giorni, l’altra metà entro un mese.»
«Confermo, amato fratello e mio signore: stai commettendo una follia che pagheremo cara.»
Francesco si era convinto che Massimiliano avesse perso la testa, smarrita la percezione dell’equilibrio e della realtà. Ma ancora una volta, il popolo milanese diede prova del suo radicato senso di responsabilità. Forse anche perché in quei giorni un evento miracoloso avvenuto in Duomo spingeva alla moderazione e alla pacificazione. Il 18 maggio la Vergine Maria raffigurata nella Madonna dell’Albero, un dipinto su tela molto venerato nella Cattedrale, era stata vista aprire e chiudere gli occhi più volte: la voce del «miracolo» era corsa in città e nelle campagne e una folla di credenti in preghiera si accalcava davanti al quadro e ovunque ormai si parlava di guarigioni e apparizioni private.
In questo diffuso sentimento di devozione, dunque, la prima risposta popolare all’inattesa e brutale imposizione fu composta ma risoluta: un’assemblea del 19 giugno decise di trattare con gli Svizzeri. Una delegazione composta dai notabili e nobili della città andò all’Albergo del Pozzo, dove risiedevano i rappresentanti dei cantoni, per manifestare loro l’impossibilità di rispettare un impegno così gravoso.
«Non dovete parlarne con noi» fu la gelida, arrogante ma prevedibile risposta, «rivolgetevi direttamente al duca che ha preso quest’impegno.»
La delegazione, quindi, il giorno dopo andò al Castello per manifestare a Massimiliano l’insostenibilità della nuova pesantissima tassa. La reazione di Massimiliano fu imprevista, incauta e spropositata; confermando i sospetti del fratello, dando cioè l’impressione di avere ormai perso la testa, commise il più grave errore della sua vita. Errore che gli alienò per sempre le simpatie dei milanesi: fece rinchiudere nelle carceri del Castello tutti i delegati.
La reazione del popolo fu immediata e inevitabile. Appena in città si diffuse la notizia dell’arresto della delegazione scoppiarono tumulti e tafferugli. Il 21 giugno tutte le botteghe chiusero per quattro giorni. Niente di grave, ma un segnale fortissimo di un malessere che serpeggiava e che presto avrebbe potuto degenerare. Tanto che Francesco, accompagnato da Gerolamo Morone e Galeazzo Visconti, altra personalità autorevole a corte, si precipitò dal fratello e stavolta lo affrontò con una fermezza mai manifestata prima: «Massimiliano, sta accadendo quanto temevo, la città è in subbuglio. Non puoi rischiare di alienarti la devozione dei milanesi: se vuoi evitare il peggio, libera subito i delegati e ritira quell’odiosa imposizione, fallo soprattutto nel tuo interesse».
Il duca, impressionato anche dall’inconsueta severità con cui il fratello aveva osato affrontarlo, capì che non era il caso di insistere e già il 23 giugno fece scarcerare i delegati ed emise una grida che annullava la tassa.
Restava però impellente e grave la necessità di raccogliere il denaro per pagare gli Svizzeri.
«Dobbiamo coinvolgere le categorie più influenti e trovare una soluzione accettabile per tutti. Dobbiamo fare in fretta, non c’è tempo da perdere» gli consigliò Francesco con una certa energia.
Fu nominato un comitato di ventiquattro notabili e aristocratici milanesi che, affiancato dai consiglieri ducali, studiò una soluzione di compromesso, complessa ma anche innovativa per le concessioni a Milano che prevedeva. La comunità cittadina avrebbe raccolto 50.000 ducati da dare a Massimiliano, che in cambio cedeva alcuni suoi privilegi e diritti: il Naviglio Grande e il Naviglio Martesana con i redditizi diritti d’acque (navigazione, impiego per usi agricoli eccetera). In questo modo, la somma raccolta sarebbe rientrata nelle casse della città in tempi brevi.
Ma soprattutto, novità ancora più significativa, il duca riconosceva ai milanesi il diritto di eleggere l’amministrazione cittadina composta da un vicario di Provvisione e un Consiglio dei Dodici di Provvisione: vaghe e lontane reminiscenze repubblicane e comunali che i milanesi non avevano mai del tutto cancellato dalla loro memoria collettiva. Qualche mese dopo, l’11 luglio 1515, l’accordo venne formalizzato con un atto notarile e le concessioni furono estese anche ad altre città del Ducato.
Ciononostante, non fu raggiunta la somma per la quale Massimiliano si era impegnato e si dovette in ogni caso ricorrere a nuove tasse, in parte dilazionate e con esenzioni per i più poveri. Il problema erano le riscossioni. Soprattutto quelle a carico dei ceti medi e produttivi, i più vessati, subivano gravi ritardi e le gride ducali per sollecitare i pagamenti si succedevano sempre più minacciose.
