«È evidente che hai cambiato idea e fronte: ora che hai ottenuto da Carlo V quello che volevi, il nostro proposito di allontanarlo dalle cose italiane non ti interessa più.»
Quando seppe che l’imperatore aveva riconosciuto il Ducato a Francesco II, il d’Avalos che in base a quanto stabilito dall’«alleanza perpetua» tra il papa e l’imperatore risiedeva stabilmente a Milano in qualità di capitano generale del contingente posto a difesa del Ducato, si precipitò dal duca per imputarlo di una presunta defezione.
«Ti sbagli di grosso» gli rispose Francesco, «e con queste accuse mi offendi. Sai bene che per me la libertà degli Stati e la pace in Italia devono senz’altro prevalere sui desideri dei singoli. Non avrei mai potuto sacrificare il nostro generale proposito di indipendenza in cambio di un’investitura che comunque mi spettava di diritto.»
Il marchese di Pescara mostrò di prendere sul serio questa risposta e lasciò il duca, atteggiandosi a buon amico. Ma ormai non si fidava, temeva che la «congiura di Morone», da lui promossa, potesse essere svelata e che gli piombasse tra capo e collo l’accusa di tradimento dell’imperatore. Non gli restava che anticipare le mosse. Da tempo era affetto da una brutta forma di tisi che lo debilitava ma non tanto da impedirgli di giocare sempre a suo vantaggio tutte le carte che possedeva.
Il 15 luglio 1526 scrisse all’imperatore: «Maestà imperiale, vi sarà certamente giunta voce di una macchinazione a vostro danno detta “congiura di Morone”, voce che nella vostra magnanimità e per la fiducia che riponete nel duca di Milano e nel suo cancelliere avete voluto ritenere infondata e malevola. Purtroppo, mio signore e imperatore, posso confermarvene l’assoluta fondatezza, essendo io stato sollecitato dallo stesso Morone e a nome del suo duca a partecipare a detta congiura. Invito che ho respinto con sdegno per fedeltà alla maestà vostra e per il sacrosanto principio di lealtà che ho sempre voluto seguire. Pertanto, ho ritenuto mio dovere, a questo punto, denunciare con fermezza il vile complotto che il Morone, d’intesa con il suo duca, stanno conducendo a vostro danno. Sono sicuro che se, su vostro comando, potrò arrestare il cancelliere e riuscirò a farlo confessare egli dirà anche i nomi degli altri congiurati, dimodoché si potrà fare giustizia».
Con questa infame denuncia, il marchese di Pescara non solo pensava di essersi messo in salvo ma contava pure su una ricompensa. Carlo V valutò con attenzione la lettera e, sebbene si fidasse assai poco del marchese, ordinò subito di arrestare Morone, il quale nonostante le torture, non rivelò informazioni utili. Ma dato che l’obiettivo principale del d’Avalos era Francesco, poté millantare che il cancelliere lo aveva accusato di essere il promotore della congiura.
L’Asburgo, che non aveva mai avuto in simpatia Francesco, prese subito per buona quella «confessione» ma, prima di passare all’azione, ne chiese minacciosamente conto al duca.
«Le accuse che mi vengono rivolte sono false: noi siamo e vogliamo essere dell’imperatore e alla maestà sua fedelissimi» rispose lo Sforza, «pertanto venite pure quando vi aggrada.»
In realtà, le truppe imperiali, comandate dal d’Avalos, avevano già avuto l’ordine di mettere la città sotto assedio anche perché Carlo V non voleva farsi sfuggire l’occasione. Poteva impadronirsi del Ducato senza essere accusato di aver violato gli accordi.
Il popolo milanese, però, dopo le troppe esperienze di vessazioni e taglieggiamenti imposti dalle presenze straniere, non aveva affatto condiviso quel «venite pure quando vi aggrada» e cominciò a mandare forti segnali di irrequietezza che avrebbero potuto ben presto trasformarsi in disordini.
Francesco realizzò che una reazione ostile del popolo poteva rappresentare un ottimo pretesto per l’ingresso con la forza delle truppe spagnole in città. Ne sarebbe conseguito un disastro, un massacro. Già la peste aveva fatto la sua parte. Per evitare il peggio, emise dunque una grida con cui vietava «ogni manifestazione ostile verso la maestà dell’imperatore e le sue truppe».
Il 2 novembre le truppe imperiali, spagnole e lanzichenecche, entrarono a Milano e presero tutti i borghi, dove si insediarono.
