Il re Francesco I fece il suo ingresso a Milano con grande pompa, secondo un costume tipicamente francese. L’11 ottobre 1515 entrò in città da Porta Ticinese, dirigendosi verso il Duomo alla testa del suo esercito vittorioso in tenuta da parata. Sul sagrato, davanti ai portali della cattedrale, si svolse una cerimonia di investitura del re a duca di Milano. Prima, quando era ancora in sella, gli fu consegnata da Gian Battista Visconti la verga, simbolo del potere ducale; dopodiché, monsignor Giovanni Stefano Castiglioni gli consegnò la spada emblema del potere militare. Infine, re Francesco scese da cavallo per farsi consegnare da Gian Battista Visconti le chiavi della città.
Finalmente, il sovrano e nuovo duca poté entrare in Duomo armato e con un grande mantello di velluto celeste ricamato di gigli d’oro sulla splendida lucente corazza, anch’essa intarsiata sul petto con un grande giglio d’oro, emblema della sua casata. Dopo la messa solenne di ringraziamento e la benedizione dell’arcivescovo Ippolito I d’Este, fratello di Beatrice, moglie del Moro, e di Isabella marchesa di Mantova, si sistemò in via provvisoria alla Corte Vecchia, quindi si trasferì nella bella e grande casa che era appartenuta a Pietro dal Verme e poi requisita dal Moro.
Il primo provvedimento del duca fu di imporre alla città una taglia di 100.000 ducati. I milanesi se l’aspettavano e assicurarono che avrebbero pagato, anche se a rate. In cambio chiesero la promessa di non dover più sopportare ulteriori balzelli.
Cominciarono le formalità per prendere atto della nuova situazione: «Sire, sua maestà imperiale Massimiliano I, re dei Romani, vi manda il suo saluto congratulandosi con voi della vittoria. Vi chiede inoltre a quale titolo detenete il Ducato di Milano».
I messi dell’imperatore furono i primi tra i rappresentanti degli Stati e dei poteri italiani ed europei a presentarsi a Francesco, ma lo fecero adottando una gelida formula di saluto, più che di ossequio e di compiacimento, e con richiesta – come si è appena letto – di chiarimenti formali.
«Riferite semplicemente all’imperatore che sono il nuovo duca di Milano» fu la risposta secca e piccata del francese, sintomo di un rapporto che non era mai stato buono e che per il futuro si annunciava anche peggiore.
Giunsero le delegazioni di papa Leone X e dei Medici, ma più per perfezionare e ratificare gli accordi conclusi che per rendere omaggio. Francesco I, infatti, d’intesa con gli oratori fiorentini, decise di andare a incontrare il pontefice a Bologna.
Il nuovo duca si fermò a Milano solo tre mesi, l’8 gennaio ripartì per la Francia e durante la sua sosta ad Avignone, un legato da Roma lo raggiunse per portargli la notizia della morte del re di Spagna Ferdinando il Cattolico.
Frattanto, però, Schiner e Galeazzo Visconti, tutt’altro che rassegnati alla sconfitta, si adoperavano per tentare di rovesciare la situazione. Il cardinale aveva portato con sé, a Sion, Francesco Sforza, mentre Visconti a Innsbruck cominciava a spiegare all’imperatore, che ne era già ben consapevole, come il re di Francia stesse diventando troppo potente: «Adesso si trova in una posizione di forza che gli permette di allungare le mani su tutta la Penisola. Prima o poi, sire, bisognerà fermarlo e ridimensionarlo o diventerà un pericolo anche per la vostra corona imperiale».
Quando anche Schiner e Francesco raggiunsero il Visconti a Innsbruck, la pressione sull’imperatore perché prendesse l’iniziativa si fece più insistente. A tentare di creare confusione e quindi indecisione, giunse Michele Abbate, già segretario del duca Massimiliano. Tornava dall’Inghilterra dove era stato spedito tempo prima per convincere Enrico VIII ad allearsi con gli Svizzeri contro i Francesi.
A Galeazzo Visconti, che aveva seguito fin dall’inizio l’ipotesi di quella trattativa, l’Abbate non piaceva affatto: «Dobbiamo fare attenzione a quel tipo» ammonì Schiner e i consiglieri di Massimiliano I, «è inaffidabile, poco intelligente e quindi pericoloso. Aveva promesso di riferire al Tudor in quali brutte acque navigasse il Ducato di Milano, e in che rapporti l’imperatore fosse con gli Svizzeri e invece ha raccontato inesattezze e menzogne. Il sovrano inglese lo ha capito e, come vedete, ce lo ha rimandato indietro. Non possiamo contare su di lui».
