La fantasticheria, nelle più varie sue forme, entra sottilmente dappertutto nell’arte veristica del Di Giacomo, e si può scorgerla in quell’impressione profonda che in lui destano i più minuti e precisi particolari della vita ordinaria, nel suo modo di trattare il paesaggio e le figurazioni della natura, che sta lì, silenziosa ma presente, ad assistere e partecipare ai drammi umani che il narratore svolge. L’afflato poetico è in tutto il fraseggiare della sua prosa, la quale, pur tra alcuni difetti di particolari, ha sempre quel certo che di cesellato, di tormentato, d’intenso, che è proprio dei prosatori che scrivono versi.
Ma, se io dessi termine in questo punto al mio scritto, sento che lascerei nell’animo di molti una delusione. – Come? (si direbbe) avete parlato del Di Giacomo, e non lo avete considerato in relazione e in gruppo con gli altri poeti dialettali di Napoli e delle altre regioni d’Italia? E non avete manifestato il vostro pensiero nel dibattito, che si agita da molte parti, intorno al diritto o al non diritto della poesia dialettale? E non avete cercato se il Di Giacomo ritragga davvero fedelmente il popolo napoletano, o se egli ne adoperi il dialetto in tutta la sua purezza: o non affini e adulteri l’uno e l’altro, come taluni critici giudicano?
Due questioni che sembrano assai gravi: 1° la poesia dialettale ha ragion d’essere, e, nell’affermativa, a quali soggetti deve restringersi, e quale è il suo grado artistico? – 2° il poeta dialettale deve essere esatto e storico riproduttore della vita e del carattere di quel popolo di cui adopera il dialetto? – Ma io non le ho trattate perché le stimo oziose, poste male, provocanti false risposte; e dirò in breve il perché di questo mio pensiero.
Che cosa significa contestare i diritti della poesia dialettale? Come si può impedire di comporre e poetare in dialetto? Molta parte dell’anima nostra è dialetto, come tant’altra è fatta di greco, latino, tedesco, francese, o di antico linguaggio italiano. Il dialetto non è una veste, perché la lingua non è veste: suono e immagine si compenetrano interamente. Sopravviene il grammatico, e pei suoi fini, e in modo del tutto arbitrario e convenzionale, stacca le categorie di queste e quelle lingue, e di lingue e dialetti. Ma siffatte teorie grammaticali non sono giudizi d’arte, e non possono servire di fondamento a esclusioni o a delimitazioni estetiche. Quando un artista sente in dialetto (ossia concepisce quelle immagini foniche che i grammatici poi classificano con tal nome), egli deve esprimersi con quei suoni. E, secondo le necessità della sua visione, si esprimerà in dialetto, in dialetto misto di lingua, in una lingua di sua particolare formazione: poteva Teofilo Folengo far di meno di adoperare il maccheronico di Merlin Cocai? Egli sentiva maccheronicamente, il suo mondo era maccheronico, e però verseggiava in maccheronico. Lingua artificiale? Forse pei grammatici; pel Folengo era naturale.
Per la stessa ragione non si può segnare una cerchia di soggetti, che sia propria della poesia dialettale. Non si possono determinare a priori le combinazioni e fusioni e perdite e risurrezioni e germinazioni d’immagini, onde il cosiddetto dialetto ora s’impoverisce ora s’arricchisce nelle anime degli artisti. Non vi ha legge: solo il fatto, qui, forma legge. E allorché sembra che il dialetto suoni male, si osservi meglio e si riconoscerà che la colpa non è della poesia dialettale, ma della poesia, senz’altro, che manca. Intendo la ripugnanza e la ribellione di molti spiriti aristocratici contro le volgarità, le stupidità, le sciatterie e le incoerenze, che pretendono legittimarsi sotto nome di poesia dialettale; e partecipo anch’io a quel disgusto. Ma non fa d’uopo per questo partire in guerra contro un fantasma, qual è il dialetto. Si critichi, caso per caso, ciò che è falso, erroneo o fiacco. E, senza ricorrere ad altri esempi, il Di Giacomo, particolarmente nella sua opera giovanile, ha alcuni sonetti in cui si sente lo sforzo, altri troppo fotografici; ha un poemetto (’O munasterio), che è stata la sua cosa più lodata e più fortunata, ma nel quale è troppo palese l’intenzione sentimentale, e che, insomma, è forse la sua poesia più debole. Ma, per censurare questi lavori scadenti, non c’è bisogno di pigliarsela con la poesia dialettale, o di affermare che il Di Giacomo ne ha violato le leggi. Basterà dire, come ho detto, che qui è sforzato, colà fotografico, in quest’altro caso troppo intenzionale e sentimentale.
Per la stessa ragione, cioè in ossequio alla libertà della poesia da ogni legge estrinseca ed astratta, io non ho trattato i poeti dialettali in gruppi, volendo, da mia parte, fuggire la più lontana parvenza che possa indurre nell’errore che un artista, invece di essere coltivatore della propria anima, sia coltivatore di un genere letterario. Del mio odio pei generi (che non credo ingiustificato, chi pensi ai pregiudizi che ancora mantengono nella critica) ho dato già troppi segni: non insisterò dunque: anche la “poesia dialettale” è stata intesa malamente come un “genere”. Perciò mi guarderei bene dal dividere i versi del Di Giacomo dalla restante sua opera, dalle novelle e schizzi e fantasie storiche, con cui fanno tutt’uno, per unirli, ad esempio, coi versi di Cesare Pascarella, che hanno quasi sempre ispirazione affatto diversa; e unirveli per questa poco solida ragione, che sono, gli uni e gli altri, scritti in “dialetto”.
Infine, non posso accettare la posizione del problema critico: se un poeta dialettale abbia o no esattamente riprodotto le condizioni sociali, i costumi, la psiche, il linguaggio di un determinato popolo. Si verrebbe, in questo modo, a confondere il poeta con lo storico o col sociologo. Nelle canzoni amorose di Salvatore Di Giacomo, parla lui, l’autore, con la sua cultura e le sue squisitezze di sentimento, o parla un giovinotto napoletano di plebe, un operaio, un cocchiere, un camorrista? Rispondono esse alla levatura d’animo di costoro? Non so, e non m’importa saperlo: sono voci umane, comunque si siano formate nell’animo dell’artista. Se mescolano al cosiddetto dialetto la cosiddetta lingua, se a scatti selvaggi raffinatezze di sentimento, il solo problema è di vedere dove quel miscuglio è fusione, e dove rimane artificioso. L’esattezza storica o sociologica sarà indagata e verificata e integrata da chi di quelle poesie vorrà valersi come di documenti storici per fermare le condizioni di una certa società e di un certo tempo: per l’arte tutto ciò è indifferente.
Ecco il mio credo, in fatto di poesia dialettale. E sono lieto di averlo recitato a proposito di un artista, che mi è caro per la schiettezza del suo temperamento e per l’intensità e la sobrietà della sua arte.
B. Croce, Salvatore Di Giacomo (1903), in Id., La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, vol. III, Bari, Laterza, 1929
Un po’ di rassegnazione religiosa e molta superstizione fatalistica, impulsiva tenerezza ed ira che divampa magari nella strage ma non ristagna in calcolati rancori, logica acutissima nel ragionamento ed istintiva incoerenza (a Napoli dicono scombinatorio) nell’azione, amore e miseria, canzoni delicate ed ingegnose bestemmie: ecco la ricetta con cui si compongono nove popolani di Napoli su dieci. E sono caratteri così netti e così distintivi, sono attributi così peculiari alla città, direi quasi al Comune, dentro la cinta daziaria, che Napoli è la sola città la quale possa gareggiar con Parigi nella sua capacità d’assorbimento. Il forestiero che vi dimora un anno, alla fine dell’anno è già bell’e falsificato. Quando un vero temperamento d’artista s’innamora di questa materia fusa, calda, omogenea, nascono dal suo amore cose di una schiettezza e di una violenza espressiva, davanti alle quali la massima parte delle altre produzioni vernacole impallidisce come un mazzo di fiori cartacei lasciato cadere sopra un prato di giugno. Due di tali temperamenti hanno già raggiunto la maturità: Salvatore di Giacomo e Ferdinando Russo. Ed altri due, che forse non son soli, vanno emergendo dalla folla dei più giovani: Ernesto Murolo e Libero Bovio. Dissimili in ogni cosa, sono fraterni in un carattere dell’arte loro: nella disinvoltura e nella sincerità con cui maneggiano il dialetto. L’orgoglio metropolitano di Napoli, capitale di un vasto regno per quasi un millennio, li scioglie da quell’imbarazzo in cui per solito si avviluppano i poeti dialettali (non veneziani, s’intende), i quali scrivendo in dialetto sembrano coscienti di coltivare un genere inferiore, e credono, solo perché non scrivono in italiano, di essere buffi, e praticano perciò una specie di umorismo forzoso.