Francesco, finalmente guarito dalla brutta malattia che lo aveva afflitto per tutta l’estate, si era asserragliato nel Castello. Per qualche giorno d’Avalos gli ingiunse di arrendersi e consegnarsi. Non ottenendo alcuna risposta, il giorno 12 fece circondare il maniero. Ma lo Sforza non diede alcun segno di cedimento. Fece anzi sapere di essere in grado di «resistere per mesi, forse anche per anni, ché qui nulla ci manca».
E in effetti l’assedio andò avanti per settimane. Anche se, va detto, l’imperatore preferiva evitare azioni violente contro il duca. In Europa non sarebbero state ben viste. Gli sarebbe bastato che si fosse dichiarato colpevole di cospirazione e rinunciasse al Ducato. Comunque, per sancire il dato di fatto, il 3 dicembre nominò il marchese di Pescara governatore di Milano. Una nomina infelice, della quale il d’Avalos non fece in tempo a compiacersi giacché la notte stessa un violento attacco di tisi lo portò alla morte.
«È la punizione divina per il suo infame tradimento» commentò Francesco, «di cui l’angelo della giustizia non gli ha consentito di godere i frutti avvelenati.»
Carlo V, contento nel suo intimo di essersi liberato di un personaggio ambiguo, nominò governatore di Milano il cugino del defunto, Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, che divenne anche marchese di Pescara. Ma siccome neppure di costui si fidava, gli affiancò un altro spagnolo, quell’Antonio de Leyva che aveva partecipato a tutte le sue operazioni condotte in terra d’Italia e del quale era nota l’assoluta fedeltà all’Asburgo.
E Francesco I re di Francia? Si trovava, come sappiamo, prigioniero a Pizzighettone, dove, disperato e depresso, in preda a una crisi mistica, indossava un saio e camminava a piedi nudi: «Se Dio mi ha punito con questa umiliante sconfitta devo aver molto peccato, perciò è giusto che faccia penitenza. Solo così potrò riacquistare la benevolenza del Signore» scrisse a sua madre Luisa di Savoia in ambasce per la sua sorte. La donna si impegnò subito per ottenerne la liberazione, scrivendo lettere di supplica all’imperatore.
Condotto a Barcellona, dove fu trattato quasi come un ospite di riguardo, partecipando a feste e assistendo a corride, il prigioniero fu infine trasferito a Madrid. Qui non gli fu certo osservato lo stesso riguardo, visto che venne relegato in una grigia cella nei sotterranei dell’Alcazar, antica fortezza araba che Carlo V stava per trasformare nel suo palazzo reale. Da quella prigione scriveva spesso alla madre lettere che esprimevano disperazione, insieme al convincimento di stare scontando «una non so quanto meritata punizione per non so bene quale colpa».
All’Alcazar si trovò anche in pericolo di vita, forse per una forma di ictus, ma in quell’occasione accadde anche qualcosa di imprevedibile e positivo: Carlo V, con uno dei suoi tipici gesti di appariscente magnanimità, andò a visitarlo per informarsi sul suo stato di salute: con ogni probabilità, non voleva che gli venisse attribuita la responsabilità di avere lasciato morire un re in carcere. Era la prima volta che i due s’incontravano.
Il gesto cavalleresco indusse Francesco I a sperare in un atto di clemenza. Che prima o poi sarebbe arrivato. In seguito, mostrando tutto il suo abbattimento, scrisse a Carlo V missive imploranti, arrivando a dirsi – lui, un re – pronto a servirlo se lo avesse liberato: «Se vi piaccia di avere tanto saggia pietà, da provvedere alla sicurezza debita alla persona di un re di Francia, in modo da farmi, da disperato, amico, state certo che ne trarrete beneficio più che da un inutile prigioniero, e farete di un re un vostro schiavo per sempre. E vi piaccia allora di dirlo, invece che prigioniero, vostro buon fratello e amico».
Il 14 gennaio 1526, dopo quasi un anno di prigionia, gli fu concesso di tornare libero ma a precise e severe condizioni. Dovette firmare il «punitivo» Trattato di Madrid, con il quale i suoi due figli venivano trattenuti in Spagna come ostaggi, rinunciava a ogni diritto sia ereditario sia di conquista sul Ducato di Milano, riconosceva legittima la successione di Francesco II Sforza – ancora assediato al Castello dall’esercito di Carlo V – come pure su Genova e sulle Fiandre. Inoltre, dovette rinunciare a ogni pretesa sul Regno di Napoli che Clemente VII, come abbiamo visto, avrebbe voluto concedere a Ferdinando Francesco d’Avalos per placarne l’irritazione, mossa che non dispiaceva neppure all’Asburgo. Ma il d’Avalos era morto e ormai tutte le tessere del puzzle andavano rimescolandosi.