«Sono d’accordo» rispose Schiner, «che se ne torni a Milano e non si faccia più vedere. Tanto più che Massimiliano non ha più bisogno di un segretario. Semmai prestiamo attenzione a quanto dall’Inghilterra ci riferisce una persona assai più autorevole e credibile, quel Richard Pace che nei giorni scorsi è arrivato da Londra. È segretario del re Enrico VIII per le lettere latine e ha ottimi rapporti con importanti personaggi di tutta Europa, da Tommaso Moro a Erasmo da Rotterdam a Niccolò Machiavelli. È ottimo conoscitore delle faccende italiane, spesso ospite alla corte dei Gonzaga della marchesa Isabella d’Este, della quale è un fedele amico e corrispondente, frequenta poeti italiani come Ludovico Ariosto, celebrato autore di un monumentale poema cavalleresco appena pubblicato a Ferrara.»
«Dunque è ben informato» dedusse il Visconti, «su come gli Stati europei la pensino circa la possibilità di assegnare il Ducato a Francesco, se riuscissimo a riprenderci Milano.»
«Proprio così. Assicura che sono tutti favorevoli al ritorno di uno Sforza. Per l’equilibrio e la sicurezza d’Italia e d’Europa, è meglio che a Milano governi un duca, anziché il già troppo potente re di Francia. Anche l’imperatore la pensa allo stesso modo. Certo, l’Inghilterra non interverrà con il suo esercito in caso di discesa in Italia di Massimiliano I ma il re è disposto, ci assicura il Pace, a dare un aiuto finanziario e diplomatico.»
Il più favorevole alla candidatura di Francesco, manco a dirlo, era Schiner. Non solo per il suo legame con la dinastia sforzesca. C’era anche un altro motivo. Era sicuro che pure gli Svizzeri fossero d’accordo. Avrebbero così riconquistato il ruolo di ben remunerati protettori del Ducato.
Peccato che, secondo la tradizione, gli Elvetici stessero giocando su più tavoli. Convinti che in quella delicata fase il più forte in campo fosse Francesco I, si accordarono con lui, ignorando le indicazioni ricevute da Schiner. Il sovrano francese si impegnò a pagare loro 400.000 corone e a risarcire tutte le spese sostenute in Francia in altre occasioni: in cambio, gli Svizzeri avrebbero lasciato che la Francia si prendesse il Ducato di Milano con la regione dell’Ossola, che avevano occupato.
L’accordo fu ratificato il 7 novembre all’insaputa di Schiner che reagì con rabbia, sentendosi tradito dai «suoi» Svizzeri. Ma l’ira del cardinale ebbe l’effetto di spingerlo ad aumentare le pressioni sull’imperatore perché si decidesse a intervenire in Italia: «Conosco gli Svizzeri» rispose fiducioso a Massimiliano che gli faceva presente il loro recente voltafaccia, «quando vedranno intervenire l’imperatore con tutta la sua forza e il suo prestigio, cambieranno ancora campo e si schiereranno con lui».
A quel punto, anche gli esuli milanesi e lombardi, desiderosi di tornare a casa, promisero di contribuire alle spese della spedizione: l’imperatore non poteva più accampare scuse, non gli restava che mettere mano ai preparativi. Riuscì a organizzare in tempi rapidi un robusto esercito, composto anche dai soliti temutissimi Lanzichenecchi, e dal Brennero scese a Verona, città imperiale, che scelse come base di partenza per l’offensiva antifrancese. Quindi, dopo aver riorganizzato e rafforzato le sue fila con mercenari italiani, mosse per Caravaggio e Rivolta d’Adda.
L’esercito nemico franco-veneto era ancora comandato dal Trivulzio, che prese sul serio la minaccia imperiale e preferì ripiegare per arroccarsi a Milano, fortificare le difese e preparare meglio la risposta.