Salvatore di Giacomo è già investito dalla luce, che la sua testa bianca di precoce argento aspettava con un’ironica e paziente persuasione dell’opera compiuta. Quest’opera dovrebbe intitolarsi tutta quanta Napoli, come Napoli ha nome il bel volume di figure e di paesi. Napoli è nelle canzoni, Napoli è nel teatro, ora umoristica, ora tragica, ora sentimentale, ora amara, secondo la natura dell’ispirazione e non secondo la particolare estetica dell’arte dialettale. Egli non scrive in vernacolo, ma in lingua napoletana, d’una dovizia, d’una mobilità, di un flutto espressivo che quasi non ha pari. E, trovati i suoi personaggi, egli non ci si trastulla come i poeti vernacoli, secondo i quali l’umanità provinciale è per definizione un’umanità tutta da ridere; e nemmeno ci s’appesantisce sopra. Di Giacomo non rivaleggia con Massimo Gorki, e non s’impanca a redentore delle plebi. La sua plebe gli piace così com’è. La conosce e la plasma, con un sorriso divinamente equanime, nella materia cedevole dell’arte sua.
G.A. Borgese, Il teatro di Salvatore di Giacomo (1910), in La vita e il libro, Prima serie, Bologna, N. Zanichelli, 1923
Sotto lo speciale riguardo storico, vagliati i precedenti, Salvatore Di Giacomo non è una di quelle cospicue personalità conclusive, ricapitolatrici, che riassumono un periodo rivelandolo; egli è, viceversa, un grandissimo iniziatore. Sotto l’aspetto artistico, attese alcune note comuni a tutti gli altri poeti in dialetto, egli non è un poeta dialettale. E tuttavia, osservate, il dialetto gli è intrinseco ad un grado, in cui non è stato mai ai poeti dialettali di Napoli. Ed io voglio asserire qui, con tutta la forza di cui sono capace, una verità: il dialetto napoletano poetico è un’irradiazione della personalità di Salvatore Di Giacomo, e non altro. Non “genere” cui altri possano ascriversi; non bandiera, sotto cui altri possano militare. Possono, sì: ma a patto di rinunziare al loro pieno me e d’assumere la qualifica di “digiacomidi”. Possono, ma, bàdino, con Di Giacomo liberatore di se stesso dalla letteratura “in lingua” comincia ormai un’altra letteratura: appunto, la dialettale. Ad un tesoro di sentimenti e di pensieri egli ha ormai data un’impronta espressiva che per i successori ne fa delle formule. Di nuovo, dopo di lui, la preoccupazione lessicale e fraseologica invade una schiera di giovani che non ho difficoltà a definire non solo intelligentissimi ma ricchi, taluni, di vera stoffa artistica; senonché, più gravemente adesso che c’è ormai, dinanzi, qualcuno. E la preoccupazione finisce per produrre il lavoro d’intarsio, troppo dialettale, addensatamente dialettale, assolutamente antipoetico. Poeti nuovi del vernacolo napoletano, in guardia dal poderoso tiranno!
F. Gaeta, Studio sul Di Giacomo (1911), in Id., Prose, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1928
Dove la poesia digiacomiana manifesta la prima volta coordinate e compatte tutte le sue migliori qualità è in Canzone e in Canzone nove. Qui si chiarisce meglio e definitivamente la sua visione dolorosa del mondo, una certa tristezza amara e pure contenuta, come è di tutte le grandi coscienze, che pur nel dolore più alto e universo si compongono una veste di fermezza quasi opaca, sotto cui la poesia non si palesa se non a uno spirito esercitato. Visione dolorosa e tristezza che derivano da una consapevolezza assoluta che tutto passa, che tutto muore e si scorda. Ma il Di Giacomo ha sentito questo problema in un modo suo particolarissimo, e con uno struggimento penoso e accorato. Nessuno fino ad ora può realmente più del Di Giacomo chiamarsi il poeta dell’amore. Egli ne è tutto imbevuto; è penetrato nel segreto di mille cuori, ha rappresentato la vicenda di mille dolori, ha scoperto a tutti la sola, inamabile fine: tutto si scorda. Amori d’ogni genere: violenti o appassionati, languidi o perdutamente selvaggi, amori di avventura e amori sentiti con cupezza barbara: tutto si scorda. C’è nell’anima nostra qualche cosa di ostile che repugna all’amore, qualche cosa di irriducibile che non s’imbeve di nulla, non cede a nulla, rimane inerte a tutto, non si piega, non si flette, non si doma. Niente mai lo scalda, nemmeno la passione più cocente, neppure lo struggimento più radicale. C’è nell’anima nostra una parte d’indifferenza cinica a tutto che scaccia tutto da sé, i sentimenti più belli e più forti che tutta quanta l’altra parte di noi, anima e corpo, reclama e vuole per sé, ma che la parte più piccola vince; vince questa nativa indifferenza che assume tutte le forme: l’odio, il dispetto, la vendetta, la crudeltà, il sarcasmo, l’ironia. Rimane estranea al resto, forma il più aperto contrasto in noi, nel nostro spirito, nella povera anima nostra malata e insonne, che non sa riposare e dormire, e non vuole, perché ha paura del suo nemico che tende agguati, e ci assale inaspettatamente, del suo nemico che porta in sé e che non riesce a scacciare, ad abbattere, a vincere – lui che è così piccolo, e quasi non si mostra, ma lima e corrode ogni nostra cosa migliore. Ognuno vede la novità che può derivare da questa concezione: ma non può immaginare quanti effetti abbia saputo trame il Di Giacomo. Non è l’analisi e la rappresentazione di un unico amore, che a volte, come è nel Petrarca, può generare monotonia, e stanca per l’insistenza verso e sopra un unico termine. Comunque si faccia è sempre qualche cosa di troppo particolare, e non si può risalire a una concezione universa della vita se non con uno sforzo, e aiutandosi con elementi estranei alla poesia e più vicini alla speculazione. E poi, appunto queste considerazioni d’indole più generale e alta sono qualche cosa di troppo pensato, e non risultano dalla poesia naturalmente, posta in sé, con la sua varietà di sentimenti e di vicende e di fatti, da cui voi possiate togliere la risoluzione di un problema più vasto quasi per suggerimento, e non per troppo definita determinazione espressiva. Il Leopardi che pure era giunto a una concezione universale delle cose era stato portato da una molteplicità di sentimenti particolari, dai quali derivava, e non poteva essere altrimenti, la conseguente sua triste verità. Il Di Giacomo risente nella sua anima molteplice mille amori e mille dolori, patisce egli stesso davanti a questo tragico precipitare verso la comune fine che è l’immancabile oblio, l’inevitabile morte. Non siamo già noi, non è solo la nostra perfidia, non vogliamo noi dimenticare: è qualche cosa che ci costringe e ci pesa nell’anima, è come un destino contro cui è vano lottare, e che tormenta gli uomini dal giorno che nacquero. Perché, dopo tutto, che cosa affligge e fa spasimare e sbatte la nostra vita se non l’amore? Che cosa corrode e sfascia la nostra quiete se non questo non potere né sapere dimenticare presso un cuore amico la miseria che ci circonda? Che cosa sono gli uomini se non i cercatori eterni, quelli che sempre vollero e mai non seppero risolvere il problema dell’amore? Salvatore Di Giacomo s’è fatto voce di questa verità, di questo senso doloroso; e non volontariamente. L’osservazione della realtà l’ha portato a una simile conclusione. Egli è l’indice e quasi il testimonio di questa necessità; egli sta contro agli uomini con questa sua amara consapevolezza: di qui il dissidio. E la novità è che il poeta non è estraneo: egli stesso ne patisce e se ne macera il cuore. Da una tale concezione si capisce facilmente che cosa dev’essere la sua poesia, tutta calata nella vita e purificata dalle sue mani. Era naturale che non potesse derivarne altro che un dramma, inteso nel senso più vero e alto della parola: cozzo di due volontà o di due sentimenti contrari, odii, tradimenti, vendette. V’è una folla a dirittura di personaggi nel suo volume di versi; e il poeta riesce a caratterizzarli in un modo e con una rapidità inaudita. Ma quel che più interessa qui, e genera la novità di questa poesia grande, non è tanto il dissidio che si acuisce volta a volta tra le persone del dramma: c’è, sotto, la coscienza del poeta la quale crea a tutto una risonanza infinita; la coscienza cioè fatta certezza che è vano piangere e spasimare: e che tutto passa. E non è per nostro volere, ma perché così deve andare e non può essere diversamente. C’è sotto dunque un’amarezza e insieme una dolcezza rassegnata che è la sostanza stessa dell’eterno. Non si tratta qui di una concezione della vita tutta personale, risultato di una malattia dell’anima, o di contingenze varie che hanno torturato il nostro spirito portandolo a una simile conchiusione. Non è un indurre da una singola evenienza, da un fatto isolato, da un dolore al quale noi soli fummo sottoposti, un dolore universale; non è un progredire di tono e di ampiezza per tutta una forza nostra interiore a cui il pensiero, come tale, non è mai estraneo; ma una deduzione effettiva da mille amori rappresentati e realmente espressi che finiscono tutti e di cui non si ha che il ricordo. Il poeta vi getta davanti con apparente trascuratezza tutti gli elementi da cui la conseguenza è facilmente desumibile. Cosicché questa poesia che pure è eminentemente subbiettiva come tutta la vera grande poesia, ha valore e qualità obbiettive, e una vastità di concezione tale che l’orma dell’artefice si annulla, perché rimanga una e presente e immancabile la natura con tutto quello che ha di mistero e d’infinito. […]