Restava comunque forte la preoccupazione degli Stati italiani per lo strapotere asburgico, che la cacciata di Francesco da Milano avrebbe definitivamente sancito. L’operazione, però, risultava meno facile del previsto, grazie anche alcuni episodi di reazione popolare.
Il 22 aprile, durante una processione in piazza Duomo, un gruppo di Spagnoli e Lanzichenecchi prese a sbeffeggiare i fedeli, in particolare quelli vestiti con un saio, gridando loro: «Straccioni! Non avete più neppure i soldi per un abito!».
Era troppo. Dal suo arrivo, l’esercito imperiale taglieggiava la popolazione, sia «legalmente», facendosi pagare le «spese di mantenimento», sia con criminali estorsioni praticate da gruppi di soldati soprattutto su artigiani e commercianti. Come se non bastasse, appena la settimana prima il governatore aveva avviato richiesta straordinaria di tributi, l’ennesima.
Reagendo d’istinto a quegli insulti, i più esasperati e arrabbiati dei fedeli in processione prima scagliarono pietre e oggetti contro i soldati, per poi avventarsi contro di loro. Ne seguì una rissa che, allargandosi a macchia d’olio e coinvolgendo un numero crescente di cittadini, divenne una sommossa. Alla testa della quale, per impeto e capacità di incitamento, si trovò un certo Pietro Pusterla, giovane rampollo di un’antica ma decadente casata milanese, «forte come un toro e coraggioso come un leone», come venne descritto da alcuni suoi apologeti dopo i fatti. Gli scontri, che provocarono feriti e forse anche qualche morto, raggiunsero il culmine nella notte fra il 24 e il 25 aprile, interessando buona parte della città. La mattina dopo, spaventato, il Vicario di Provvisione decise di intervenire per evitare che la situazione precipitasse. Riuscì a placare gli animi solo promettendo di rivedere l’ultima stangata fiscale. Ma il Pusterla non credeva alla promessa e continuò a incitare i milanesi alla rivolta.
Nel frattempo, però, il 16 maggio, appena poco più di due mesi dopo la sua scarcerazione, Francesco I dichiarò nullo il Trattato di Madrid, sostenendo che gli era stato estorto nella sua condizione di prigioniero. Comunque, il re aveva già ripreso i contatti politici e diplomatici con le altre potenze europee e riunì a Cognac i rappresentanti di Inghilterra, Portogallo, Savoia, Venezia e Stato della Chiesa. Il 22 maggio fu firmato un accordo per la creazione di un’alleanza contro Carlo V, la cosiddetta Lega di Cognac. Alla quale aderirono più tardi anche Genova, altri Stati italiani e il Medeghino, che non aveva voluto cedere il castello di Musso agli Spagnoli.
L’accordo conteneva anche una clausola importante per Francesco II, considerato legittimo duca di Milano, un riconoscimento tanto più significativo dato che veniva proprio da chi aveva tentato di impadronirsi del Ducato. La risposta dello Sforza fu immediata: benché asserragliato nel Castello, mandò i suoi legati per aderire alla Lega.
C’era però un prezzo da pagare a re Francesco I, un’altra batosta per le ormai esangui finanze ducali: una pensione annua il cui importo avrebbe dovuto essere fissato da Venezia e dal papa e che non doveva essere inferiore a 50.000 scudi d’oro, oltre alla pensione – finora a carico del sovrano – al fratello Ercole Massimiliano. Con il quale Francesco aveva mantenuto i contatti. I due si scrivevano all’incirca una volta al mese, naturalmente con il tacito consenso del re e, durante la prigionia di questi, della regina madre Luisa di Savoia, che però non trascurava mai di leggere quelle missive, temendo che potessero contenere anche dei messaggi segreti. E invece Massimiliano parlava al fratello della sua vita alla corte francese, spensierata e moderatamente sorvegliata, delle molte donne che frequentava, perfino di qualche battuta di caccia e qualche festa: «Qui tutto sono, caro fratello» scriveva quasi vantandosene, «fuorché un prigioniero. Certo sono in esilio, ma quasi libero».
Di una cosa però si lamentava: «Il re, nonostante le mie insistenze, non dà il più piccolo segno di voler adempiere la promessa di farmi ottenere la porpora cardinalizia; puoi fare qualcosa, caro fratello e duca, perché questo impegno venga mantenuto?».