Il 3 marzo 1516 Massimiliano I era con le sue truppe sotto le mura della città. Certo di avere già vinto senza combattere, mandò un messo a Trivulzio: «Il mio signore imperatore chiede alla città di Milano la resa incondizionata entro tre giorni, trascorsi i quali le nostre truppe daranno l’assalto alle mura e alle porte con totale libertà di saccheggio».
Sapendo che il grosso dell’esercito imperiale era costituito da Lanzichenecchi la popolazione cominciò a barricarsi nelle case. La minaccia però spaventò anche i capitani franco-veneti, che chiesero al maresciallo Trivulzio di cedere, di trattare l’abbandono della città.
Il vecchio condottiero era di tutt’altro parere e riunì i suoi capitani per informarli: «Amici, da decenni mi batto contro gli Sforza, per liberare da questa malefica dinastia la città dove sono nato e dove ha origine la mia famiglia, Milano. Ci siamo ritirati dentro le mura per organizzarci meglio e perché so che questa città è quasi imprendibile dall’esterno. Non possiamo lasciarla all’esercito tedesco senza combattere, sarebbe un grave disonore ed equivarrebbe a un atto di sottomissione del re di Francia all’imperatore. Dobbiamo resistere, combattere e rimandare Massimiliano in Austria, se non vogliamo farne il padrone dell’Italia oggi e domani della Francia».
La perorazione fu appassionata e ben argomentata e ai capitani non rimase che obbedire. Per tre giorni mandarono i loro reparti a fare incursioni fuori della mura per saggiare la determinazione del nemico, poi ci fu lo scontro vero e proprio: fu poco più di una scaramuccia ma bastò per costringere l’esercito imperiale, poco motivato e mal condotto, a ritirarsi. I Veneti, allora, per impedire al nemico di accamparsi attorno alla città, diedero alla fiamme borghi, cascine e pievi del primo entroterra.
Le cose non stavano andando come Massimiliano si aspettava: «Maestà imperiale» gli aveva assicurato Galeazzo Visconti insieme ad altri autorevoli notabili milanesi fuoriusciti, «sono certo che appena sarete sotto le mura della città, il popolo insorgerà in vostro favore e caccerà gli invasori francesi, non dovrete fare altro che entrare in trionfo da Porta Orientale e prendervi Milano». E invece i milanesi non insorsero. La città era occupata dal poderoso esercito franco-veneto, che dissuadeva da ogni velleità insurrezionale. L’imperatore ne fu profondamente deluso, si vedeva costretto a cambiare i suoi piani.
Per di più, agenti di Francesco I infiltrati tra le sue truppe mettevano in giro le voci più disparate, come quella di un prossimo tradimento dei Veneziani o dell’arrivo di un secondo esercito francese. A questo punto Massimiliano, sempre dubbioso e pavido, decise di mettere una certa distanza tra sé e il nemico e si ritirò a Lodi con la sua guardia personale. Da qui, per avvicinarsi alla via del ritorno, andò a Bergamo.
L’esercito imperiale, dunque, era rimasto senza il suo duce supremo, dal quale si sentì abbandonato. A quella truppa senza capitano, non restava perciò che rinunciare al proposito di conquistare Milano e riprendere la strada della Germania. Ma quella non era gente disposta a tornarsene a casa a mani vuote: con il chiaro intento di fare bottino e forse spingersi fino alla ricca Mantova, si ritirò verso Cremona, saccheggiando e devastando tutti i centri grandi e piccoli che incontrava sul suo percorso.
Quando poi si diffuse la notizia che Massimiliano I era tornato in Germania, anche quello che era stato il suo esercito, si ritirò. La campagna militare dell’imperatore si era risolta in una grave umiliazione.
I milanesi, da parte loro, non potevano che prendere atto della situazione e cercare di acconciarla nel migliore dei modi, memori degli abusi economici e giuridici subiti durante le precedenti occupazioni francesi. Una commissione di cinque delegati si presentò a Francesco I con una serie di richieste, che furono in larga misura accolte. Ottenere che venissero stabiliti i compiti del potere esecutivo, che si assicurasse l’indipendenza di quello giudiziario, il riconoscimento del diritto della città a eleggere i suoi funzionari. Si chiedeva quindi al re di osservare gli statuti, le leggi e le consuetudini vigenti nel Ducato, soprattutto nell’amministrazione della giustizia. Infine, si definiva una volta per tutte quanto la città avrebbe dovuto pagare al sovrano prossimo duca. Per dimostrare la propria apertura verso l’autogoverno, il re dispose che tutte le proteste dei sudditi fossero inoltrate al Senato, affinché provvedesse secondo giustizia.