Contemplazioni sono gran parte di Ariette e sunette e di Vierze nuove, perché non tanto la realtà dà la materia e lo sviluppo ai varii motivi, quanto appena la mossa del canto che poi si continuerà per via di ricordo e d’immaginazione che un senso profondo di dolore riesce a fecondare. Vogliam dire che questa poesia dell’età più matura non deriva da un semplice naturalismo obbiettivo; ma l’irrequietudine del poeta fa sì che dalle poche impressioni delle cose circostanti sia capace di trovar modo di riversare in forma quasi eterea il suo insonne cruccio. Di qui un’espressione purissima e immediata, di qui un sentimento della natura vivissimo che il poeta prova in una maniera perfetta e tutta sua particolare: come cioè un effettivo compimento del dissidio che gli morde il cuore e lo fa spasimare. E siccome nella natura trova una corrispondenza infinita, e la sua anima sente ridestarsi contemplandola un’eco multipla e lontana di voci ignote, di sospiri e di fremiti, e riprodursi un’armonia in cui la stessa imprecisione ne cresce il mistero, egli s’è creata un’attitudine quasi ingenua, una posizione stupefatta, e si abbandona e ci si culla, e se ne fa una ragione di bellezza. […]
Con una simile capacità di sentire e di dire, era naturale che ne conseguisse una poesia piena di risonanze, ricca di armonia; e che anche nei tratti discorsivi o rappresentativi riuscisse a una concisione quasi formidabile e tale da ricordare in alcuni scorci il divino Dante. Concisione e rapidità con tutti gli elementi essenziali i quali vengono ad essere messi insieme per successione o per via di contrasto, e sempre in modo che ogni parola e ogni verso ne sottintenda infiniti altri. E bisogna vedere come spesso egli fa la storia d’un povero dolore umano, o d’una tragica vicenda: quasi con trascuratezza. Vi getta davanti i soli elementi essenziali, pochi accenni; il resto bisogna intenderlo. In questo senso Irma è un esempio perfetto; e mille altri se ne potrebbero addurre e analizzare, ma il limite breve del nostro studio non lo comporta. Certo si è che il Di Giacomo qui tocca i culmini della sua arte; e vi giunge guidato da un sentimento profondo della vita e da una ricchezza interiore e una dirittura spaventosa. Quando sbarra gli occhi sul mistero gli si empiono di luce; ma pare che questo poeta che in ogni sua concezione sente formarsi dentro sempre un mondo di cose nuove e profonde, e organizzarsi in una maniera lucida e serrata, abbia poi quasi pudore di dir tutto, e tutto il suo studio metta a ridurre quello che la fantasia e il sentimento vorrebbero dettargli. Del resto l’amarezza del suo dolore gli vieta di uscire troppo fuori di sé, e esplicarsi con libera gioia; e se in ogni sua poesia c’è costantemente una mossa drammatica irresoluta, appunto perché non riesce mai a comporsi e definirsi, essa crea un dissidio continuo e innalza il tono della poesia stessa. Ma l’anima ne patisce, sicché a un certo momento egli vorrebbe abbandonarsi a un completo oblio e tutto dimenticare. Non saper nulla di quel che accade dentro e fuori di lui, non amare più, non patire più, non piangere più. A questo cresciuto e intensificato dolore risale anche un modo più profondo di sentire la natura che oltre a creare una rispondenza e, a volte, un placamento alla sua tristezza, riesce a una fusione perfetta con tutto quello che dalla vita è tolto a materia di poesia. E non solo con i fatti della vita, ma anche con i ricordi d’un tempo passato da cui, sotto la pacatezza d’una rassegnazione abituale, il dolore s’ingigantisce smisuratamente. Allora risalta con più fermezza quella natura del Di Giacomo che è di contemplatore; allora fantasia e sentimento raggiungono un’altezza e una intonazione impensata.
Da una poesia così straordinariamente complessa e drammatica, fuori di ogni artificio stilistico e di ogni formola, era naturale che un giorno o l’altro derivasse realmente e concretamente il dramma. Poiché, in altro modo, maraviglierebbe questa concomitanza strana e pure perfetta ed effettiva di lirica e di tragedia; e l’avvento al capolavoro nell’una e nell’altra specie, nonché in alcune sue novelle che certo non morranno. Ma di queste relazioni che poggiano tutte sulla natura dell’anima del Di Giacomo, e valgono a mettere in piena luce il temperamento di questo poeta eccezionale, non si può qui particolarmente discorrere. Noi abbiamo voluto semplicemente definire l’essenza della sua poesia della quale il teatro non è che la naturale e immediata conseguenza, la conclusione d’un dramma ancora più profondo che il poeta sofferse in sé – bagliori di un gran fuoco chiuso e costretto, che per essere stato sempre regolato da una mano potente, è poi riuscito ad altezze vertiginose. Sicché questo poeta può realmente considerarsi un maestro e un superstite di quella famiglia di spiriti grandi che non sono più – miracolo di sincerità irripetuto negli ultimi tempi di cui poco risente l’influenza e il contagio, non appartenendo egli con tutta la sua opera a nessuna epoca, per la sola ragione che è di tutte le epoche. Salvatore Di Giacomo deve la sua grandezza più che solitaria al suo sentimento schietto e a una visione del mondo profondamente vissuta e sentita: e oggi che c’è tanta volontà e anche tanta capacità di poesia lirica libera e sincera, sebbene ancora imprecisa e indefinita con fuorviamenti dannosi e in una forma troppo spezzata e frantumata, e anche così contraria alla nostra grande tradizione e alla nostra razza, egli può segnare nei suoi modi di espressione così sicuri e conclusivi, e nella sentimentalità innata e perfetta il punto d’attacco per l’arte a venire, che non può essere se non una risultanza del nostro divino patrimonio poetico – chiara nel più cupo dolore, concisa nel più sublime volo, chiusa e ferma nelle fantasie più mobili ed eteree. G. De Robertis, Salvatore Di Giacomo (1912), in Id., Scritti vociani, a cura di E. Falqui, Firenze, Le Monnier, 1967
Sa che [Salvatore Di Giacomo] è un tema da far un po’ di paura? Io non vorrei cominciare con uno come quello là, artista schietto, capace nella vivacità della sua natura di tutte le sorprese e magari di tutte le malizie – uno di quelli che io non mi arrischio di giudicare, perché ho sempre paura che una piccola cosa mi sfugga; e quella piccola cosa può bastare a farmi fare una risata sul viso: s’intende, finché resto lontano: perché se gli arrivo a parlare, non c’è uomo che mi turbi più. Non riuscirò a penetrarlo e a comprenderlo intero; ma ho la certezza di essere andato dentro quanto la mia vista poteva; e mi basta. Invece, a giudicar così solo dal libro, Di Giacomo mi turba molto più di un Carducci o di un D’Annunzio.
Dico oggi, finché Di Giacomo è vivo e relativamente giovane; finché è una possibilità di altri libri, accanto a quelli che ho fra le mani: perché io son convinto che fra i momenti successivi di un uomo non c’è un vincolo logico assoluto. Avere inteso intimamente e perfettamente il mondo spirituale della Vita nuova, poniamo, non significa affatto intraveder la Commedia (per una parte, sì: ma sarebbe troppo lungo distinguere).
