X

ADDIO SFORZA

«La bellezza e la giovinezza della vostra sposa, signore, hanno portato a Milano vigore e fortuna» commentò dopo qualche settimana il gran cancelliere Taverna, esponendo a Francesco i dati lusinghieri sulla sensibile ripresa economica, tanto a lungo attesa. E subito aggiunse: «Ma certo tutto si deve alla saggezza del vostro governo». Ossequioso, ma non aveva torto.

In effetti, il raccolto del 1534 era stato ottimo grazie anche a un ampliamento della superficie delle terre coltivate promosso dal duca. Di conseguenza i prezzi erano diminuiti, consentendo alla gente di accumulare una piccola quota di risparmio e di fare qualche spesa in più. I consumi, dunque, erano in graduale ripresa anche perché, a dispetto dei pesanti impegni finanziari che gravavano ancora sul Ducato, Francesco era riuscito ad abbassare i tributi per effetto di una sapiente gestione amministrativa e una cospicua razionalizzazione della spesa corrente dello Stato.

Un pacchetto di misure gli consentì di fare ripartire anche le opere pubbliche, rilanciando l’occupazione e l’immigrazione di mano d’opera. Già nel settembre del 1533 aveva messo mano a una ristrutturazione delle fortificazioni della città e l’anno dopo a un’opera che gli stava molto a cuore, la realizzazione della facciata del Duomo. Progetto ambizioso e costosissimo, concludendo il quale Francesco sperava di passare alla storia: avrebbe portato a compimento un’opera grandiosa, iniziata e proseguita lungo i decenni dai suoi antenati. Purtroppo, i costi lievitarono più del previsto e, seppure a malincuore, fu costretto poco dopo a rinunciare.

Dei suoi antenati Francesco ammirava in particolare l’amore che avevano mostrato per la cultura, le lettere e le arti, per il loro mecenatismo che faceva splendere il nome di Milano e la fama degli Sforza in tutta Europa. La cugina imperatrice Bianca Maria, il cardinale Schiner, la zia Isabella d’Este e gli esuli milanesi a Innsbruck molto gliene avevano parlato. Il duca era interessato soprattutto alle notizie che giungevano dal Nuovo Mondo – di cui tanto si fantasticava nelle corti italiane – e a quelle che riguardavano le tante novità delle tecniche di agricoltura introdotte in Europa: era convinto che fossero decisive per lo sviluppo economico e per il benessere del Ducato perciò era alla continua ricerca di esperti che gliene potessero parlare o di libri sull’argomento.

Seguendo l’esempio di Venezia, dava protezione a scrittori costretti all’esilio per ragioni politiche, a coloro che scrivevano incunaboli di aiuto allo studio delle lettere, sia antiche sia recenti.

Sembrava proprio che, sebbene meno indipendente e pur sempre soggetta alla tutela dell’imperatore, Milano si avviasse a una nuova fase di pace, prosperità e splendore.

Il 25 settembre 1534 morì papa Clemente VII. Il 13 ottobre venne eletto, primo romano dopo mezzo secolo, Alessandro Farnese con il nome di Paolo III. Il nuovo pontefice, com’era consuetudine, cambiò non pochi ambasciatori, scegliendone di nuovi di sua fiducia, anche perché intendeva impegnarsi contro lo scisma luterano.

Anche a Milano arrivò il nuovo oratore di Roma e per dare il benvenuto e presentarlo alla corte e agli altri ambasciatori, Francesco organizzò nei giorni di novembre una grande cena. In quell’occasione il duca apparve subito a tutti insolitamente di buon umore, e si lasciò perfino andare a manifestazioni del proprio stato d’animo: «Forse questo è il momento più felice della mia vita, se è lecito parlare di felicità, e ritengo giusto comunicarlo a chi presta la sua opera per il Ducato e ringraziarne il Signore» confessò al termine della cena, generando un certo stupore. Introverso e riservato, non si era mai lasciato andare a espressioni tanto esplicite ed espansive. La meraviglia e il compiacimento per questo suo inaspettato moto dell’animo furono generali, e molti interpretarono quelle parole come un indiretto annuncio della gravidanza di Cristiana.

Le cose non stavano così, Francesco era soddisfatto perché aveva sistemato la sua situazione matrimoniale, perché la tutela imperiale teneva lontana da Milano ogni velleità francese e soprattutto perché l’economia del Ducato era tornata a crescere. Sentiva l’affetto dei suoi sudditi e questa era la cosa che gli stava più a cuore. Ma era consapevole che l’annuncio più atteso riguardava l’arrivo di un erede. Allora sì che avrebbe potuto dirsi davvero soddisfatto.