Restava aperta la questione dei rapporti con la Spagna, benché il viceré de Cardona avesse lasciato il Ducato. Il 13 agosto 1516 fu firmato a Noyon, al confine della Piccardia, un trattato di amicizia tra Francia e Spagna, a cui il 10 dicembre furono associati anche i sedici cantoni svizzeri.
A questo punto l’imperatore, estromesso dagli accordi, rischiava di subire un’altra umiliazione, quella dell’isolamento politico e diplomatico in Europa. Fu lo stesso Francesco I, ormai consapevole della propria forza – e in realtà aspirando neppure tanto segretamente a essere investito della dignità imperiale –, a voler evitare quest’altro paradossale smacco al sovrano del Sacro Romano Impero, associandolo agli accordi di Noyon tramite un’intesa particolare.
Milano andò incontro ad anni di vacche magre. I costi dell’amministrazione statale si erano rivelati sempre piuttosto alti e ora, aggravati dagli oneri aggiuntivi imposti dalla presenza francese, lo erano ancora di più, mente le entrate calavano sia per la perdita di alcuni territori contribuenti sia per una generale contrazione delle attività produttive. Per di più, a Noyon fu previsto che Milano dovesse pagare ogni anno una ingente somma agli Svizzeri a titolo di rimborso spese.
Era soprattutto l’agricoltura, in realtà, il settore economico più colpito, causa il succedersi di alcune stagioni di autentica carestia. In particolare, per tutto il 1518 fino al raccolto dell’anno successivo le cose andarono malissimo: lunghe e terribili gelate d’inverno, fiumi, laghi e canali ghiacciati per mesi, estati piovosissime.
Ma neppure il vittorioso Trivulzio in quegli anni poteva permettersi di gioire troppo. Anzi, le sue vittorie gli avevano procurato un velenoso sentimento di invidia, presto diventato odio profondo, da parte del vecchio maresciallo Odet de Foix conte de Lautrec, personaggio ben introdotto a corte, in ottimi rapporti con il re, abile manovratore nell’ombra ma assai meno brillante come capo militare e stratega. Carico di rancore, Lautrec lavorò a lungo e in profondità per screditare presso il re l’odiato Trivulzio, accusandolo di essere un traditore e, in quanto milanese, di ambire a farsi duca di Milano.
Quando si accorse che Francesco I stava ormai credendo a tante maldicenze, Trivulzio subito dopo la firma del trattato di Noyon si precipitò in Francia per discolparsi davanti al re. Il quale però lo accolse con gelida diffidenza, mostrando di non credergli.
«D’altra parte» disse il sovrano con un sorriso sarcastico sulle labbra, «come possiamo avere fiducia in chi, per passare dalla parte più forte, la nostra, ha abbandonato, ha tradito il più grande degli Sforza, Ludovico il Moro?»
Fu un colpo terribile per il vecchio maresciallo che tanto aveva fatto per consegnare il Ducato al re e che per quasi vent’anni aveva assecondato l’antica bramosia francese di aggiungere alla corona reale la gemma più preziosa, quella di Milano. Trivulzio, afflitto e accasciato dall’età – aveva più di settantacinque anni – non volle neppure fare ritorno a Milano. Si ritirò in un suo castello a Chartres, sperando di vedere riconosciuta la sua innocenza. Ma Francesco I non volle più riceverlo e il 5 dicembre 1518 Gian Giacomo Trivulzio ne morì di crepacuore.
Tre giorni dopo, uno dei suoi capitani si presentò al castello di Amboise, al cospetto del re che si trovava nella sua dimora preferita. Aveva cavalcato quasi ininterrottamente per un centinaio di miglia per arrivare a dare al più presto al sovrano la notizia dell’improvvisa morte del maresciallo, pur sapendo che i rapporti tra i due si erano guastati. Francesco I rimase in silenzio e congedò l’ufficiale con un gesto della mano. Quindi andò a una delle finestre che davano sulla Loira e dopo un lungo silenzio disse al suo segretario: «Chiamatemi il maestro».