A Milano, insomma, tirava una brutta aria. Inevitabili i confronti con la precedente amministrazione francese che, con il demagogico proposito di conquistare il consenso di una popolazione naturalmente ostile, si era mostrata prudente ed equilibrata: non aveva introdotto nuovi tributi o prestiti forzosi, anzi, aveva cercato di agevolare le attività produttive anche per trarre il Ducato fuori da una grave crisi economica provocata dalla guerra. E, novità preoccupante, anche tra i soldati ora regnavano malcontento e incertezza a causa dei sempre più forti ritardi del soldo.
Ben consapevole di questo diffuso stato d’animo, il re di Francia si lasciò andare a profferte larghissime a quei «collegati» – così si definivano i membri della Lega – che gli sembravano più facilmente acquistabili, perché abbandonassero l’alleanza. Tanto che nella Dieta della Lega a lungo si parlò della possibilità di accettare la proposta a patto che venissero estese a tutti i collegati, lasciando quindi il Ducato di Milano ai Francesi senza neppure combattere.
Fu il rappresentante del papa, un Orsini, a convincere tutti che per il momento era opportuno «mantenere lo Stato al duca, giacché in effetti» spiegò con un cinismo tipico della politica e della diplomazia di ogni epoca, «lo possiamo scacciare da Milano quando vogliamo». D’altra parte, aggiunse, «conosciamo bene il Gallo, sappiamo che è un uccello già molto pennuto, perciò aiutandolo a diventare duca di Milano gli accresceremmo il piumaggio e gli rinforzeremmo le ali, ciò che a nessuno oggi conviene».
In realtà, il pericolo francese era ormai concreto e incombente. Francesco I aveva mosso le sue forze stanziate a Genova, con le quali minacciava di marciare sul Piemonte e poi, attraverso il Monferrato, sulla Lombardia. Spaventato, Massimiliano scrisse a Schiner: «Ormai è chiaro, eminenza reverendissima, che il nemico intende muovere su Alessandria; è perciò quanto mai opportuno che almeno 6000 Svizzeri si spostino su quella città per proteggerla e tagliare ai Francesi la strada per Milano».
«Non sarebbe una buona mossa» rispose il cardinale, «significherebbe fare il gioco del nemico, che intende proprio allontanare forze da Milano per indebolirla. Vi prego di non dare ascolto a quanti sono pronti a elargire gratuiti consigli standosene ben lontani dai fatti. Suggerisca loro di venire qui per constatare lo stato delle cose e di non restare a oziare nelle loro comode camere.» Con queste parole cariche di sarcasmo, Schiner si riferiva all’imperatore e ad altri signori di Stati vicini al Ducato come Mantova, Ferrara o il Monferrato, preoccupati dall’avanzata francese. O perfino al papa, al quale pure Massimiliano chiese aiuto, ma che neppure gli rispose.
Le obiezioni di Schiner apparvero ancora una volta sensate, perché fu subito evidente che re Francesco I non intendeva affatto arrivare a Milano da sud ma da nord, attraversando le Alpi e il Piemonte, e per giunta anche lungo un percorso inconsueto. Infatti, invece di passare il Monginevro, come ci si poteva aspettare, per scendere verso Susa dove erano asserragliati gli Svizzeri, attraversò il valico della Maddalena o dell’Argentera, impervio perché collocato a quasi 2000 metri di quota.
Fu un’impresa memorabile, che qualcuno, esagerando, paragonò alla discesa di Annibale in Italia. Francesco I si trovava al comando di un esercito di più di 50.000 uomini, tra soldati, ausiliari e addetti ai servizi vari, e una cinquantina di enormi cannoni, fino ad allora mai visti all’opera in Europa, difficili da trasportare in montagna, e in qualche modo paragonabili, in effetti, agli elefanti del condottiero cartaginese.
Il merito di questa operazione fu di un abile ingegnere spagnolo, Pedro Navarro, inventore delle mine per scopi militari. A causa di mancati compensi e riconoscimenti, costui era entrato in conflitto con il suo re, Ferdinando il Cattolico, e aveva deciso di «tradirlo» offrendo i suoi servigi a Francesco I.
Il 10 agosto 1515 i Francesi erano a Villafranca di Piemonte. Le milizie sforzesche, comandate da Prospero Colonna, erano poco distanti ma non ebbero la percezione della situazione di pericolo nella quale si trovavano: «Non è l’esercito di Francesco quello che è arrivato a Villafranca, sono solo pochi reparti isolati di esploratori mandati in avanguardia, il grosso sta ancora passando il Monginevro, possiamo stare tranquilli, ho notizie certe da alcuni informatori affidabili».
Colonna stava commettendo il più grave errore della sua vita di soldato: alcuni suoi uomini avevano disertato, piaga ormai diffusa tra quelle guarnigioni sfiduciate, altri erano addirittura passati al nemico. Non a caso, Francesco I aveva deciso di infiltrarli in mezzo alle truppe sforzesche per depistare le informazioni.