A quella cena partecipò il conte Stampa e anch’egli interpretò quell’inconsueta dichiarazione di Francesco alla stregua di tutti gli altri: l’annuncio sottinteso che la piccola duchessa Cristiana, non ancora tredicenne, era gravida. Tuttavia, contando sull’amicizia che lo legava a Francesco decise di andare a chiederglielo di persona.

Lo fece il mattino dopo quella cena, in un momento del loro consueto lavoro di disbrigo della corrispondenza personale del duca.

«Signore, ieri sera molti dei vostri ospiti hanno interpretato le vostre parole come un annuncio dell’attesa gravidanza della duchessa. È così?»

Francesco alzò di scatto la testa dalle carte con un’espressione sbalordita stampata sul volto e per qualche istante fissò il suo amico in silenzio. Poi quasi sottovoce gli fece a sua volta una domanda: «Caro Stampa, ditemi: vi siete mai unito carnalmente con una dodicenne?».

Il conte capì all’istante di aver commesso un errore e con tono di pentimento, chinando il capo, rispose: «No signore, non mi è mai capitato».

«Ecco, a me nemmeno, e infatti ho atteso prima di prendere quell’iniziativa che pure considero necessaria per il futuro dello Stato e della mia dinastia. Quando, dopo qualche settimana, una sera mi sono presentato nell’appartamento della duchessa, la poverina era a letto e mi guardava con occhi sbarrati, sembrava terrorizzata, avevo perfino l’impressione che tremasse, poi tentò un patetico sorriso che mi sembrò più una smorfia. Non potei fare altro che augurarle la buona notte e tornare nel mio appartamento. Ero molto turbato, infatti faticai a prendere sonno. Mia madre Beatrice aveva sedici anni quando sposò mio padre, un’età più ragionevole secondo una regola non scritta ma dettata dal buonsenso e dalla Chiesa; e così mia nonna Bianca Maria Visconti quando sposò il grande Francesco: l’una e l’altra erano già donne, giovanissime ma donne. La piccola Cristiana, amico mio, è poco più che una bambina.»

Stampa ascoltava a capo chino e dopo un breve silenzio chiese, con tono deluso: «E dunque, quando si potrà consumare il matrimonio?».

«Sono stato molto combattuto tra il sentimento che vi ho descritto e il mio dovere di duca e di Sforza. Ma ha provveduto la duchessa a risolvere il problema, dimostrandosi più saggia e consapevole di quanto ci si potrebbe aspettare da una fanciulla della sua età. Ha scritto – come lei stessa mi ha raccontato – alla zia Maria, raccontandole del suo timoroso ritegno e dei miei scrupoli. Con una lunga risposta, la saggia Asburgo è riuscita a tranquillizzarla e una sera è stata la duchessa a venire in camera mia mostrandomi la lettera della zia e dichiarandosi pronta, sorridente ma pur sempre timorosa. Aveva l’aria di un agnello che si appresti volontariamente al sacrificio. Ho fatto il mio dovere, con la maggiore cautela possibile ma è stata pur sempre, caro amico, una cosa di poco piacere, anzi alquanto penosa. Credo che possiate capirmi.»

Il conte Stampa capiva, assentendo con il capo, e non disse nulla. Di quell’argomento non si parlò più.

A Milano le cose non erano andate mai così bene dalla sconfitta nella battaglia di Novara e dalla cattura di Ludovico il Moro nell’aprile del 1500. L’economia migliorava e la città era tornata a essere un centro di attività artistiche e letterarie, si stampavano nuovi libri, si metteva mano a importanti opere pubbliche: «Per mancanza di fondi ho dovuto sospendere la costruzione della facciata del Duomo» conveniva Francesco con rammarico, subito assicurando però che «presto riuscirò a completare i lavori».

Ma non sempre gli uomini più scrupolosi e volenterosi, e Francesco era uno di questi, sono assistiti dalla fortuna come meriterebbero. Verso la fine di settembre il duca cominciò a non stare bene. Lo incupiva uno strano e preoccupante malessere generale, che si aggravava di giorno in giorno. In quell’occasione la piccola Cristiana, sposa da appena diciotto mesi, con la tenerezza e l’attenzione che manifestò per le condizioni del marito, dimostrò ancora una volta una sensibilità e un responsabile senso del ruolo degni di una donna fatta.