Dalla primavera del 1516 Leonardo da Vinci, il maestro, dopo aver trascorso quasi vent’anni alla corte di Ludovico il Moro, aveva lasciato Milano in seguito all’arrivo dei Francesi. Poi era stato per brevi periodi anche a Firenze e Roma, e infine si era trasferito in Francia su invito del re. Francesco ammirava moltissimo Leonardo e glielo dimostrò subito sistemandolo in un bel castelletto in mattoni rossi chiamato Château de Cloux (oggi Clos Lucé) vicinissimo al castello di Amboise.
Pentito del trattamento crudele e, cominciava a temere, forse ingiusto riservato al Trivulzio negli ultimi anni di vita e dopo che lo aveva a lungo servito, Francesco I chiese al genio vinciano di progettare un monumento equestre per la tomba del maresciallo. Il quale, oltre che grande capitano e stratega, era uomo di elevata cultura: ricchissimo, impiegava molte delle sue ricchezze per finanziare o acquistare opere dei più illustri artisti del tempo e possedeva una vastissima biblioteca.
Dopo pochi giorni, Leonardo presentò un bellissimo disegno al re. Francesco I ne rimase entusiasta. Il sovrano non poteva sapere però che, a dirla tutto, il progetto ne evocava chiaramente un altro, quello che il maestro aveva realizzato in onore di Francesco Sforza, commissionatogli dal Moro. Monumento che non fu mai realizzato, fatta eccezione per un modello in creta, sistemato davanti al Castello di Porta Giovia, nel luogo esatto dove il Moro desiderava collocare l’opera finale. Quel modello, com’è noto, fu distrutto dalla soldataglia francese.
In ogni caso, Leonardo replicò quasi alla lettera il vecchio progetto: il cavallo in posizione di piccolo trotto con la zampa sinistra sollevata e la testa che guarda a destra, il cavaliere ben eretto in sella, spada in pugno rivolta verso il basso. Due disegni simili, accomunati dallo stesso destino: anche quello dedicato al grande condottiero milanese al servizio dei francesi non fu mai portato a termine.
Gian Giacomo Trivulzio non ebbe sepoltura definitiva nella Francia che tanto aveva servito. La sua vedova Beatrice d’Avalos, donna energica e intrepida, si adoperò per riportare a Milano i resti del marito. Finché ci riuscì: dopo alcuni trasferimenti, furono collocati in un sarcofago nella cappella a lui dedicata, opera del Bramantino, nella basilica di San Nazaro Maggiore. Nonostante tutto nella «sua» Milano.
Intanto, il re francese andava incontro a quella che si sarebbe rivelata la più cocente delusione della sua vita. Il 12 gennaio 1519, infatti, morì Massimiliano I. Per Francesco I era la grande occasione, manovrava da anni per arrivare a farsi eleggere imperatore del Sacro Romano Impero, traguardo che considerava il «coronamento della mia avventura terrena e la meritata esaltazione della nostra casata», come confessava a sua moglie Claudia di Bretagna.
Le sue azioni militari, le sue conquiste, compresa quella insistita del Ducato di Milano, erano finalizzate anche a raggiungere questo ambitissimo obiettivo, rafforzando in questo modo la propria posizione rispetto ai concorrenti, in particolare ai principi tedeschi grandi elettori, dei quali da tempo aveva avviato una sistematica campagna di corruzione. Ebbene, la delusione fu feroce quando si rese conto che tutti i giochi erano già fatti e che dopo il lungo e complicato processo elettorale sarebbe stato eletto Carlo d’Asburgo: l’imperatore Carlo V, nipote del suo predecessore perché figlio di Filippo il Bello, re di Castiglia, che di Massimiliano I era figlio, e di Giovanna la Pazza.
I legami parentali, dinastici e politici dell’Asburgo erano troppi e troppo solidi e così generosa era stata l’opera di corruzione nei confronti dei principi elettori condotta dai suoi sostenitori – con l’argento e l’oro provenienti dalle Indie Occidentali – perché Francesco I, finanziariamente più debole, potesse farcela. Tanto che i principi elettori avevano già segretamente giurato fedeltà all’Asburgo. Intanto, Massimiliano ancora vivente, per mettere le cose in chiaro il 28 giugno lo proclamarono re dei Romani e il 23 ottobre lo incoronarono ad Aquisgrana. Il titolo non era necessariamente legato a quello di imperatore del Sacro Romano Impero ma ne costituiva una vincolante premessa.