In realtà poi, quasi sempre, ogni uomo si ferma presto in un punto, e poi seguita fino alla fine a elaborare e sviluppare quello: e questa è l’unità delle carriere letterarie, che di solito son lo sfruttamento di una sola fra tante idee, liriche o logiche, capitate a vent’anni. E la letteratura molte volte è logica, compatta, intorno a un centro solo: mentre la vita ha tutti i centri e nessuno.
Intanto, pochi giorni fa dovetti formulare alcune impressioni sul Di Giacomo per quel libretto1, al primo paragrafo del capitolo “versi”; e non ne sono rimasto punto contento. Si figuri: dover fare delle informazioni sommarie e categoriche su un soggetto che mi lascia così spesso sospeso (sono arrivato qualche volta al punto, per liberarmi da ogni inquietudine, di giudicare che in Di Giacomo non ci dev’esser niente, tutta illusione nostra, un’acqua chiara che può rifletter ogni cosa, ma per sé non ne contiene).
Lasciamo stare. Lei leggerà presto anche queste paginette. Ma tarderò ad assumermi un altro obbligo di quel genere. Io non son fatto per far dei resoconti. Ho bisogno di confessarmi, per trovare in fondo ai particolari vani qualche cosa seria e certa. Ma bisogna ch’io vada in fondo; ch’io mi liberi di tutto, ricordi, dubbi, simpatie e antipatie, inquietudini e soddisfazioni: esauriti tutti gli episodi, ho qualche speranza di fermare un poco di ciò che è intimo ed essenziale.
R. Serra, A Giuseppe De Robertis (Cesena, 7 aprile 1914), in Id., Epistolario (1934), a cura di L. Ambrosini, G. De Robertis, A. Grilli, Firenze, Le Monnier, 1953
Dov’è Salvatore Di Giacomo? Dicono che egli abbia seguitato a creare poesia anche in questi anni; dopo l’edizione compiuta di Ricciardi scrive delle canzoni per un trust tedesco di dischi grammofonici, mi pare; dodici l’anno: bellissime, dicono. Ma noi non ne sappiamo nulla. Qualche cosa che è venuta fuori sui giornali di Napoli e di Roma non era molto bella, e non aveva niente di nuovo. Quel che ci appare di lui è una operosità letteraria, che non interessa direttamente la poesia: lavora per il teatro, promette una ristampa delle sue novelle, scrive dei saggi di erudizione varia, massime napoletana e settecentesca.
Lasciamo stare le novelle, a cui egli stesso vuol dare solo l’importanza di un documento; e, per quel che ricordiamo, il documento sarà prezioso, non solo per la vivacità pittoresca profonda di certe pagine e per il rilievo più compiuto che renderà alla fisonomia giovanile dell’artista in formazione; ma anche per il ricordo di un momento letterario abbastanza curioso in Napoli, tutto pieno di letture e di cultura francese, da Maupassant a France; ne son derivate certe qualità del giornalismo napoletano che meritano almeno un po’ di osservazione, se si pensa che hanno avuto qualche efficacia perfino su D’Annunzio, e che di lì viene, per non parlar di nessun altro, Bergeret.
In quanto all’erudizione, tutti sanno che valore abbia per Di Giacomo; è un poco una mania, un passatempo forse necessario all’artista, che si riposa in quelle minuzie e pare che si diverta, aspettando le visite della poesia.
Così si è occupato e si occupa delle canzoni d’una volta, della storia dei teatri e dei musici e degli attori napoletani, di Casanova e della sua fuga e dei suoi soggiorni in Napoli, di tante altre cose rare e svariate, con una grande serietà, un po’ ingenua per la mancanza quasi completa di spirito critico e di metodo erudito, un po’ arruffata e pur piacevole nei suoi episodi; che sono, accanto ai documenti e alle discussioni storiche, dei quadretti di genere deliziosi, delle ricostruzioni di vestiti e di luoghi, di conversazioni e di lettere, piene di fantasia impreveduta e di sapore autentico; questo è scritto con quella prosa singolare, alquanto incerta, confusa di colori e ritocchi moltiplicati, talora semplice e talora pretenziosa, non priva di errori e di stonature, che prendono a quando a quando un valore così profondo di passione e di evidenza. È il poeta che si fa sentire attraverso l’erudito; e una parola gli basta a dar la realtà alle sue fantasie e la musica ai suoi sospiri.
Poiché Di Giacomo, sarebbe inutile e pur fa piacere ripeterlo, è un poeta vero. Di cui è difficile misurare la grandezza e definire il carattere appunto per questo, che il dono della poesia è puro in lui, è musica schietta.
La materia dei suoi versi pare semplice, quasi mediocre: sono bozzetti di genere, scene drammatiche e canzoni per musica: ciò non esce dalle tradizioni consuete della poesia dialettale, e pare che non abbia, nell’intendimento dell’artista, altra pretesa che un certo realismo, pittoresco e commovente, nei sonetti, e il solito sentimento e la solita melodia napoletana nelle canzoni. La nota più squisita è data da un gusto di evocazioni del passato, da un po’ di nostalgia settecentesca; e nelle cose ultime c’è anche qualche novità di analisi personale. Non è molto tuttavia per noi che siamo avvezzi alle preziosità di cultura e alle sottigliezze di psicologia e di suggestione nella poesia moderna, fra Baudelaire e D’Annunzio. Di Giacomo dovrebbe esser classificato, a questi paragoni, come un buon poeta di provincia, sentimentale e modesto.
Invece egli è qualche cosa di unico. Poche parole cadute dalle sue labbra bastano a creare l’impressione della vita, piena e trasparente; e l’aria circola e lo spazio è aperto e gli uomini e le cose si vedono e si sentono fra sillaba e sillaba di una strofetta breve. La scena che egli dipinge è quella e non si confonde con nessun’altra in tutto il mondo: il paese, l’ora, la passione di quell’uomo e di quella donna esistono per un incanto semplice e intero, che non si può scordare. Si direbbe che in mezzo a un numero infinito di parole egli abbia scelto con una sicurezza istintiva quelle sole che convenivano; e le lascia cadere una accanto all’altra, e tutto è compiuto. «Maggio. ’Na tavernella…» Non c’è bisogno di più.
E tutti i luoghi comuni della luna e della marina e della primavera, della gelosia e dell’amore, tutte le banalità e le moralità più trite di ciò che sempre passa e sempre ritorna, acquistano una freschezza improvvisa e deliziosa, un interesse non conosciuto mai.
Ogni accento può esser nuovo in lui; perché il suo lirismo è qualche cosa di immediato, senza analisi, è una dolcezza strana che scoppia dalle sillabe e fa qualche volta di ogni parola un’invenzione e una sorpresa. Che ci turba; come quelle cosette lievi possono aver tanta forza, come in quell’acqua chiara e superficiale può esser a un tratto tanto cielo e dolcezza e cupo, quasi senza che egli lo sappia?
I suoi principii e le sue pause, le rime e i ritornelli, le strappate e le allegrezze così come gli abbandoni e i prolungamenti del verso, hanno un valore musicale, che qualche volta è tenue e qualche altra volta è profondo; ma è sempre schietto. E questo è il dono che fa di lui l’uguale in certi momenti dei più grandi poeti; un classico, nel senso più esatto del vocabolo. Ci sono delle strofe, dei gruppi di versi che si staccano dal suo volume e restano sospesi nella nostra memoria, come cosa che non appartiene a nessuno; cosa pura e che vive per sé; passione e canto in poche parole indifferenti. Non ne sapremmo rappresentare l’impressione se non ricordando quei frammenti di melica greca, in cui è solo un principio, un accento; tanto semplice che ci fa dubitare di un’illusione, e ci costringe a dirlo e a ridirlo, per essere sicuri della forza che è dentro e che mai non si vuota.
Si pensa qualche volta che se il tempo e il caso potessero d’un tratto devastare e annullare nell’opera del Di Giacomo tutta la parte mediocre e di passaggio, quella in cui la sua ispirazione si riposa o si prepara soltanto, fra le allegorie e le banalità e il pittoresco e il sentimentale, sì che ne restassero qua e là pochi accenti soli, sospiri e gridi e baci (il principio di un bozzetto, l’interruzione di una serenata, la ripresa di una tarantella; un verso, «addurava de rose a ciente passe…», un singhiozzo, un raggio di luna…), ci verrebbe voglia di prendere queste cose e di metterle accanto a certi frammenti di Saffo.