Di curare il duca si occupava una squadra guidata dal medico personale di Francesco, Scipione Vegio, che morirà pochi mesi dopo. Ne faceva parte anche quel Girolamo Cardano, tornato a Milano dopo un breve soggiorno a Gallarate, il quale, oltre a occuparsi di matematica, geometria e astronomia, dal Collegio dei fisici aveva ottenuto la licenza di praticare l’arte medica. Nessuno, in realtà riusciva a capire che tipo di malattia avesse contratto il duca; febbre altissima, con perdita di conoscenza e deliri, tremori, dolori articolari, vomito. Disorientati e sconfortati i medici parlavano di «morbo incognito». Definizione che Caracciolo trasmise all’imperatore e che mise in allarme, per paura di un contagio, quanti ne vennero a conoscenza, a cominciare dall’intera corte.

Ai primi di ottobre le condizioni del malato si aggravarono, tanto che Caracciolo, temendo ormai il peggio, ritenne opportuno avvertire Carlo V. Gli scrisse il 16 ottobre, descrivendogli la situazione ma rassicurandolo sulla fedeltà di Francesco: «Non potrebbe essere più affezionato a voi di quanto effettivamente non sia, infatti Vostra Maestà può disporre di questo Stato come del Regno di Napoli o della Castiglia».

Strana rassicurazione, la fedeltà di un moribondo. In realtà, intendeva Caracciolo, se il duca dovesse morire non ci saranno problemi di transizione del Ducato.

L’Asburgo diede ordini precisi al suo uomo a Milano: in caso di morte occupare tutte le fortezze e le città; mantenere l’ordine e non tollerare alcuna manifestazione di ostilità; far prestare a tutti i nobili, i notabili e le figure di rilievo civili e militari giuramento di fedeltà all’imperatore.

Verso la fine di ottobre le condizioni di Francesco peggiorarono ancora. La giovanissima moglie passava tantissime ore ferma e amorevole al suo capezzale. All’alba del 1° novembre 1535, due delle dame di Cristiana la svegliarono concitate e turbate: «Signora, il conte Stampa e il gran cancelliere Taverna chiedono di parlarvi per darvi una brutta notizia».

La duchessa capì subito di cosa si trattasse e i due entrarono senza aspettare che il permesso venisse loro accordato. A parlare fu Stampa: «Mia signora, ho il tristissimo compito di informarvi che poco fa il duca Francesco II Sforza è morto ed è stato accolto nella gloria del Signore».

Cristiana rimase immobile nel suo letto, non sapeva come comportarsi. Ma si riprese subito e chiese alle sue dame di aiutarla a vestirsi: «Voglio vederlo».

Il conte, il gran cancelliere e due le dame l’accompagnarono nella camera dove giaceva Francesco. Vedova bambina, toccò appena la mano ancora calda del marito defunto. Poi si trattenne a lungo in preghiera.

«Alla sua età» commentò Stampa rivolto al Taverna, «si comporta come una grande duchessa.»

Nel castello di Porta Giovia, all’età di quarant’anni, otto mesi e ventotto giorni, senza lasciare alcun erede, moriva dunque Francesco II, ultimo duca di Milano.

La notizia si diffuse prima in città, quindi in tutto il Ducato. Fin dalle prime luci dell’alba, mentre le campane di tutte le chiese suonavano i rintocchi funebri, i milanesi si assembrarono sotto il Castello per manifestare sconcerto e dolore per la morte del loro duca, che avevano subito imparato ad amare.

«È stato un signore buono e bravo» commentò Taverna vedendo quella folla, «che ha saputo farsi amare dai suoi sudditi. Ha governato con impegno e intelligenza, con coraggio e dignità, cercando sempre di migliorare le condizioni di vita del suo popolo, evitando tassazioni eccessive e addirittura riducendole dove e quando gli sembrò possibile.»

Quasi un epitaffio, immediato e spontaneo.

Ma Francesco non riuscì a raggiungere l’obiettivo più difficile. Quello a cui teneva di più: riconquistare una relativa indipendenza del Ducato di Milano: il tempo e la sfortuna non glielo consentirono. Il funerale dell’ultimo duca fu imponente, con una vastissima partecipazione popolare, in tanti erano giunti dalle cittadine e zone circostanti. Si svolsero ben diciannove giorni dopo la morte di Francesco perché Stampa volle organizzarlo nel migliore dei modi.

«Deve essere degno dell’ultimo degli Sforza» ripeteva a chi gli chiedeva conto di preparativi così lunghi.