Francesco Sforza non aveva appreso con favore la designazione di Carlo. Temeva che, da imperatore, potesse avanzare pretese sul Ducato. Infatti, Ferdinando d’Asburgo, appena diciottenne, aveva ottenuto dal fratello Carlo il Granducato d’Austria e ora non faceva mistero di volervi annettere Milano. No, Francesco preferiva «il francese», come lo chiamava. Anche perché, diceva, «se l’imperatore fosse lui i principi d’Europa, a cominciare dai tedeschi, non gradirebbero le sue mire espansionistiche. Diventerebbe troppo potente. Perciò favorirebbero un mio ritorno a Milano».
Ma Francesco, che ormai da tempo risiedeva a Trento, fu rassicurato sull’atteggiamento di Carlo nei suoi confronti, dall’accoglienza favorevole che questi gli riservò ad Aquisgrana dove lo aveva invitato per partecipare alla cerimonia di incoronazione di re dei Romani, invito che lo lusingò.
Appena appresero della morte dell’imperatore Massimiliano, i principi elettori scrissero all’Asburgo in Spagna assicurandogli che avrebbero mantenuto fede al giuramento. Carlo non era ancora ventenne e da quando aveva sedici anni di fatto era re, in reggenza della madre «pazza», di Spagna, delle Indie Occidentali e delle Due Sicilie Aragonesi. La lunga procedura elettiva era in corso quando, nella primavera del 1521, a Innsbruck, punto di osservazione privilegiato per seguire la vicenda, Galeazzo Visconti, colà rifugiato, un giorno incontrò Francesco Sforza, per dargli quella che a lui sembrava un’ottima notizia: «Signore, presto ritorneremo tutti a Milano».
Il giovane, ultimo Sforza possibile aspirante al Ducato, guardò sbigottito il conte di Busto Arsizio che, soddisfatto della sorpresa provocata, andò avanti con le spiegazioni: «Voi certo sapete che per soddisfare la sua massima ambizione, diventare imperatore, il sovrano francese aveva fatto affidamento anche sulla influente amicizia con papa Leone X. È infatti impensabile per i principi tedeschi eleggere un imperatore sgradito al papa, anche se alcuni di essi sembrano simpatizzare per le tesi scismatiche dello scomunicato Martin Lutero. Ma è accaduto che il pontefice abbia rotto i rapporti con Francesco I, quando si è accorto che il suo luogotenente regio Odet de Foix conte di Lautrec – ma sì, quello che aveva diffamato il Trivulzio agli occhi di re Francesco I – quando si è accorto, dicevo, che Lautrec conferiva i benefici ecclesiastici in totale autonomia e arbitrio, per proprio tornaconto e senza alcun riguardo per la Curia romana».
«Quell’uomo ha sempre voluto fare tutto di testa sua» commentò Francesco.
«Il papa era convinto – secondo me con ottime ragioni – che il re non potesse non consentire e forse perfino incoraggiare l’attività di Lautrec, tanto irrispettosa per la maestà pontificia. Perciò Leone X ha reagito duramente: per punire Francesco I, ha stipulato con Carlo un accordo di ferro, tramite il quale gli assicurava il massimo sostegno per la sua elezione. Oltretutto è comprensibile che il papa preferisca appoggiare la candidatura del cattolicissimo Asburgo, in questi anni di gravi pericoli per l’unità della Chiesa; il francese non è parso altrettanto severo nel contrastare e combattere l’eresia luterana.»
«Bene Galeazzo, ma che c’entra tutto questo con un nostro eventuale ritorno a Milano?»
«C’entra, eccome se c’entra! Perché quell’accordo è vasto e complesso e tra l’altro stabilisce che, in cambio del sostegno a Carlo, per punire il sovrano francese e ridimensionarne il potere, il Ducato di Milano torni agli Sforza; che Parma e Piacenza tornino al papa e che l’Asburgo aiuti Roma a recuperare anche Ferrara. Ma soprattutto, l’accordo stabilisce che l’unico legittimo erede dello Stato di Milano sia Francesco Sforza, siate voi. Perciò, Francesco II duca di Milano, prepariamoci a tornare.»
«E quando partiamo?» rispose Francesco dopo una lunga pausa, con tono più scettico che speranzoso.