Ma Francesco II Sforza nulla poteva. Nelle sue lettere al fratello parlava solo delle difficili condizioni politiche del Ducato e delle questioni diplomatiche di cui si occupava.
Delle sue vicende personali si occupava, invece, l’accordo di Cognac, stabilendo che al duca – che molti speravano si sposasse per assicurare una stabilizzante successione della dinastia – sarebbe stata data in moglie una principessa francese di sangue reale, in modo da creare un legame con il regno. Inoltre, in caso di morte di Francesco II, gli impegni sarebbero ricaduti a favore del fratello.
La permanenza degli arroganti e prepotenti Spagnoli a Milano era tuttavia sempre meno gradita dalla popolazione, provocazioni reciproche e risse non accennavano a diminuire. Il 16 giugno tra il palazzo ducale e il Duomo, a seguito di un banale bisticcio scoppiò un’altra sommossa, stavolta particolarmente violenta, con l’uso di coltelli, falcetti e spade. Il giorno dopo vennero uccisi dalla folla il capitano di corte, comandante del presidio del palazzo ducale, insieme a un centinaio di suoi soldati.
Gli Spagnoli preferirono ritirarsi nelle caserme lasciando che i rivoltosi si abbandonassero a saccheggi e incendi. Quando la furia popolare si fu placata, i soldati uscirono nelle strade e si diedero a loro volta al saccheggio di abitazioni e botteghe e a violenze. I disordini cessarono quando arrivò la notizia che truppe di Venezia stanno marciando sulla città. Subito si mosse anche l’esercito alleato per congiungersi con quello della Serenissima. Era il primo risultato dell’accordo di Cognac.
Carlo V, da parte sua, era da tempo seriamente preoccupato per l’instabilità della situazione milanese. Ora i movimenti delle forze della Lega di Cognac lo mettevano ancora di più in subbuglio. Perciò, nella speranza di riprendere in mano le redini, mandò dalla Spagna il connestabile Carlo III di Borbone, che giunse a Milano il 6 luglio come governatore del Ducato e subito assunse il comando supremo delle forze imperiali. Alfonso d’Avalos marchese del Vasto trattava invece con il duca la resa del Castello.
«Sappiate che mio primo desiderio» disse Francesco al suo interlocutore, «è evitare altri danni e disagi alla città. Ne ha già subiti troppi. Se mi farete delle proposte onorevoli è possibile che le accetti solo per il bene di Milano.»
In effetti, violenze e saccheggi continuavano. Il convento di San Celso fu preso d’assalto e semidistrutto dagli Spagnoli che costrinsero i monaci ad abbandonarlo: i religiosi dovettero andare a sistemarsi in abitazioni di fedeli generosi e caritatevoli ma seguitarono a dire messa nella chiesa del convento, rimasta in piedi.
«Un proposito che vi fa onore, signore» rispose il d’Avalos. «A nome di sua maestà l’imperatore, vi comunico che potrete nella massima sicurezza trasferirvi a Como. Liberata dalla guarnigione imperiale che ora la presidia, diventerà la vostra residenza.»
Francesco non era entusiasta all’idea ma accettò.
Il 24 luglio lasciò la città diretto a Como, nottetempo e con una piccola scorta per evitare di essere notato dai milanesi, come gli aveva chiesto di fare il legato imperiale: «Potrebbero protestare contro quella che a loro apparirebbe una fuga oppure implorarvi di restare; in ogni caso ne nascerebbero nuovi disordini».
«Caro marchese, apprezzo la vostra sollecitudine ma sappiate che una cosa, comunque, i milanesi hanno capito: a decidere delle sorti del Ducato, del suo destino, a volerne il bene o il male, a contenderne il possesso con attuali o futuri nemici non sono io ma è l’imperatore Carlo V, che vi ha mandato a trattare quella che in sostanza è la resa degli Sforza. Così è stato deciso a Cognac. Voi lo sapete che ormai, cominciando da Milano, l’Italia intera è in balìa di potenze troppo grandi e forti – la Francia, la Spagna, l’Impero – perché ogni singolo Stato italiano possa conservare la propria libertà. Le nostre divisioni, i nostri egoismi ci rendono troppo deboli e facili prede. Non ci resta che rassegnarci e cercare di limitare il danno.»
Il marchese del Vasto non rispose.
Francesco ebbe la dimostrazione definitiva che la sua facile profezia era giusta quando giunse a Como. Il comandante della guarnigione imperiale si rifiutò di sgomberare come era stato promesso al duca: «Io prendo ordini solo dal mio sovrano e non da voi. L’imperatore non mi ha comandato di lasciare Como, pertanto io resto».