Un interminabile corteo, aperto con le croci lignee delle chiese milanesi e i gonfaloni di tutte le città del Ducato e chiuso dai Lanzichenecchi di stanza a Milano, partì dal Castello diretto al Duomo, dov’era stato eretto un enorme catafalco parato di velluto nero. L’oratore funebre Gualtiero Corbetta definì la morte del duca «repentina… inopinata… inopportuna».

Intanto Caracciolo già provvedeva a eseguire gli ordini che l’imperatore gli aveva impartito e ad assicurare la massima tutela e assistenza alla duchessa Cristiana, nipote di Carlo V. Infatti, i poteri vennero subito trasferiti a de Leyva. Il 20 novembre, il giorno successivo ai funerali, sul Castello già sventolava lo stendardo imperiale.

«Dunque ora il Ducato passa all’Asburgo» commentò amaramente Taverna vedendo tutte quelle manovre, «la dinastia dei duchi Sforza, che tanto lustro e prestigio ha dato a Milano finisce con Francesco II.»

Con Taverna e Stampa, tutti i milanesi a conoscenza di quanto stava accadendo, si rendevano conto che il Ducato stava perdendo la propria secolare indipendenza. Ma non sapevano che presto non sarebbe più stato neppure un Ducato e che la soggezione allo straniero sarebbe durata più di tre secoli.

Per qualcuno, tuttavia, le cose non stavano proprio così. A Milano, infatti, viveva e aveva trentotto anni un figlio naturale del Moro, poi da questi riconosciuto, Giovanni Paolo Sforza, duca di Caravaggio. Ludovico lo aveva avuto da Lucrezia Crivelli, considerata la più bella delle amanti del Moro, raffigurata in un dipinto di Leonardo, che, finito in Francia, fu intitolato per un equivoco La belle Ferronière, come se si trattasse della moglie di un ferramenta o di un certo avvocato parigino Le Ferron.

Giovanni Paolo non era rimasto estraneo alle vicende familiari e, al pari di Ercole Massimiliano e Francesco, aveva vissuto in esilio a Innsbruck. Come condottiero aveva partecipato a molte delle operazioni militari dei suoi due fratelli duchi. Appena seppe della morte del fratello, si attivò per rivendicarne la successione. E aveva ottimi argomenti per farlo. Come figlio naturale riconosciuto, doveva essere considerato un erede del Moro a tutti gli effetti, soprattutto ai sensi e nei termini espliciti dell’investitura che l’imperatore Massimiliano I aveva concesso a Ludovico.

Per prima cosa il conte di Caravaggio dichiarò la sua devozione a Carlo V, poi si mise all’affannosa ricerca del documento di investitura imperiale per dimostrare il proprio diritto alla successione.

«L’insistente candidatura di Giovanni Paolo alla successione rischia di complicare le cose» disse Taverna a Stampa, «non è pensabile che Carlo V la accetti proprio ora che è convinto di avere messo per sempre le mani sul Ducato. Potrebbe ricorrere alla forza, Caracciolo me lo ha fatto intendere. I senatori sono molto preoccupati.»

«Dobbiamo impedire che trovi il documento di investitura imperiale di Massimiliano a Ludovico.»

«Ci penso io» rispose il conte che con gli archivi ducali aveva la massima dimestichezza, «so dove trovarlo.»

E infatti lo trovò. Avvertì subito sia Caracciolo sia de Leyva per rassicurarli che Giovani Paolo non avrebbe mai potuto venirne in possesso. Per prudenza tenne per sé l’originale e ne mandò una copia ai ministri di Carlo V: «Affinché possiate trovare la soluzione per mettere fine a queste assurde aspettative» scrisse nella lettera di accompagnamento.

Dopo lunghe e inutili ricerche, Giovani Paolo, disperato, prese l’iniziativa più audace: andare a parlare con l’imperatore per spiegare le proprie ragioni. Si mise perciò in cammino per Napoli dove in quei giorni si trovava Carlo V.

«Il problema è risolto, un messaggero da Firenze è venuto a informarci che Giovanni Paolo Sforza è morto all’improvviso mentre faceva tappa in quella città» riferì Taverna al conte Stampa.

«All’improvviso? E come? Veleno?»

«Così si mormora».

«Veleno… imperiale?»

«Così si mormora.»

«Ma il conte di Caravaggio ha un figlio.»

«Giovanissimo, poco più che bambino. Nulla sa di quello che è successo. Gli hanno solo detto che suo padre è morto. Si chiama Muzio, strano scherzo della sorte. Proprio come Muzio Attendolo, il capitano di ventura che ha fondato la dinastia degli Sforza.»