«Sapete benissimo che mai il francese abbandonerà Milano senza combattere: resisterà. Leone ha già ricostituito l’esercito della Lega, in realtà mai sciolto. Presto muoverà per congiungersi con gli Svizzeri che, guidati dallo Schiner, stanno scendendo in Lombardia dalle loro valli.»
Ormai convinto ed entusiasta, Francesco si calò subito nel ruolo del legittimo duca: nominò Gerolamo Morone suo luogotenente e lo mandò ad affiancare lo Schiner. Poi ordinò a tutti i fuoriusciti sparsi in Italia e in Tirolo di concentrarsi a Reggio, per costituire una schiera di milanesi e lombardi pronta a unirsi alle truppe della Lega, comandate da Prospero Colonna. Tra questi italiani si distinse subito un giovanissimo Gian Giacomo Medici, detto il Medeghino, destinato a diventare un valoroso condottiero.
Francesco I non poteva più fare finta di niente, dopo le mosse apertamente ostili della Lega, il 22 aprile dichiarò guerra a Carlo V: formalità allora non frequente ma con la quale il sovrano francese in sostanza riaffermava la sua candidatura alla corona imperiale. Gli Svizzeri, prima percorrendo verso est la fascia prealpina e poi dirigendosi a sud, raggiunsero l’Adda, che gli alleati avevano appena varcato, quindi insieme si diressero verso Pavia che presero facilmente perché la città e il suo castello erano già stati abbandonati dai Francesi.
Intanto Lautrec era tornato a Milano con l’ordine di difendere la città. Ma vi arrivò sotto pessimi auspici. Il 28 giugno su tutta l’area del Milanese si abbatté un furioso temporale, il tipico temporale estivo destinato a durare poco ma a causare parecchi danni. Al Castello le truppe francesi stavano ammassando e ordinando armi e materiali. Il castellano Matteo Lindsay attendeva all’operazione più delicata e pericolosa, la sistemazione della polveri da sparo depositate nella zona più esterna, al coperto, sotto la torre del Filarete. Il lavoro era quasi finito quando un fulmine potente e sovraccarico di energia, forse attirato dal puntale di ferro posto sulla sommità della costruzione, seguito poi da un secondo e da un terzo, colpì la torre: la scarica raggiunse i cumuli di polveri che presero a esplodere. La torre crollò su se stessa. Il primo a morire, non si seppe mai se per le esplosioni o perché travolto dalle macerie, fu Lindsay. Ma anche qualche soldato che si trovava lì intorno perse la vita e altri rimasero feriti o ustionati.
Il fragore del botto e del conseguente crollo fu udito in tutta la città e nelle vicinanze, molti corsero al Castello per sincerarsi dell’accaduto e dai non pochi superstiziosi (e ottimisti) il fatto fu considerato di pessimo augurio per i destini dei Francesi. Infatti, Odet de Foix si trovò subito in difficoltà perché una buona parte delle sue truppe, in particolare i mercenari e gli italiani reclutati sul posto, lo avevano abbandonato.
Le reazioni del francese, che non era mai stato un capitano valoroso – alla diplomazia preferiva la violenza dimostrativa indiscriminata e la rappresaglia – non tardarono. Il 6 luglio, fece squartare pubblicamente, davanti al Castello, Manfredo Pallavicino, discendente di una delle più antiche e prestigiose casate feudali italiane, giunto a Milano con l’intenzione di vendicare il fratello Cristoforo che il Lautrec aveva ucciso qualche mese prima.
Intanto, in agosto, le truppe della Lega consentirono alla Chiesa di riprendere possesso di Parma e Piacenza, dove subito arrivò papa Leone X, che con parte della corte e familiari era al seguito del suo esercito. Disperato e furibondo, il Lautrec passò alla sua più feroce e inutile rappresaglia: prima di ritirarsi dentro la cerchia più stretta, quella delle mura, fece incendiare tutti i sobborghi della città, iniziativa criticata dagli stessi capitani francesi e dagli alleati veneziani perché non ebbe altro esito che accrescere l’avversione per i francesi da parte delle popolazioni milanesi e lombarde. Lautrec cercava spie, traditori e cospiratori ovunque in città. Credendo di averne trovati almeno due, Annibale Conti e Baron Visconti, li fece decapitare davanti al Castello il 10 ottobre.