Di Giacomo ha i capelli d’argento; ma il viso e la voce è giovane. Oggi lavora per il teatro e per il cinematografo. Che cosa farà domani? Ci deve essere ancora tanta poesia nel suo cuore!
R. Serra, Le lettere (1914). Introduzione, revisione testuale e commento a cura di U. Pirotti, Ravenna, Longo, 1989
Benedetto Croce fa una prefazione a questa ristampa [S. Di Giacomo, Novelle napolitane, Treves, 1914], ancora una volta confermando al Di Giacomo la sua ben nota totale ammirazione. E par che sia anzitutto ammirazione di napoletano per uno che gli dipinge Napoli, o la vita, la sentimentalità napoletana com’era, come nel popolo è, e come gli piace che sia. Ma che credo che il lettore disinteressato non possa scorgere in questo volume molto più di un documento marginale, specie di commento in lingua italiana o di prosastico diversivo a quella dialettale attività poetica che è appunto merito del Croce e poi del Gaeta l’averci fatta riconoscere sinceramente viva e, nella nostra letteratura, proprio dico nel corso officiale della nostra letteratura, importante. Mi compiaccio in altri termini di queste novelle eruditamente, non perché mi portino una voce nuova e mi nutrano.
G. Boine, Plausi e botte (1914), in Id., Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano, Garzanti, 1983
Con maggior libertà e agilità il lirico napoletano Salvatore Di Giacomo sa congiungere il senso d’osservazione per la miseria dei più luridi vicoli della sua città con una tendenza al soprannaturale e al fantastico. Ora con la comicità dell’humor, ora con la più tenera sentimentalità, egli armonizza i contrasti della sua arte: la grigia vita quotidiana con la favola color di cielo. Di Giacomo è un romantico afferrato dal verismo; ma nella naturale confidenzialità napoletana egli ritrova l’equilibrio. Perciò la lingua della sua poesia è il dialetto di Napoli. In esso canta, può dirsi proprio direttamente, la voce del popolo. Molte delle sue canzoni musicate da suoi amici e conoscenti son diventate patrimonio popolare, ed echeggiano per le vie della sua città natia. Chi a Napoli, anzi in tutta Italia, non conosce la dolce, armoniosa canzone del pescatore che nella notte di luna si dondola sul tepido mare nella sua barca, sonnecchiando e sognando l’amore?: «La luna nova ncopp’a lu mare/ stenne na fascia d’argiento fino;/ dint’a la varca nu marenare / quase s’addorme c“a rezza nzino…», o la serenata A Marechiare?: «Quanno sponta la luna a Marechiare/ pure li pisce nce fanno all’ammore,/ se revoteno ll’onne de lu mare,/ pe la priezza cagneno culore,/ quanno sponta la luna a Marechiare…».
C. Vossler, Letteratura italiana contemporanea. Dal Romanticismo al Futurismo, Napoli, R. Ricciardi, 1916
Ma è poi vero, come anche è stato detto, che questa poesia sta tutta in un piano, senza progresso, senza una storia o dialettica?
Chi rilegge ora le poesie vecchie, e via via le nuove e recenti, come si ordinano nella nuova bella edizione del Ricciardi, si avvede presto che questo non è vero. Passati gli anni, caduta la giovinezza, egli ha lasciato che con lei cadessero anche alcuni dei colori più vivi e dei suoni più squillanti; ma in compenso ora guarda le stesse cose con occhio più fermo, e si fa più leggero, essenziale, nel ritrarle. Insomma, Di Giacomo sa invecchiare (che è cosa difficile sempre a tutti gli uomini, nonché ai poeti).
Vedetelo nell’ultimo gruppo del volume, Ariette e canzone nove. Il particolare colore o velo di un frutto ora gli basta a riassumere una stagione: «quanno cu ll’uva fravula/ veco trasì l’autunno…».
L’arte di godere le stagioni e i tempi, che fu sempre tanta parte della sua poesia, ora gli si raffina (il Magalotti direbbe) in sulla delicatezza; non gli giovano più le belle stagioni piene o colanti, ma piuttosto le sfuggevoli stagioni colte ai primi avvisi, oppure presentite o rimpiante l’una dentro l’altra. Più bella dell’estate, è ora l’estate di San Martino. Ecco un autunno già avvertito alla prim’acqua di agosto: «Stamme’int’ aùsto e chiove,/ nun pare cchiù ’a staggione:/ ma nun me fa mpressione,/ anze mme piace.// Mme piace st’ aria fresca/ ca p’ ’a fenesta trase,/ e ca mme pare quase/ aria ’e Il’ autunno.// Mme piace si p’ ’a strata/ addò nun passa gente,/ io sento sulamente/ parlà ddoie voce…// Malincunia, tu, forse/ tu, mme l’ ’e’ fatta amà!…/ E tu resuscità,/ tu ’a faie, stasera…».
Quanto siamo lontani dai cantanti paesi d’un tempo! In questo paesaggio tutto d’anima, si sono smorzati i colori, s’è perduta anche qualche rima, ma le parole si sono fatte più interne, più casti i suoni.
Anche quel giuoco metrico di fratture ed emistichi, il digiacomiano “settecento”, ch’era tutto e soltanto musicale, ora spesso s’insapora in una mente più pensosa e talvolta ammonisce, arieggia l’epigramma. Le donne? L’amore? «Vuo’ sèntere?/ E siente/ nu buono conziglio./ Contentete ’e nun sapé/ niente… »
Certe deduzioni dall’esperienza e moralità della vita, ora il poeta le atteggia e ripete a se stesso come favolette: «’E llacreme d’ammore/ so’ ddoce pe chi ’e chiagne./ Ammore è nu dulore/ ca, quanto più se lagne/ chi ’o prova, cchiù è felice.// E ’o ssape – e nun ’o ddice.// Nun t’avantà, si asciutte/ tènere st’ uocchie saie!/ D’ ’o ffuoco c’ arde a tutte/ tu pure abbambarraie!/ Tu, ca nun si felice.// E ’o ssaie – ma nun ’o ddice».
E una di queste ultime poesie di Di Giacomo, dove la stagione più persuade l’anima a soffrire e consolarsi di sé, mi pare stia tra le più belle poesie sue d’ogni tempo: il poemetto dell’Arillo animaluccio cantatore.
È una di quelle suggestive poesie che, già prima di cantare, hanno intorno a sé un alone di canto; e cominciano, si direbbe, prima del loro principio. Una sera di settembre, sera di nuvole e di luna, il poeta va solo per una remota strada solitaria. È già assorto e immalinconito nei suoi scontenti pensieri, quando avverte a un tratto, zicrì zicrì, il ripetuto verso di un grillo. Il richiamo insiste, e il poeta si ferma, lì per lì curioso soltanto di scoprire dove l’animaluccio si nasconda; ma intanto nell’animo disposto egli accoglie quella voce solitaria e le risponde: «Arillo, animaluccio cantatore/ zerri-zerre d’ ’a sera/ ca nun te stracque maie,/ addó te si’ annascosto?/ ’A dó cante! Addó staie?…/ Passo – e te sento./ E me fermo a sentì…/ Zicrì! zicrì!/ Zicrì! zicrì!/ Zicrì!…/ E me pare ca staie/ (mmiez’ a ll’ èvera nfosa)/ sott’ a sta funtanella, / e ’int’ a stu ciardeniello/ ummedo e scuro/ d’ ’o llario d’ ’o Castello…// E cammino… E mme pare/ ca no: ca staie ntanato/ dint’ ’a nu pertusillo/ ’e nu spicolo’e muro…/ O, chi sa, si’ sagliuto/ ncopp’a na petturata’e na fenesta,/ e te si’ annascunnuto/ mmiez’ a na testa ’a ruta// e n’ata testa…»
Al principio della poesia, in quei due interrogativi si direbbe troppo grandi o troppo distesi (’a dó cante? Addó staíe?) per un’occasione tanto umile, hai sentito ancora un’eco di quella ch’era la preesistente e vaga malinconia dell’uomo. Poi il richiamo dell’arillo insiste, e l’animo di lui, improvvisamente distratto, cambia: e va dietro quella voce, come se fosse soltanto punto dalla curiosità di sapere dove mai l’animaletto si nasconda, (sotto la fontanella, nell’erba umida del prato? O in un cretto allo spigolo del muro? Oppure tra due vasi di ruta sul davanzale d’una finestra?); ma in realtà l’uomo s’è rivolto tutto a quel punto, con la improvvisa premura di chi voglia preoccuparsi di cosa leggera per dimenticarne una grave. Fin qui, la poesia che si annunciò accorata, è poi proceduta vaga e come dispersa o distratta da quella curiosità.