«Ma è un altro tradimento, non erano questi patti.»
«Io prendo ordini solo dall’imperatore.»
«Non posso accettare anche questa ennesima umiliazione; con la vostra presenza sarei ancora prigioniero anche qui a Como.»
Francesco decise dunque di rifugiarsi a Crema, ospite di Venezia.
«Maestà, Francesco Sforza ha confermato la sua fellonia, rifugiandosi sotto la protezione dei Veneziani è passato al nemico» scrisse il Borbone a Carlo V.
Ma per il duca, ormai sfiduciato e pessimista sull’esito finale di tutta questa vicenda, i giorni che passò a Crema furono particolarmente tristi. Anche perché resi più amari da improvvisi contrasti con il fratello. Francesco, infatti, nonostante l’ultimo cambiamento di fronte, dava ancora l’impressione di non fidarsi della Francia: «Questo tuo atteggiamento» gli contestò in una lettera molto aspra il fratello Massimiliano, «mi mette in una condizione di grave pregiudizio da parte del re che mi ospita. Mi riferiscono che avresti affermato che mai io potrò essere né duca di Milano né cardinale. Ebbene, fratello, da quando sono in Francia ti assicuro che mai ho pensato o cercato di tornare a essere duca» anche se in realtà le continue difficoltà di Francesco ora forse glielo facevano sperare. Infatti: «Perché la tua non può essere considerata una profezia infallibile, perché non sei né il papa né il re di Francia, non vali e non sei più forte di me né di me hai più amici. Quanto a esser fatto cardinale, re Francesco me lo promise e non vedo perché questo non debba accadere, semmai è il tuo atteggiamento ostile verso quel sovrano che potrebbe pregiudicare il mantenimento di quella promessa».
Aspra e davvero poco fraterna la conclusione della lettera: «Ricorda comunque che le cose possono cambiare e tornare a essere come quando io comandavo e tu obbedivi. Rimettiamoci alla volontà di Dio e finché potrò comportarmi con te come un fratello, lo farò perché il sangue lo impone».
Docile ed equilibrata, invece, la risposta di Francesco: «Ti rassicuro, fratello mio, nulla di ostile contro il re di Francia al quale ora sono fedele, nulla ho mai fatto che possa pregiudicare i tuoi rapporti con lui. Quanto all’imperatore, sono stato suo umilissimo e buon servitore fino al giorno in cui hanno assediato il Castello facendomi grandissimo torto e ingiuria».
Il tono pacato e quasi affettuoso di Francesco era quello di un giovane principe infelice, dal temperamento introverso e pessimista, dalla salute malferma, che aveva subìto molte umiliazioni, che si era sempre trovato in gravi difficoltà, che ormai conduceva un’esistenza misera e precaria non certo all’altezza delle splendenti e gloriose tradizioni del suo Ducato. Mai un giorno di spensieratezza e di gioia per Francesco, se si esclude qualche raro svago con compiacenti e generose dame di corte, diversamente dal fratello che, sin dal suo esilio in Tirolo e poi da duca e infine perfino ora che si trova in Francia, aveva potuto permettersi divertimenti e facili amori a volontà. Due storie, due destini tanto diversi spiegano i toni quasi contrastanti delle due lettere dei fratelli Sforza.
Intanto, però, gli alleati avanzavano: avevano preso Melegnano, Melzo e Pioltello. Quando giunsero i rinforzi francesi e svizzeri si fermarono per riorganizzarsi e prepararsi a prendere Milano. L’imperatore reagì all’offensiva e mandò in Lombardia diverse migliaia dei soliti Lanzichenecchi. Gli alleati decisero di fermarli sul Mincio.
Per settimane i due eserciti si fronteggiarono limitandosi a manovre elusive e scaramucce, ma il 28 settembre la Lega prese Cremona e ne fece la base delle operazioni. Anche Francesco subito vi si spostò, facendone la sua nuova sede provvisoria.