Così, una sera, al comando di Jacques de La Palice, i Francesi poterono avanzare indisturbati. Prospero stava tranquillamente cenando con i suoi ufficiali.
«Li catturarono tutti senza neppure sguainare le spade» scrisse ai Medici monsignor Goro Gheri, vescovo pistoiese, governatore di Piacenza e collaboratore della signoria fiorentina, «quindi la truppa, rimasta senza capi, si arrese immediatamente.»
La troppo facile vittoria inorgoglì i Francesi e costrinse gli alleati a rivedere i loro piani. Non restava che unire le forze del de Cardona a quelle pontificie e attestarsi in difesa di Alessandria. Contavano di affrontare il nemico spingendolo contro barriere naturali come il Po e l’Adda, in quella che avrebbe dovuto essere una battaglia risolutiva.
Ma era ormai evidente che in quel reticolo di fiumi, torrenti e canali si ponevano a confronto due epoche, due momenti della storia: da una parte una nuova e moderna potenza, una forte monarchia nazionale, con un suo esercito dotato di armamenti e tecniche di combattimento all’avanguardia, capace di rifornimenti agevoli e con un grande nazione alle spalle; dall’altra un’incerta alleanza fra Stati troppo piccoli, ormai privi di orgoglio identitario, interessati solo a limitare i danni servendosi di costosi eserciti mercenari, spesso poco leali. La storia era dalla parte dei primi.
«La Lombardia che tanto dicono di voler difendere» scrive impietoso il Gheri ai Medici, «è per la maggior parte corrotta e sospetta, tanto che molti sono coloro dei quali si dovrebbe diffidare e molto pochi quelli sui quali fare affidamento. Oltretutto, il governo di Milano non mi pare il più accorto e affidabile al mondo.» In effetti, a causa delle tante, contorte e sfortunate vicissitudini che avevano colpito il Ducato dopo la caduta di Ludovico il Moro, i milanesi andavano smarrendo l’attaccamento allo Stato, non si identificavano più con esso, stavano abbandonando ogni senso di appartenenza e sentimento di fedeltà.
Gli Svizzeri, dunque, si erano attestati a Susa perché si aspettavano che i Francesi venissero da sud, dalla Liguria o dalle Alpi Marittine. Vedendoseli ora arrivare da nordest e molto più vicini del previsto, si spostarono a Novara. Re Francesco I interpretò questa mossa come un sintomo di paura e di sfiducia nella Lega e cominciò a mandare segnali di disponibilità a un accomodamento. Segnali che vennero ben accolti, in particolare da quelle truppe provenienti da cantoni in disaccordo con Schiner.
Iniziarono dunque in gran segreto – almeno nelle intenzioni – delle trattative per staccare gli Svizzeri dalla Lega. A condurle per i Francesi era Renato il Gran Bastardo di Savoia, conte di Tenda. Personaggio più abile e ostile alla Lega e a Milano non si sarebbe potuto scegliere, come dimostra la sua biografia. Figlio naturale (perciò «bastardo», termine allora non spregiativo) di Filippo II duca di Savoia e della sua amante Libera Portoneri, era zio del re perché fratello di Luisa di Savoia, la madre di Francesco I. Renato, René per i Francesi, era stato allevato alla corte di Milano dalla zia Bona di Savoia, vedova di Galeazzo Maria Sforza e reggente del Ducato, poi vessata ed emarginata dal Moro. A dodici anni Renato aveva seguito il padre alla corte di Massimiliano I imperatore, finché, finalmente, fu chiamato a Parigi dalla sorella Luisa.
Lì mostrò tutto il suo talento politico e la sua spregiudicatezza, facendo una luminosa carriera diplomatica. Oltre alla tradizionale ostilità dei Savoia per il Ducato di Milano, dunque, ad accrescere l’odio di Renato per gli Sforza furono proprio gli anni trascorsi con Bona: a inculcarglielo in dosi massicce, anzi, fu più di tutti la zia che detestava il Moro per le umiliazioni e la progressiva estromissione dal potere ducale.
«Ricorda sempre, Renato, che gli Sforza detestano i Savoia e noi li ricambiamo con altrettanto rancore, è una storia antica e il mio matrimonio con il povero Galeazzo Maria non è servito a niente. Anzi, ha solo peggiorato la situazione. Tienilo bene a mente, caro nipote, dagli Sforza e da questo Ducato per noi non potrà mai venire alcunché di buono.» Queste parole, con le quali Bona salutò Renato quando lasciò Milano, rimasero sempre ben impresse nella memoria del Bastardo e gli tornarono in mente durante la trattativa con gli Svizzeri: doveva punire gli Sforza. Perciò fece di tutto per indurre i cantoni a lasciare la Lega e abbandonare Milano al suo destino.