Qui una lunga pausa. Dal davanzale della finestra dove il grillo potrebbe nascondersi, l’occhio e l’animo del poeta salgono ora al cielo notturno, alla luna nubila di settembre, e le cose terrestri fin qui soltanto accennate e punteggiate (la sera umida, la fontanella, il giardinetto scuro, il muro, la finestra, e sempre l’incessante canto del grillo) soltanto ora, sotto quella luce e quel cielo, entrano tutte e si rovesciano in un disteso canto. La poesia ritrova il suo accordo maggiore; e risponde ora a quegli interrogativi iniziali che, col loro suono, domandavano più che non chiedessero le parole. «Sera ’e settembre – luna settembrina,/ ca ’int ’e nnuvole nere/ t’arravuoglie e te sbruoglie,/ e ’a parte d’ ’a marina/ mo faie luce e mo no-/ silenzio ’nfuso/ quase ’a ll’ummedità-/ strata addurmuta,/ (ca cchiù scura e sulagna/ quase s’è fatta mo,/ e ca sento addurà/ comm’addorano ’e sera/ cierti strate ’e campagna) / arillo,/ ca stu strillo/ mme faie dint’ ’o silenzio / n’ ata vota sentì…/ Zicrì! zicrì!/ Zicrì!/ accumpagnate ’a casa/ stu pover’ ommo/ stu core cunfuso/ sti penziere scuntente,/ e st’ anema ca sente/ cadé ncopp’ a stu munno/ n’ ata malincunia -/ chesta ’e ll’ autunno… »
«Sera ’e settembre… – arillo»; tra queste due voci s’è aperto in armonico abbandono l’arco della bella poesia. Dove, nella musicale (e talvolta asintattica) rapidità dei legami, tutto si tiene e si continua, l’una cosa è poeticamente nell’altra, (silenzio ’nfusol quase ’a ll’ummedità); e l’arillo che prima fu soltanto un richiamo vago, ritorna con la stessa ma diversa voce, a riassumere e a dare lui l’ultimo suono alla sua poesia.
Nel finale così improvvisamente diverso (accumpagnate’a casa…) il poeta scopre a sé e a noi qual era stato il suo primo e vago cruccio in quella sera di settembre: soltanto un presentimento dell’imminente autunno, un’altra malinconia ncopp’a stu munno. E con quelle più accorate e pesanti parole (stu pover’ommo,/ stu core cunfuso,l sti penziere scuntente) quasi ci si consegna umile e disarmato: sensuale creatura che sa godere di tutto (anche del richiamo di un grillo), ma per poi di tutto soffrire. Quanto Di Giacomo, e del più caro Di Giacomo, c’è nel breve poemetto del Grillo cantatore!
P. Pancrazi, Rileggendo Salvatore Di Giacomo (1927), in Id., Scrittori d’oggi. Serie prima, Bari, Laterza, 1946
L’essenziale della letteratura napoletana sta nelle canzoni. Ogni anno, l’8 settembre, giorno del compleanno della Vergine, hanno luogo le grandi feste di Piedigrotta: cavalcate, balli, e soprattutto concorsi di canzoni. Le opere vincitrici costituiscono, nei mesi seguenti, la base del repertorio della strada e dei caffè-concerto.
La canzone napoletana, trasformata in industria, qualche anno prima della guerra, da aziende editoriali tedesche, è attualmente in una fase di decadenza. Tuttavia alcuni poeti veri continuano a scrivere versi per i musicisti di Piedigrotta. Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo sono i due “parolieri” più celebri di Napoli.
Oltre ad innumerevoli canzoni, Salvatore Di Giacomo ha scritto sonetti, novelle, drammi e studi storici su Napoli. Duplice è la sua ispirazione poetica: talvolta, del tutto sentimentale, fa pensare ad un Verlaine di provincia; talaltra, pittoresco e verista, si avvicina a Pascarella, ma è molto più romantico e pronto alla commozione rispetto al romano: il suo concittadino Benedetto Croce l’ha consacrato grande poeta; di certo è un poeta vero.
Ciò che distingue la poesia napoletana da tutte le altre poesie dialettali è il posto che riserva al sentimento della natura e al sentimento tout court: il mare, le rive del golfo di Napoli, le montagne che gli fanno corona, il suo cielo, le vie del porto, i moli, Toledo e Santa Lucia, i suoi dintorni: Posillipo “odorosa”, Sorrento e i suoi giardini d’aranci; i monumenti: Castel dell’Ovo, la cattedrale; le notti di luna e di stelle non mancano mai in questa poesia e spesso ne costituiscono tutto l’argomento.
I luoghi comuni del mare e della notte, della gelosia e dell’amore acquistano in Di Giacomo, come ha sottolineato Renato Serra, una freschezza, un’“immediatezza” uniche. Una delle più belle serie di Salvatore Di Giacomo è ’O munasterio, storia di un amante tradito che si è fatto francescano e che, dal fondo del suo convento, ricorda Napoli e la gioventù: «Santa Lucia luntana e benedetta,/ è nu martirio si mme viene a mmente!/ Quanta suspire dint’a na varchetta,/ quanta guardate senza dirce niente!»
Davvero uno strano francescano! Ma la sua vicenda permette a Di Giacomo di mescolare al suo paganesimo un elemento cattolico e mistico, spagnolo quanto basta, sempre presente a Napoli. Il monaco muore di dolore pensando all’infedele. A allora il priore: « – Fratié, scavate ’o fuosso ’int’ ’o ciardino,/ fra Sarvatore l’atterrammo llà,/ na rosa pastenatece vicino,/ e maie nun ve scurdate ’e ll’adacquà…»
Salvatore Di Giacomo si è pure cimentato nei melodrammi brevi, ma non vi ha perseverato. Il teatro napoletano assomiglia molto al teatro romanesco per la violenza ed il verismo pittoresco dei soggetti.
Ferdinando Russo, oltre alle canzoni, resta soprattutto l’autore del Paradiso, che un poco ricorda, alla napoletana, quello del curato di Cucugnan.
B. Crémieux, Panorama de la littérature italienne contemporaine, Paris, Editions du Sagittaire (anciennes éditions KRA), 1928
Un acquazzone ha interrotto la nostra passeggiata, ci ha cacciati sotto il tendone di questo caffeuccio da sensali, e viene con due scrosci mutando il colore di Piazza del Mercato perché, bagnata, la pietra di piperno sul campanile del Carmine, sulle due fontane a obelisco, sulle case attorno, da bigia diventa nera come carbone, e il marmo diventa candido e lucido come raso. Nelle pozzanghere lungo i marciapiedi davanti ai banchi dei pescivendoli questo mezzo lutto del bianco e nero si riflette netto e sgargiante con un che d’allegro, insieme, e di solenne: i colori del pulcinella in scena e dello sciccoso in marsina. Salvatore Di Giacomo s’è ammutolito. Seduto di traverso sulla seggiola di ferro, un gomito sul tavolino, sfregando tra indice e pollice la sigaretta come se volesse vuotarla piuttosto che fumarla, il cappelluccio a fungo calcato a sinistra anche per mostrare il bel ciuffo da tanti anni canuto, Salvatore aggrotta gli occhi da mongolo e guarda immusonito la pioggia traditrice. Proprio a lui quella bella nuvola bianca doveva fare questo torto? «Ah, Maria! Comme va/ ca’e femmene, ca ’o sanno,/ ce vonno afforza fa’/ ’o male ca ce fanno?/ Comme va? Comme va?»
Alza dal vassoio di latta dipinta a fiorami il bicchiere della birra e ne sorbe sdegnoso un mezzo sorso. Sulla fronte del banco di marmo, di là dalla strada, sta inciso: “Vendita di pesci vivi. Giuseppe Esposito”. A giustificare l’enfasi della scritta, sotto vi hanno graffito il profilo fumante del Vesuvio quand’era ancora aguzzo.
«Salvatore, quanti anni saranno che la cima del Vesuvio s’è spianata?» «’E visto comme s’è ridotta?» e fa con le labbra un segno tra di pietà e di disgusto. Perfino il Vesuvio s’è invecchiato; Salvatore non lo dice, ma scommetto che non gli dispiace. Pel poeta che si duole degli anni, tutto, dal cielo alla terra, s’appiattisce, si scolora, si spegne; ma che stasera a guardare una stella egli pensi che davvero quella sta lassù a fissar lui, solo lui nel mondo, e tutto torna bellezza.