Mancava dunque l’ultimo passo: prendere Milano. I cittadini non aspettavano altro, erano perfino pronti sborsare di tasca loro le paghe all’esercito imperiale e ai suoi mercenari purché se ne andassero. Le condizioni economiche della città e del circondario erano ormai disastrose, anche a causa di una grave carestia dovuta all’imperversare delle truppe francesi e spagnole sulle campagne e sulle strade, che aveva decimato la produzione agricola e impedito i trasporti delle merci e i normali approvvigionamenti. Pur in queste condizioni, a Milano si stava organizzando la colletta quando gli occupanti, Spagnoli e Lanzichenecchi, stanchi di aspettare, presero a saccheggiare le botteghe e le abitazioni per costringere la città a pagare in fretta. Un violenza inutile perché la raccolta dei fondi in città era quasi conclusa. Il 15 dicembre la soldataglia fu pagata e cominciò a evacuare, lasciando a presidio solo reparti di Lanzichenecchi e Italiani. Come governatore rimase a Milano il conte Ludovico di Belgioioso.
Il 1° gennaio 1527 il Borbone decise di mettere in libertà Gerolamo Morone, una libertà che però gli costò cara: 20.000 scudi. L’ex cancelliere del duca era ormai fortemente ostile a Francesco, che secondo lui – rovesciando i termini della sua vicenda – non lo aveva difeso dall’accusa di tradimento e lo aveva lasciato finire in prigione. Perciò si schierò con gli Spagnoli ma riallacciò stretti rapporti personali anche con il Medeghino, del quale apprezzava la determinazione, il coraggio e la capacità di influenza, che ormai dal castello di Musso si stava espandendo sulla costa del Lario verso Porlezza e Valsolda.
Un recente, clamoroso episodio che lo aveva visto protagonista veniva raccontato con ammirazione per definirne la spregiudicatezza. Il 1° agosto 1526, il Medeghino aveva sequestrato due ambasciatori della potente Serenissima per costringerla a pagare la somma promessagli per l’ingaggio di guarnigioni svizzere e mai saldata.
Venezia minacciò durissime rappresaglie e finse di muovere delle truppe ma il Medeghino restò immobile nelle sue posizioni. Alla fine, dopo una lunga trattativa, il Senato veneziano pagò 5000 ducati e il 15 novembre il caparbio condottiero liberò i due ostaggi. L’episodio fece scalpore, e non solo nelle corti italiane, per l’evidente squilibrio di forze: il castellano di Musso che si ero messo contro la Repubblica di San Marco: «A un duca inaffidabile e che dipende dalle armi altrui preferisco un castellano coraggioso e determinato» ripeteva Morone a chi gli chiedeva le ragioni della sua scelta. Tuttavia, il Medeghino manteneva ottimi rapporti con Francesco, tanto che stava assumendo il comando dell’esercito ducale.
Intanto, le truppe imperiali presenti in Lombardia si riunivano sul Po, dalle parti di Mantova, con i rinforzi, costituiti perlopiù da Lanzichenecchi, provenienti dal Tirolo. Il loro obiettivo adesso si era fatto inaudito: Roma.
«Signore, da giorni l’armata imperiale è entrata a Roma, sua Santità Clemente VII si è rifugiata a Castel Sant’Angelo.»
La sconvolgente notizia la portò a Francesco verso la metà di maggio del 1527 un capitano della Lega. Era stato un fedelissimo di Giovanni de’ Medici, detto dalle Bande Nere. Il quale, combattendo per il papa e per la Lega, era morto a Mantova il 30 novembre 1526 dopo la battaglia di Governolo, colpito alla gamba destra da una palla sparata da una innovativa e micidiale arma da fuoco, quel piccolo cannone chiamato «falconetto». Essendo figlio di Caterina Sforza, figlia naturale di Galeazzo Maria, Giovanni era cugino di Francesco.
«La truppa che sta devastando Roma, da dove arrivo essendo riuscito fortunosamente a mettermi in salvo, è composta quasi solo da Lanzichenecchi, incattiviti perché da tempo non riscuotono il soldo e soprattutto perché, essendo luterani, odiano Roma, la capitale del cattolicesimo, che sta subendo il più violento e distruttivo saccheggio, la più oltraggiosa offesa della sua storia. Uccidono a caso e senza ragione uomini e bambini, violentano donne di ogni età, devastano le chiese, abbattono le statue dei santi e lacerano sacri dipinti, orinano e defecano sugli altari, distruggono e disperdono reliquie benedette… Questo, mio signore, è il più sacrilego, insopportabile e imperdonabile oltraggio a Santa Madre Chiesa ed è anche un duro colpo per la Lega.»
«Per conto mio» rispose Francesco, «spero solo di poter al più presto tornare a Milano. Ora l’esercito ducale è al comando del Medeghino, conto molto su di lui che dalla Brianza sta muovendo sulla città.»