In un primo tempo gli incontri, naturalmente all’insaputa di Schiner, si svolsero a Vercelli. Ma poi, quando dai confederati elvetici arrivarono nuove forze – solo allo scopo di alzare il prezzo del tradimento – la trattativa si spostò a Gallarate.
Pur di convincere gli Svizzeri a ritirarsi, re Francesco largheggiava sempre di più in concessioni, ma Schiner si accorse che qualcosa non andava e incaricò i suoi uomini più fidati di informarsi. Finalmente seppe cosa stava accadendo. Se ne rammaricò e si adirò, non poteva accettare che i «suoi» Svizzeri tradissero, ma capì subito che non c’era niente da fare perché il grosso delle truppe non era più sotto il suo controllo. Non gli restò che informarne Massimiliano.
«La situazione è gravissima, Francesco, il Ducato è in pericolo, inutile negarlo» confidò il duca a suo fratello, «ma è più prudente non far trapelare la notizia, in città si potrebbe spargere il panico e allora sarebbe davvero la fine.»
«Se le cose stanno così è bene che tu, Massimiliano, ti metta al riparo. Non puoi rischiare di cadere nelle mani del nemico» ribatté Francesco.
«Potrei andare a Mantova e mettermi sotto la protezione della marchesa, la zia Isabella» azzardò Massimiliano.
«No fratello, esporresti Mantova all’ira del francese e comunque non puoi lasciare il Ducato, darebbe l’impressione di una fuga. Intanto vai a Como, è ben presidiata dagli Svizzeri fedeli al nostro amico Schiner. Il cardinale si sta impegnando per indurre i confederati a stare dalla nostra parte, è molto abile e convincente, potrebbe riuscirci. Da Como potresti continuare a seguire la situazione. Io resterò a Milano, a presidiare il Castello, ultima difesa.»
Ma le cose si complicarono ancora di più: Massimiliano era da poco arrivato nella città lariana quando 10.000 Svizzeri dei cantoni di Berna, Friburgo, Vallese e Soletta, in seguito a un primo accordo firmato a Gallarate il 9 settembre, accettarono le proposte di Francesco I – il quale, all’insaputa degli stessi, confederati, aveva cominciato a negoziare anche con papa Leone X – e abbandonarono Schiner, lasciandolo solo con 3000 fedelissimi.
«Con questi pochi uomini non possiamo tenere Como, ritiriamoci a sud, andiamo a Piacenza, lontana dalle posizioni francesi. Da lì potremmo contare anche sull’appoggio del viceré e tornare con lui e i suoi spagnoli verso Milano.»
Re Francesco però si stava avvicinando: aveva preso prima Novara poi Pavia, quindi mandò a Milano il solito Gian Giacomo Trivulzio che, benché ormai settantacinquenne, continuava a svolgere il ruolo di stratega delle campagne militari francesi in Italia. La speranza era che il suo minaccioso avvicinamento alla città provocasse una rivolta.
Speranza mal riposta, perché il presidio svizzero rimasto a Milano e fedelissimo a Schiner era ancora abbastanza forte da tranquillizzare la popolazione. Trivulzio dovette cambiare tattica, fermandosi piuttosto distante dalla città, confidando di poter tagliare i rifornimenti dalle campagne mentre il cardinale continuava a mandare vigorosi messaggi di incitamento alla resistenza: «Tenete duro, presto mi ricongiungerò con le forze del viceré e insieme piomberemo sugli assedianti».
Ma il de Cardona, che voleva eludere lo scontro con il sovrano francese, non si mosse da Piacenza e il cardinale con i suoi Svizzeri dovette cavarsela da solo, avanzando fino a Marignano, borgo tra Lodi e Milano, nel territorio di Melegnano e San Giuliano. Il fatto è che Trivulzio si trovava già a San Cristoforo e Francesco I si era accampato a Boffalora, sopra il Ticino. A questo punto i milanesi, che fino ad allora avevano mantenuto la calma, allarmati anche dall’assenza del duca, presero l’iniziativa per evitare il peggio: «Dobbiamo trattare con il francese la possibilità di aprirgli la città» suggerì Galeazzo Visconti, conte di Busto Arsizio, uno dei più influenti collaboratori di Massimiliano, «ma a una sola condizione, che aspetti otto giorni prima di entrare, il tempo necessario per sistemare le nostre cose, in modo che i soldati francesi arrechino il minor danno possibile alla popolazione». Con questa proposta – che in realtà sembrava avere più lo scopo di prendere tempo – si presentò a Francesco I una delegazione di quattro nobili capeggiata da Galeazzo Visconti. Il re, tuttavia, non aveva più alcun interesse a trattare. Era convinto che la città sarebbe caduta comunque, perciò neppure rispose alla delegazione. Fece di più. Dopo aver occupato Magenta e Corbetta, per completare l’accerchiamento andò verso sudest e si accampò a Melegnano.