È spiovuto. Prima degli occhi me l’hanno detto gli orecchi. Sotto la pioggia, silenzio, come d’una scolaresca davanti al maestro che alza la ferula; ma in un attimo i pescivendoli hanno ricominciato a gridare, le donne a vociare, i bambini a piangere, i ragazzi a bisticciarsi ridendo, un ciuco davanti a una carretta di cavoli e lattughe s’è messo a ragliare come per avvertire il padrone scomparso: andiamo, è spiovuto, è spiovuto. Tre ragazzi scalzi, seduti in fila sull’orlo del marciapiede, si divertono, facendo conca con le mani, a lanciare l’acqua motosa del rigagnolo più lontano che possono sulla strada. Se avessero avuto personalmente dall’Alto Commissariato l’incarico di lavare il selciato così, non agirebbero con maggiore zelo.
«Alice d’o sperone,» urla il pescivendolo in piedi davanti a noi, ché lo sperone pare sia un promontorio rinomato nel golfo per la pesca delle acciughe. È in maniche di camicia, stringe sotto il braccio un rotolo di carta gialla con l’autorità con cui i vecchi ammiragli stringevano il cannocchiale e, alzando e girando la faccia rossa, pur nel gridare osserva il cielo dove, tra le nubi lacere ormai quanto la tenda del suo banco, riappare un turchino duro ed uguale che sembra verniciato. «Alice d’o sperooone.» I pesci sul marmo splendono come brillanti perle topazi e rubini. Il ciuco fradicio d’acqua, che vi si riflette l’azzurro, raglia disperato a collo teso. Il pescivendolo infastidito dalla gara gli si volge sottovoce in tono amichevole: «Ciucciarié, statte quieto, ch’io ’a mugliera pe’ tte nun ’a tengo.» Una campanella stizzosa, din din din, si mette a squillare nell’aria lucente: dal Carmine, da Sant’Egidio, da Santa Croce?
Di Giacomo col sole è tornato lui. S’alza, accende la sigaretta, s’avvia verso la chiesa del Carmine, intento alle grida, alle voci, alle risate, agli squilli: tutta salute. Camminando muove in ritmo tre dita della destra in ricordo del tempo in cui roteava così la sua mazzetta di bambù. Anche le rondini adesso sono uscite saettando a stridere su questo bailamme.
«Vedi quella fontana. Con la rivoluzione di Masaniello, tutt’attorno alla vasca furono poste le teste tagliate di fresco.» «Tutt’attorno?» «E comme no?» e con la mano grassoccia fa il gesto delicato del fioraio che ficca giro giro i gambi delle rose dentro un cuscino di verde muschio.
Il Carmine è la chiesa dove Di Giacomo da ragazzo ogni domenica accompagnava il padre ch’era medico e voleva anche di quel suo figliolo bruno ricciuto e pensoso fare un medico. Il Carmine, lo sapete, è una delle più adorne chiese di Napoli, vestita di marmi d’ogni colore con un soffitto scolpito e dorato, con una cantorìa e due organi traforati e dorati, tanto belli, fioriti e minuti che anche l’oro e il legno sembra stieno lì a far gorgheggi, trilli e vocalizzi.
«Allora la chiesa mi pareva immensa e, appena potevo, mi rincantucciavo solo solo dietro un pilastro, accanto a un altare vuoto, e l’organo rombava e i preti cantavano e i fedeli rispondevano, e io a passare le mani sui marmi mi gelavo, e quando ritrovavo la mano tepida di mio padre mi sembrava d’essere già a casa, al caldo e al sicuro. È stata la prima chiesa di Napoli di cui ho scritto, nel primo numero della “Napoli Nobilissima”. Milleottocento e tanti. Chi se ne ricorda cchiù?»
Va da un altare all’altro, tenendosi con le due mani il cappello sul ventre, e guarda quadri, sculture, sepolture, con l’aria sospettosa di chi interroga sui propri mutamenti uno specchio. Se non gli riflettono manco un ricordo, volta le spalle e via. «Passano ll’anne, scappano,/ volano comm’ ’o viento…»
«Neh, reverendo, addo’ stann’ ’e palle dell’assedio? » chiede al Carmelitano nero che a vedere questo signore così di casa s’è avvicinato e saluta. A me spiega: «Nel 1439, durante l’assedio d’Alfonso d’Aragona, una palla di bombarda da Borgo Loreto entrò qui dentro, strisciò sul capo del Crocifisso, gli tolse la corona di spine. La palla fu raccolta e incatenata». Il Carmelitano ce la mostra in un andito legata al soffitto dalle catene come un demonio impotente. «Giesù facette appena c’a capa accussì», e Salvatore rifà il gesto sporgendo il labbro di sotto e alzando il mento, con l’aria di chi non degna nemmeno d’uno sguardo l’avversario. Che cosa? Le palle nere del Senato?
Ci hanno raggiunto due pittori, fedelissimi del poeta: Luca Postiglione, figlio del pittore Salvatore Postiglione, nipote del pittore Raffaele Postiglione, pronipote del pittore Luigi Postiglione, e via dicendo; ed Ezekiele Guardascione, col cappa, saracino di Pozzuoli, colorito olivastro, occhi di pirata, sopracciglia mefistofeliche; quello tutto zucchero, questo tutto pepe. Sottovoce il Carmelitano li ha interrogati: adesso sa chi è questo signore affabile e di scelte parole: è un grande poeta, è Salvatore Di Giacomo. Gli spalanca con un inchino tutte le porte, dalla sacrestia al chiostro.
«E l’organista Franco Michele Napolitano come sta? Caro amico, esimio artista… E ’sta gatta, reverendo, è vostra?» C’è un gatto, nero anche lui, che sembra legato alla tonaca del monaco: un passo di lui, un passo il gatto. Adesso s’è seduto sulle zampe di dietro e fissa Salvatore. Pare che anch’esso ascolti la storia della stanza dove Masaniello fu ucciso; del convento quand’era abbandonato, sporco e rovinoso, la sede della Questura; del chiostro cadente; del giardino che il comune di Napoli affittava ad orto. Anche Salvatore adesso fissa il gatto: «Che vulesse parlà?»
Riusciamo sulla piazza dalla porta del chiostro. Stanno seduti sotto l’arco un vecchio e una vecchia che salutano e s’inchinano: all’aspetto due mendicanti, come qui è l’uso, cerimoniosi. Il vecchio ci segue e con la berretta in mano affronta Di Giacomo: «O scellenza, scusate, permettete. Vuie site ’o signurino Di Giacomo? » «Per servirvi.» «Nu’ ve ricurdate ’e me? Io ho avuto il piacere e l’onore di servirvi quando lavoravo nella tipografia Tocco.» «E comme no?» «Vuie site reventate ’na celebrità.» «Giesù, vuie che dicite…» Il dialogo fila, che sembra scritto; una battuta tira l’altra, obbligata, secondo un rito che sa di corte. Nella tranquilla luce del tramonto la piazza barocca s’è mutata di colpo in un palcoscenico. Noi facciamo da coro, accanto alla vecchietta che accompagna ogni inchino del suo uomo con un inchino, e che, quando ci allontaniamo e Di Giacomo si volge per l’ultimo saluto, alza le due braccia e gli lancia un bacio sulla punta delle dita.
Quando s’entra giù pel Lavinaio, ogni bottega o botteguccia di mozzarellaro, di pellaio, di sellaio, d’erbaiolo, di limonaro, ogni osteria con le marmitte che fumano, con le padelle che sfriggono, maccheroni, carne, pesce, polipi, pizze, mi sembra accomodata così per una rappresentazione, con tutti i personaggi alla ribalta fedeli al loro tipo, un fugace sguardo, ogni tanto, allo spettatore per vedere se applaude: l’avventore povero che finge d’avere fretta perché poco ha da comprare; il cliente stabile, seduto a gambe larghe, le due mani sul pomo della mazza; la rotonda matrona che, le maniche rimboccate sulle braccia possenti, dà ordini o si riposa con dignità dietro il bastione del seno; l’artigiano felice di lavorare con maestria sotto gli occhi dei passanti; lo scugnizzo che spinto fuori da una manata capitombola e ride; il venditore ambulante che cantando l’annuncio della sua mercanzia s’ascolta e si consola se nessuno gli bada; Postiglione che fa il pittore e ogni tanto apre le gambe smilze, vi pianta su il largo ventre avvolto in un gilé fantasia e, rovesciando la testa su una spalla, a occhi socchiusi fissa il motivo.