I Lanzichenecchi erano entrati a Roma il 6 maggio 1527 ma solo il 21 la notizia giunse a Milano, dove fu festeggiata non solo dagli imperiali che ancora vi si trovavano ma anche, piuttosto ingenuamente, dai milanesi: speravano che si concludesse così la guerra e si addivenisse a una liberazione totale e definitiva della città.
Antonio de Leyva, alla guida degli imperiali, mosse contro i ducali al comando del Medeghino e i Veneziani che si avvicinavano puntando verso Monza. Riuscì a fermarli a Carate ma non si spinse oltre, fino a Como, dove intendeva ingaggiare la battaglia decisiva contro il valoroso condottiero italiano, perché nel frattempo i Francesi avevano passato le Alpi. Perciò tornò a Milano, dove fu molto male accolto da una popolazione delusa e sempre più stanca, ormai esasperata, tanto che tornò a soffiare un gelido vento di rivolta.
«Sollecitiamo i sudditi milanesi a restare fedeli alla nostra maestà e pacifici sotto la nostra paterna autorità» fu il perentorio invito di Carlo V, subito informato della pessima accoglienza ricevuta dalle sue truppe, «mentre promettiamo di ritirare al più presto il contingente che è stato obbligato a tornare ad acquartierarsi in città.»
Aspettando l’offensiva della Lega e dei Francesi, che intanto avevano già preso Genova, l’imperatore fece anche erigere nei pressi del Castello delle fortificazioni la cui pianta formava una tenaglia, a difesa del maniero (più tardi avrebbero dato il nome, per l’appunto, a Porta Tenaglia).
Ma i Francesi, comandati da Lautrec, avanzavano ancora. Oltretutto, dopo le dure lezioni impartite dall’esercito imperiale durante la battaglia di Pavia avevano potenziato e non di poco la loro artiglieria. E il 4 settembre vollero sperimentarne tutta l’efficacia distruttiva abbattendo l’intero lato nord del castello. Quindi puntarono verso Milano, dove stavano già arrivando le forze ducali e quelle della Lega, fermandosi a San Cristoforo sul Naviglio Grande, alle porte della città, e presero a bombardarla.
Ormai Milano si trovava in una assurda e disastrosa situazione: devastata dalla carestia per la completa mancanza di approvvigionamenti e per il bombardamento, assediata da truppe ducali, veneziane e infine francesi e occupata all’interno da Spagnoli e Lanzichenecchi senza che nessuna delle due parti sembrasse voler compiere una mossa risolutiva.
Per mesi si andò avanti tra inconcludenti manovre e scaramucce, durante una delle quali Ludovico di Belgioioso venne fatto prigioniero. Dal canto suo, il Lautrec con una parte delle truppe assedianti prese l’iniziativa di muovere verso sud con l’intenzione, un po’ velleitaria, di arrivare a Roma e liberare il papa. Come se tutto questo non bastasse, in estate ricomparve la peste che sembrava debellata.
A informare Carlo V della situazione in Lombardia e a Milano era Gerolamo Morone che, grazie alla sua abilità diplomatica, dopo essere stato liberato era riuscito a riconquistare la fiducia dell’imperatore. Con periodicità riferiva sulle forze in campo: «A Milano sta il signor Antonio de Leyva» scriveva nella primavera del 1528 «con circa 2000 fanti spagnoli, 2500 Lanzichenecchi, 2500 Italiani, altrettanti uomini d’arme e cavalli leggeri».
Subito dopo informò l’imperatore della conclusione, il 15 aprile, del Trattato di Pioltello «con il quale il signor Antonio de Leyva ha convinto il signor Gian Giacomo Medici chiamato il Medeghino, generalissimo ducale, ad abbandonare la Lega di Cognac per restare neutrale, ricevendo in cambio il borgo di Lecco, il marchesato imperiale della Val d’Intelvi, Osteno, Valsolda, Porlezza e Oltrevalle. In tal modo le forze della Lega risultano notevolmente ridotte».
Erano tutti territori del Ducato, pertanto il Senato milanese non ratificò quel trattato e lo stesso Francesco II fece subito sapere che non lo avrebbe mai riconosciuto: «Mai avrei dovuto fidarmi di chi con tanta facilità cambia amici e casacca» commentò, fingendo di dimenticare che quello era il costume di tutti i capitani di ventura, e il Medeghino non era certo da meno.
Con quell’accordo, comunque, de Leyva aveva ottenuto il risultato di indebolire gli assedianti. Tanto più che, subito dopo, i Veneziani, con una delle loro consuete acrobazie, si ritirarono nei territori aldilà dell’Adda. Ora il duca era in difficoltà e gli imperiali poterono passare al contrattacco.