Intanto Schiner si era diretto verso Como, dove stavano arrivando nuove forze svizzere a lui fedeli. Riuscì a condurle nei pressi di Milano, con una scorta di pochi uomini riuscì a entrare in città e andare al Castello per gli ultimi accordi. Aveva riportato con sé il duca: «In queste ore fatali non potete stare lontano da quelli che si battono per voi e per il Ducato; io stesso, lo vedete, sto mettendo in questo rischiosissimo gioco tutto quanto sono e tutto quanto ho e lo faccio solo per fedeltà alla vostra dinastia e al vostro Ducato, nel ricordo del grande Ludovico Maria Sforza, il Moro». Un’esortazione piuttosto severa e accorata che Massimiliano, tornato fragile e incapace di decidere da solo, non poteva ignorare.
Altrettanto efficace fu l’incitamento che il cardinale rivolse alle sue truppe nella piazza d’armi alle spalle del Castello: «Sapete bene che ancora una volta ne va dell’onore nostro di soldati svizzeri e dei nostri cantoni. Un onore che abbiamo sempre voluto rispettare e tenere alto con le nostre vittorie, come due anni fa ad Ariotta, contro re Francesco I in difesa del Ducato di Milano, ma prima ancora contro il duca di Borgogna e l’esercito imperiale per la libertà delle nostre valli, e per avere salva la nostra autonomia. Tutta l’Europa dovette prendere atto del nostro valore in battaglia. Ebbene, fratelli, vi esorto con tutto il cuore a ripetere quei trionfi, a dimostrare che li meritammo, che non fu fortuna ma valore».
«Parla come se questa guerra, come se la difesa del Ducato fosse ormai solo interesse degli Svizzeri: e pensare che fu a causa del loro tradimento se quindici anni fa nostro padre Ludovico a Novara perse il Ducato e fu fatto prigioniero: ecco cosa succede se si finisce per affidarsi a eserciti mercenari e stranieri» sussurrò sconsolato Francesco a Massimiliano, silenzioso e attonito. In effetti, il potere originario della dinastia, sorto ai tempi di Muzio Attendolo, il ragazzo di Cotignola diventato condottiere e capitano di ventura e padre di Francesco Sforza, primo duca di Milano, non esisteva quasi più. Di sicuro non esisteva più un esercito sforzesco.
Il 13 settembre 1515, vestito della porpora cardinalizia indossata sull’armatura pesante, in sella al suo splendido cavallo nero figlio di uno stallone regalatogli dal Moro, preceduto dalla croce, emblema di legato pontificio, portata da uno degli uomini della sua scorta privata, tutti in tenuta da battaglia, il cardinale Matteo Schiner usciva da Milano da Porta Romana. Lo affiancavano Giovanni Gonzaga, fratello del marchese di Mantova Francesco II, il nunzio apostolico in Svizzera Giovanni Giacomo Gambaro e l’ambasciatore spagnolo in rappresentanza del viceré de Cardona.
L’autorevole e magnificente delegazione procedeva altera e ostentava sicurezza alla testa di 6000 dei soldati svizzeri che erano nel Castello di Porta Giovia. A questi si aggiunsero i reparti di altri cantoni rimasti fuori dalla mura e poche centinaia di volenterosi milanesi. Il contatto con il nemico avvenne in località Marignano, poche cascine tra Melegnano e San Giuliano.
«Non dobbiamo temere se le nostre forze sono numericamente inferiori» rassicurò i suoi il cardinale, incitandoli contro il nemico, «non dobbiamo temere perché al nostro fianco abbiamo una Gloriosa Potenza che essi non hanno: infatti, fratelli, Dio è con noi.»
Schiner, almeno sui numeri, non mentiva. Francesco I disponeva di 31.000 effettivi: 2500 cavalieri pesanti e 1500 cavalieri leggeri francesi, 9000 Lanzichenecchi, di cui 6000 temutissimi feroci veterani detti della «banda nera», per il colore delle bandiere e delle armature, 4000 fanti francesi, 6000 balestrieri Guasconi e Baschi, e una settantina di pezzi d’artiglieria, quasi tutti modernissimi, forgiati in una innovativa lega di bronzo. Dell’esercito francese facevano parte anche alcune migliaia di mercenari italiani. Con ogni probabilità, erano più numerosi i milanesi mescolati alle truppe francesi comandate di Gian Giacomo Trivulzio di quelli schierati in difesa del Ducato.
L’alleata Venezia, infine, contribuiva con 12.000 Veneti, Trentini, Tirolesi, Friulani, Istriani e Dalmati: un esercito ben equipaggiato che si stava avvicinando sventolando i vessilli porpora e oro con l’effige del Leone di San Marco.
Gli Svizzeri erano circa 20.000, oltre alle poche centinaia di cavalieri e fanti milanesi di cui si è detto. Contadini rozzamente armati, bande di briganti di campagna e vecchi reduci che avevano già combattuto contro i Francesi si tennero a una certa distanza: non avrebbero partecipato agli scontri e sarebbero intervenuti solo in caso di fuga del nemico con azioni di disturbo e per partecipare poi al bottino.