Crudeltà e accanimento inutili perché il 19 novembre Milano era sotto assedio. Assedio che sarebbe potuto durare a lungo ma Ferdinando Francesco d’Avalos, marchese di Pescara e capitano degli imperiali, riuscì a eludere abilmente le difese francesi, aprirsi un varco e prendere il rione di Porta Romana.
Poco dopo, anche l’intrepido Medeghino insieme a pochi uomini riuscì a penetrare in città, diede l’assalto e incendiò il palazzo di proprietà dei Trivulzio in via Rugabella. La vedova di Gian Giacomo Betarice d’Avalos, cugina di Ferdinando Francesco, con pochi fedelissimi tentò di resistere nella residenza fino all’ultimo. Quando decise di mettersi in salvo prese con sé, facendoli caricare su una carretta, dodici preziosissimi arazzi detti «Arazzi dei mesi», ai quali era molto affezionata perché dono del marito. Uscì dal palazzo a testa alta, seguita dai servitori e dal convoglio delle sue masserizie personali. Cavallerescamente, il Medeghino e il cugino d’Avalos non solo la lasciarono passare ma la scortarono verso le truppe francesi.
Il 20 novembre i Francesi si ritirarono, lasciando però un forte presidio nel Castello, e tutto l’esercito alleato poté entrare trionfante a Milano, accolto con entusiasmo dalla popolazione: «Sforza! Sforza!» gridava la gente per le strade e «Francesco duca!».
L’esercito vittorioso sfilò per ore nelle strade della città, con alla testa Matteo Schiner, Prospero Colonna, Gerolamo Morone e Gaspare Visconti. Non potendo sistemarsi nel Castello, si distribuirono in borghi e cascine lungo il territorio circostante, perlopiù in Brianza. Ma a fatica, perché l’inclemente autunno avanzato rese più difficoltose le operazioni.
Quanto a Francesco, non sarebbero bastato certo l’ingresso in città a renderlo ufficialmente duca di Milano. Il ventisettenne secondogenito del Moro – che ormai tutti già chiamavano Francesco II – stava ancora scendendo dalla Germania, scortato dall’esercito imperiale al comando di Ferdinando Francesco d’Avalos. Il condottiero italiano, infatti, come aveva voluto a suo tempo Massimiliano I, lo aveva raggiunto per dimostrare in maniera concreta l’appoggio imperiale al ritorno degli Sforza. Anche se Francesco si sarebbe fermato a Pavia per organizzare al meglio il trionfale ingresso a Milano venne in anzitempo acclamato e Morone fu nominato governatore.
E Lautrec che fine aveva fatto? Per prima cosa, non era rimasto al Castello con i suoi. Temendo il peggio, era riuscito a mettersi in salvo, rifugiandosi prima a Como e poi a Cremona, dove, conoscendo la pertinacia del suo re, si fermò fiducioso in attesa di rinforzi.
Nel gelido e nebbioso mattino del 24 novembre la notizia della caduta di Milano arrivò a Piacenza. Papa Leone X ne fu informato da un messo inviatogli da Francesco mentre si trovava nel palazzo vicino al duomo, dove si era sistemato. Sarebbe meglio dire che ne ebbe conferma perché si era già accorto, dal clamore e dalle grida di gioia che provenivano dal cortile, che la battaglia era stata vinta: personale della corte, familiari e soldati avevano già preso a festeggiare sotto le sue finestre chiamandolo a gran voce per acclamarlo. Non era un eccesso di zelo. In fondo, gran parte del merito di quella vittoria era effettivamente del pontefice. Lasciò dunque il suo ben riscaldato appartamento – un enorme camino in ogni camera e bracieri dappertutto – per affacciarsi dal vasto poggiolo a salutare e a condividere la gioia con i suoi. Appena fuori fu investito da una folata di vento umido e gelato, e incurante dei primi colpi di tosse restò a lungo sul balcone, anch’egli festante e benedicente.
Durante la notte fu colpito da un violento attacco febbrile: polmonite. I familiari che erano con lui lo convinsero a tornare a Roma per farsi curare dai suoi medici. Fece appena in tempo ad arrivare in Vaticano, dove morì all’alba del 1° dicembre 1521, aveva quarantasei anni. Nei primi giorni del 1522, fu eletto il nuovo pontefice, Adriano VI di Utrecht, che però morì nell’agosto dell’anno successivo.