Operazione che gravò, come sempre, sulle spalle dei milanesi. De Leyva, infatti, impose loro un pesante contributo pari a venti giorni di paga dei soldati con la promessa di ritirare le truppe. I milanesi, pur di sottrarsi al giogo del nemico, pagarono e il 1° maggio le truppe abbondonarono la città.
Non prima però, di essersi lasciate andare all’ultimo efferato saccheggio: per tre giorni irruppero in abitazioni e botteghe rapinando tutto quello che riuscivano a portare via. I loro obiettivi preferiti furono i monasteri, di cui svuotarono le dispense e le casse; si accanirono in particolare su quelli femminili, tanto che per giorni si videro monache vagare terrorizzate e sconvolte per le strade di Milano. Finalmente Lanzichenecchi e Spagnoli lasciarono la città per andare ad Abbiategrasso da dove, però, non molto tempo dopo tornarono.
I rappresentanti della Lega decisero che bisognava reagire e il 7 maggio tennero a Caravaggio un Consiglio di guerra al quale parteciparono Francesco Sforza, il duca di Urbino, capitano generale di Venezia, l’oratore della Serenissima Sebastiano Venier e molti capitani. Si stabilì di passare all’offensiva, anche perché un altro esercito francese aveva passato le Alpi e stava per unirsi alle forze ducali. La nuova situazione indusse i Veneziani all’ennesimo ripensamento e a ritornare in campo. Insieme puntarono su Abbiategrasso e Melegnano dove si erano acquartierati gli imperiali che, per evitare lo scontro, tornarono a chiudersi a Milano.
A convincere la Serenissima a tornare in prima linea era stato l’abile Venier. Intelligente, raffinato e stimatissimo diplomatico e politico, rampollo di una delle più potenti famiglie veneziane – «è destinato a diventare doge» si sentiva dire di lui nei prestigiosi salotti dei sontuosi palazzi sul Canal Grande – Venier non aveva dubbi sulla necessità che in questa guerra le bandiere col Leone di San Marco dovessero sventolare accanto a quelle sforzesche e francesi. Soprattutto nell’interesse della Serenissima per evitare che, sempre minacciata dal Turco a levante, nel Mediterraneo orientale, in Adriatico e in Friuli, finisse per trovarsi a ponente, sull’Adda, le potenti armate imperiali e spagnole – «orde di Lanzichenecchi» le definiva – dopo che Carlo V si fosse impadronito di Milano.
Ma Venier provava anche una spiccata simpatia per Francesco Sforza, peraltro ricambiata. Il veneziano aveva un anno meno del milanese, ma i loro caratteri erano tanto diversi da risultare complementari. Tanto il primo era brillante, colto e ricco di fascino quanto il secondo era, sì intelligente e affidabile, ma introverso e predisposto alla malinconia e al pessimismo. Con il risultato che Sebastiano provava per lui un impulso protettivo come da fratello maggiore, a causa della difficile situazione nella quale si trovava, certo non per responsabilità sua.
Dopo il Consiglio di guerra di Caravaggio, il duca volle ringraziare l’amico veneziano e finì per confessare la sua inquietudine: «So benissimo, caro signor Venier, che non potrò mai essere all’altezza del mio amatissimo padre Ludovico Maria e del grande nonno del quale porto indegnamente il nome. So che comunque finirà questa guerra il mio Ducato non sarà più mio, ma dominio o dei Francesi o degli Spagnoli. E gli uni o gli altri finiranno per mettere le mani sulla grande parte degli Stati italiani, dei quali ormai nessuno è in grado di resistere alle potenze che se li contenderanno. Troppo forti sono diventate, spesso senza merito ma per vie matrimoniali ed ereditarie, mentre in Italia ciascuno di noi – sempre divisi da invidie e gelosie – si preoccupava di difendere la propria piccolezza e debolezza. Anche voi, amico mio, sapete e temete tutto questo. Forse Venezia potrà resistere, ma sarà salvata solo perché considerata un baluardo contro la minaccia ottomana».
Venier aveva ascoltato annuendo e dopo una lunga pausa di silenzio, meravigliato e ammirato per la saggezza acquisita con l’esperienza dal suo amico, rispose elusivo e pragmatico, fedele alla tradizione della diplomazia veneziana: «Il futuro, caro amico, è nelle mani del Signore, per ora non ci resta che riprendere Milano e riconsegnarvi il Ducato, come abbiamo appena deciso.»