La battaglia ebbe subito inizio, senza le consuete scaramucce preliminari, violentissima e furiosa. Lo stesso Schiner, nonostante fosse bersaglio ben visibile e preda assai ambita, si impegnò negli scontri con accanimento, rischiando spesso la vita. A chi, in seguito, gli chiese come avesse fatto a cavarsela pur esponendosi tanto al pericolo, rispose: «Avevo al mio fianco il mio angelo custode». E sorridendo, aggiungeva: «Inviatomi dal mio amico il Moro».
La battaglia andò avanti per tutta la giornata, non s’interruppe al tramonto com’era consuetudine e proseguì durante la notte. Gli scontri furono violentissimi, i combattimenti corpo a corpo senza tregua e senza pietà, le cariche della cavalleria francese ai susseguivano una dopo l’altra: ci furono parecchi morti e feriti. A un certo punto, l’impeto e l’orgoglio degli Svizzeri, oltre alla loro maggior maestria militare, stava prevalendo sulla stanchezza del nemico e quell’ala dell’esercito francese tenuta da Guasconi e Lanzichenecchi, comandata da Pietro da Novara, sembrò voler ripiegare. Per Francesco I sarebbe stato un disastro perché gli Svizzeri avrebbero potuto aggirare lo schieramento nemico e prendere i Francesi alle spalle. Dovette intervenire prima la cavalleria poi il re in persona: con esortazioni al coraggio, minacce di ritorsioni e promesse di più lauti compensi li convinse a tenere la posizione.
Verso l’alba ci fu una pausa non concordata degli scontri. I Francesi si ripararono in un lungo avvallamento del terreno anche perché vi scorreva un grosso canale al quale attingere acqua da bere o per accudire in qualche modo i molti feriti. Ma a questo punto Schiner commise un errore fatale: interpretando questa mossa del nemico come un segno di debolezza, come l’inizio di una ritirata, ordinò un assalto, che considerava finale, alle milizie francesi.
Ma tanta era la sicurezza degli Svizzeri di aver già vinto, che quella loro marcia di avvicinamento al nemico più che un assalto sembrava quasi una parata, la celebrazione di un trionfo: un atteggiamento che risvegliò l’orgoglio dei Francesi i quali ebbero il tempo di riorganizzarsi e sistemare nelle postazioni tatticamente più opportune la loro arma più micidiale, l’artiglieria.
Nel tarda mattinata, quando ormai la truppa di Francesco I era di nuovo in grado di affrontare il nemico, i due eserciti entrarono in contatto. Dapprima furono scontri parziali con brevi attacchi e finte ritirate, poi si scatenò, furiosa e fino allo stremo delle forze, la battaglia finale.
«Non di uomini ma di giganti» la definì Trivulzio nelle sue memorie. Per tutto il tempo degli scontri lo Schiner restò in campo battendosi come un leone in mezzo ai suoi, incitandoli e infiammandoli con la voce e con l’esempio. Ma l’artiglieria francese mieteva più vittime di quante non ne facessero la cavalleria e le migliaia di scontri corpo a corpo.
Gli Svizzeri, che da due giorni e una notte quasi non toccavano cibo e acqua, realizzarono che la battaglia era ormai perduta quando, alle prime luci dell’alba, alle loro spalle piombarono le fresche truppe veneziane al comando di Bartolomeo d’Alviano. Dal viceré spagnolo, che pure faceva parte della Lega e avrebbe potuto capovolgere gli esiti dello scontro, non giunse invece alcun aiuto all’esercito di Schiner. Al cardinale non rimase che ripiegare su Milano, per mettere in salvo i feriti e tentare un’ultima difesa della città.
La battaglia di Marignano fu una delle più sanguinose dell’epoca: fonti diverse attribuiscono ai Francesi da 6000 a 8000 morti, agli Svizzeri da 8000 a 10.000, ma è probabile che queste cifre, almeno le più alte, comprendano anche i feriti. Una strage alla quale anche Francesco I non rimase indifferente, forse sentendosene in qualche misura responsabile, tanto che più tardi fece celebrare nella chiesa madre di San Giuliano Milanese, vicinissima al luogo della battaglia, una serie di messe funebri per tre giorni di seguito. Tre anni dopo, nel 1518, diede ordine di costruire una cappella espiatoria e votiva detta di Santa Maria della Vittoria con annesso monastero, affidata ai padri Celestini di Francia.
Sia per le sue dimensioni sia per le conseguenze strategiche e politiche che produsse, l’evento bellico ebbe un’enorme eco e fece grande impressione in tutta Europa: si affermava in maniera definitiva una superpotenza continentale, la Francia; veniva ridimensionato il prestigio e il valore militare degli Svizzeri, fino ad allora i mercenari più ambiti; l’Italia si confermava terra di conquista. Per tutte queste ragioni l’imperatore Massimiliano I si pentì amaramente della sua estrema scelta di prudenza se non di viltà: non essere intervenuto al momento giusto al fianco della Lega e in difesa del Ducato di Milano, del quale ora perdeva il controllo.
Prima di riprendere la strada delle loro valli, gli Svizzeri fedeli a Schiner vollero lasciare un presidio asserragliato al Castello: non accettavano l’idea di una sconfitta irrimediabile.
«Non è finita qui» assicurava il cardinale a un Massimiliano ormai apatico, «abbiamo dimostrato che possiamo riprenderci Milano, perché a sconfiggerci a Marignano è stata la fortuna, non il nemico.» Francesco, invece, scuoteva il capo: sapeva bene che Schiner non credeva alla storia dell’avversa fortuna, raccontata al solo scopo di salvare il prestigio dei suoi Svizzeri e per prepararsi alle trattative con il vincitore da posizioni almeno dignitose.
Chi invece ormai voleva farla finita era il popolo di Milano. Il 17 settembre una delegazione popolare guidata da Massimiliano Sforza si presentò al re francese per consegnargli la città. Francesco la accolse con rispetto e benevolenza, si profuse in rassicurazioni e mandò in città l’ingegnere spagnolo Pedro Navarro, colui che aveva aperto la strada ai Francesi per passare le Alpi, alle testa di poche milizie, «solo per mantenere l’ordine» assicurò.
Anche il de Cardona, che pure non era intervenuto a Marignano, in un primo tempo sembrò non volersi rassegnare ad abbandonare il Ducato. Chiese a Firenze e al papa di provare a convincere gli Svizzeri a tornare a Milano, promettendo ancor più lauti compensi. Ma sia Lorenzo de’ Medici sia il pontefice non volevano saperne. Perciò gli alleati preferirono trattare. Anche il re, che volentieri avrebbe risolto la questione con le armi, dopo qualche resistenza, si rassegnò alla trattativa. A convincerlo fu Trivulzio: «Sire, non mette conto di andare avanti con una guerra che abbiamo già vinto. Perché correre dei pericoli, sacrificare ancora degli uomini? Molto più saggio è accettare di venire a patti dalla posizione di forza in cui ci troviamo; possiamo chiedere di più del Ducato di Milano com’è oggi».
Fu proprio Trivulzio a concludere l’accordo: a Francesco I il papa lasciava Parma e Piacenza – «che hanno sempre fatto parte del Ducato di Milano» rivendicò il Trivulzio – insieme ad altre concessioni minori e Venezia otteneva piena soddisfazione di tutte le sue rivendicazioni. Gli Svizzeri abbandonarono, questa volta per davvero, i territori del Ducato e il 4 ottobre il Castello si arrendeva al sovrano che era andato a Pavia ad aspettare quel gesto. Il 14 ottobre 1515 la resa fu formalizzata.
«Il papa e lo spagnolo hanno avuto trappa fretta, per me la guerra non era finita» reagì indispettito l’indomabile Schiner quando seppe della capitolazione di Milano. In effetti, il cardinale si stava riorganizzando con il sostegno dei fuoriusciti milanesi e lombardi insieme ad alcune bande svizzere. Anzi, con Galeazzo Visconti e con Francesco Sforza erano andati a Innsbruck dall’imperatore: l’idea era di convincerlo ad appoggiarli nel proposito di andare in Inghilterra e chiedere a Enrico VIII di intervenire contro la Francia su cui il Tudor nutriva antiche pretese.
«Se il re inglese attacca Francesco I nel suo territorio, questi per difendersi sarà costretto a ritirarsi in fretta e furia dall’Italia e allora voi, maestà imperiale, potrete scendere in Lombardia per riportarvi l’ordine e rimettere il duca di Milano al suo posto» spiegarono Schiner e Visconti a Massimiliano I, che stavolta sembrò accettare l’idea. I preparativi di un possibile contrattacco cominciarono subito.
Grande fu perciò l’amarezza del cardinale vescovo di Sion e del conte di Busto Arsizio quando seppero della resa del Ducato di Milano.
«È stata una capitolazione precipitosa e poco onorevole» scrisse da Costanza il 17 dicembre un deluso Visconti al cardinale Thomas Wolsey, cancelliere di Enrico VIII, «tanto da farmi sospettare che sia frutto di un tradimento… Il cardinale Schiner e io ci eravamo adoperati in tutti i modi per ottenere dagli Svizzeri la disponibilità a formare un nuovo esercito da mandare in Italia; e anche l’imperatore era tanto favorevole all’impresa che giunse a convocare a Innsbruck i rappresentanti dei cantoni per concludere l’accordo. A quel punto arrivò improvvisa e inaspettata la notizia del trattato di resa.»
«Come non pensare, eminenza, a un tradimento? Perpetrato da persone vicine al duca? Su chi possa esserne responsabile, io ho idee molto precise, ma consentitemi di tacere, pro decentia.»
A tanta discrezione, però, il Visconti non era tenuto nei confronti del sodale Schiner: «Sono certo, caro amico, che a tradire sono stati Giovanni Gonzaga e Gerolamo Morone, solo loro erano tanto vicini al debole duca Massimiliano e tanto influenti da indurlo a firmare». Più tardi, infatti, il Morone ammise tra le righe il tradimento quando scrisse al Visconti e allo Schiner di essere stato «costretto alla resa perché il presidio svizzero di 1500 uomini voleva tornare a casa e minacciava l’ammutinamento».
La prova definitiva si ebbe più avanti, quando Giovanni Gonzaga ottenne il comando, al servizio del re, di 50 lance (la «lancia» era l’unità di base della cavalleria) e Gerolamo Morone fu nominato senatore e auditore regio. A pagare il prezzo più alto fu Galeazzo Visconti, costretto alla fuga per non subire le rappresaglie del vendicativo Francesco I: «Ho perduto tutto» scrisse disperato a Schiner, che aveva trovato scampo nella sua diocesi di Sion, «la mia patria, mia moglie, le mie figlie, tutti i miei beni». La consorte Antonia da Tolentino, che rischiava di essere presa in ostaggio dai Francesi, riuscì a mettersi in salvo in casa del genero Federico Borromeo.
«Dunque, firmando tanto in fretta il trattato di resa» rinfacciò Francesco al fratello appena tornato a Milano da Pavia «hai volontariamente cessato di essere duca di Milano. Cosa ne sarà di te?»
«Non posso dire che il re mi abbia trattato male, in fondo sono stato sconfitto: mi offre degna ospitalità in Francia, sarò libero, finalmente libero come non ero neppure da duca. Inoltre, si è impegnato a pagarmi un assegno annuo di 36.000 scudi, una bella somma, non ti pare?»
«Questa tua nuova condizione, caro fratello, si chiama esilio, ben remunerato, certo. Anzi, dorato ma pur sempre un esilio.»
«Mi ha anche promesso» proseguì Massimiliano senza replicare all’amara constatazione di Francesco, «di farmi avere la porpora cardinalizia; più di così…»
«Non può averla messo per iscritto giacché non potrà essere lui a decidere di farti cardinale: staremo a vedere. Non credo proprio che Leone X vorrà avere un altro Sforza nel collegio cardinalizio.»
A dire il vero, il sovrano francese non mantenne mai la promessa. Per di più, qualcosa di analogo aveva proposto allo stesso Francesco: 10.000 scudi di pensione, un cappello cardinalizio e l’esilio. In questo modo, si sarebbe liberato anche dell’ultimo erede al Ducato. Ma il secondogenito del Moro rifiutò, così restando, per i molti nemici del dominio francese, il legittimo duca da reinsediare.
Il fedele Schiner fu quello che più soffrì per la sconfitta a causa dello stretto legame di amicizia con gli Sforza e soprattutto perché di quella disfatta si sentiva il principale responsabile. Il suo profondo sentimento di lealtà gli impedì di accettare i redditi, i privilegi e gli onori che Francesco I prometteva di elargirgli, pur di averlo dalla propria parte.
Il cardinale, anzi, mai si rassegnò a considerare definitiva la perdita del Ducato di Milano. Non a caso, cominciò ben presto a lavorare alla possibilità di una nuova spedizione, stavolta per mettere Francesco Sforza al posto di Massimiliano.
«Nonostante sia più giovane» scrisse al Visconti riparato a Innsbruck, accolto dall’imperatore, «è certamente più saggio e responsabile di suo fratello.»
«So che come me» aggiunse, «anche voi siete persuaso che Massimiliano sia in realtà contento di potersi sottrarre alla soggezione mia, vostra e degli Svizzeri, ai continui rimproveri e minacce dell’imperatore, agli inganni e all’arroganza del viceré e dei suoi spagnoli, all’opportunismo del pontefice, alle gravose responsabilità ducali. Crede di guadagnare così una libertà che rimpiangeva. In realtà, penso che quel giovane non fosse adatto e preparato al ruolo che il destino e la discendenza gli avevano imposto. La sua età, la sua natura orientata tutta ai piaceri piuttosto che ai doveri e infine l’educazione, ricevuta lontano da Milano e dalla corte sforzesca: tutte queste erano condizioni più adeguate a formare un cortigiano che il principe di uno Stato forte e prestigioso.»
«Se a Novara Ludovico il Moro avesse avuto la fortuna dalla sua e, restando duca di Milano, avesse potuto allevare il suo erede» concludeva il messaggio di Schiner a Visconti, «forse Massimiliano avrebbe potuto essere un buon duca. Francesco ha un’altra indole, più responsabile e riflessiva. Somiglia al Moro.»