È che questa fedeltà al proprio tipo, contro tutti, sia pure contro la sorte, è qui una condizione della felicità. Vi dà una missione nella vita e una regola, dal vestito al gesto e alla parola; e un orgoglio anche nella sfortuna. Il vostro personaggio vi fa da scheletro e da armatura, anche quando anima e corpo cederebbero. Se poi la maschera corrisponde davvero all’anima, avete quelle figure d’eroico rilievo che quaggiù conquistano di colpo la folla, la storia e la leggenda.
Tra questo popolo schietto e vistoso, libero e cerimonioso, Salvatore è felice. Sa tutto d’ogni mestiere, legge dietro ogni volto. Che gioia o dolore abbiano a mutare la favella di costoro in canto, e i versi che vengono alla bocca sono ancora versi di lui. Da quando? Da sempre. Per quanto? Per sempre. «Quanno sponta la luna a Marechiaro…» «Era de maggio e te cadeano ’nzino…» «Oi mamma mamma, che luna, che luna…»
«Salvatore, dove si trova oggi la migliore pizza alla napoletana, c’a provola, c’o pesce…?»
Di Giacomo si ferma, ché l’argomento è grave: «Tu devi sapere che i grandi pizzaioli sono morti o a riposo. Di Pietro, ch’era a Chiaja e andava a lavorare anche a Palazzo Reale per Sua Maestà, non so più niente. Ma la pizzeria di Port’Alba ci dev’essere ancora. »
Siamo usciti da San Giovanni a Mare che è una chiesa romanica quasi sotterra, con le colonne antiche di cipollino lustre d’umidità; la chiesa dove si custodisce sotto una grata ’a capa ’e Pascale la quale, se l’invochi con fede, la notte t’appare e ti dà i numeri pel lotto, e anche le signore di Toledo e di Chiaja le recano fasci di fiori, e tutta la navata in penombra ne è profumata. E ci siamo fermati davanti alla Capa ’e Napule che è, all’angolo d’una strada, la testa di marmo d’una dea romana, dal mento tondo, dai capelli gonfi, senza naso. Una fruttivendola le ha posto davanti una bancarella carica d’arance d’oro, fiorita di biancospino, cinta da un parato in raso di cotone color verde pisello, acuto quanto uno strillo.
«Portualle ’ndurate, tutto sugo, tutto sugo», e intanto seduta, nascondendo il seno sotto uno scialletto celeste, allatta il suo marmocchio. Guardascione, serio e quasi tragico, segue le parole di Di Giacomo e cita la pizzeria al Largo della Carità che ancora vende novecento o mille pizze al giorno.
«Sì, ma il pubblico non è più quello. Una volta alla pizzeria di Port’Alba tra i clienti veri vedevi avvicinarsi alla soglia una signorina pallida vestita a lutto, un nobile scaduto, una vecchietta in mantiglia. Recavano in mano un vecchio giornale e facevano le viste di aspettare qualcuno. D’un tratto il pizzaiolo generoso ammiccava e lasciava cadere nel giornale tre o quattro cornicioni, che sarebbero gli orli delle pizze, quelli senza pesce e senza pomodoro, che i clienti ricchi lasciano sul piatto. E la signorina, la vecchietta, il signor conte, richiudevano in fretta il giornale e facendo finta di niente scantonavano. Quella pizzeria era diventata famosa anche nel mondo elegante. Ai suoi tavolini di marmo, sotto i mazzi d’origano accorrevano dopo teatro dame scollate e gentiluomini in marsina. Una sera una signora gitta un grido: ha veduto su per la parete camminare due tre scarafaggi, neri lustri grassi come curati. “Cameriere, cameriere, vedete lì…” “Nun è gnente, scellenza. Mo’ tornano int’a récheta”, voleva dire dentro i mazzi d’origano appesi alle travi. Grande civiltà, vera civiltà, quella che ha pensato a tutto, ha trovato un posto e un destino a tutto, pure a ’e curnicioni d“e pizze, pure a ’e scarrafune…»
La luce va scomparendo. Perfino le arance e il raso verde sotto la Capa ’e Napule si spengono. Una carrozzella s’avvicina: «Signurì, jamme a casa?» Salvatore m’invita a salire.
«Torniamo in carrozzella tranquillamente. Dentro all’automobile mi sembra sempre di fuggire qualcuno che m’insegua.»
U. Ojetti, Di Giacomo (1929), in Id., Cose viste, a cura e con un saggio di T. Iermano, Cava dei Tirreni, Avagliano Editore, 2002
È con Salvatore Di Giacomo che la poesia dialettale napoletana ascende per la prima volta a consapevole dignità d’arte. Prima di lui, o era opera di letterati che si divertivano a scrivere in dialetto o era immediata espressione dell’anima popolare, ricca di efficacia emotiva ma rozza, superficiale, ignara di disciplina e, in fondo, più vita che arte. Fu Salvatore Di Giacomo il primo a fare della poesia dialettale napoletana con vera coscienza d’arte. Sì che non è affatto esagerato considerarlo il vero fondatore e inauguratore della poesia dialettale napoletana.
A. Tilgher, Salvatore Di Giacomo, in Id., La poesia dialettale napoletana. 1880-1930, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1930
Salvatore Di Giacomo è il poeta di Napoli, non solo pel dialetto, non solo per le amorose descrizioni della città, della marina e del golfo, non solo pei tipi che popolano le sue poesie e le sue novelle, pei fatti e per le storie ch’egli narra nei suoi libri eruditi, ma anche per il sentimento che gonfia e anima ogni verso di lui. Ma questo sentimento o, con una parola più cara ai Napoletani, questa passione non è il proprio di Napoli com’è la veduta del Vesuvio, che da Capua è già un’altra e a Gaeta non te la ricordi più. È piuttosto una singolare condizione dell’animo, comune in certe ore della vita a ogni uomo; una condizione che proprio a Napoli, nella luce, nella temperie, nella forma, nel dialetto di Napoli, ha la sua espressione più persuasiva e più commovente: e allora Napoli non è più un panorama ma un paragone, non è più un luogo ma un volto, non è più un popolo ma una voce. E a Napoli si può vivere mesi e non ce se ne avvede. D’un tratto, si sia italiani o transatlantici o iperborei, una sera, per un certo colore che tinge il mare e l’aria, pel gran silenzio che ci fa parere vuoto d’uomini l’arco azzurro della spiaggia e troppo lontano e indifferente l’immenso cielo, per una stella che all’improvviso vi brilla e vi palpita solo per noi, il mondo ci appare nuovo, la vita ci sembra che incominci allora, il cuore ci empie il petto, le labbra si aprono in un respiro che è un sospiro; e dalla strada una voce comincia: «La luna nova ncopp’a lu mare/ stenne na fascia d’argiento fino», e s’interrompe e riprende: e non è una donna che canta, è il cielo, è il mare, quella forma del golfo e dei colli e del monte, quel colore, quell’aria: e si fosse più soli d’un eremita, ci sentiamo d’un tratto, anche se vecchi o infermi o delusi, contenti di vivere, presi nel lento giro d’un’armonia, nella luce serena d’una felicità, fiduciosi nella bontà, fraterni all’umanità: in una parola, migliori. E passeranno anni e anni, e s’andrà lontani migliaia di miglia, ma il ricordo di quella pace e di quella musica, di quel desiderio del desiderio come Gino Capponi definiva la poesia, ci tornerà su dal cuore, e tre sillabe che per tutti i poeti, dal Boccaccio al Leopardi, hanno avuto sapore dolcissimo, ci si scioglieranno, appena mormorate, tra le labbra: Napoli. […]
Poeta d’amore, sentimentale, malinconico, musicale, anzi cantabile e cantato, senza nerbo di volontà e senza teorie da difendere, originale e insieme tradizionale, ingenuo ma d’una prosodia attentissima e d’un vocabolario, pur nel dialetto, vigilatissimo: dove trovarne, come si dice adesso, uno più inattuale?
È inutile, per quanto si cerchi, da lui non si può trarre né un esempio né un ammaestramento, se non quello che bisogna studiar bene il proprio mestiere prima d’arrivare a essere sinceri e originali.
Ma ecco, quando ci sono entrati nel cuore i versi di lui e ripetendoli, scrutandoli, anatomizzandoli in ogni sillaba e in ogni accento per trovare le ragioni di tanta purezza, finezza, semplicità e umanità, il loro incanto ci resta sempre più misterioso, un solo paragone viene a consolarci, ed è un paragone con la musica, con certe arie tra Settecento e Ottocento, che quasi non hanno più corpo di parole e pur vivono e vibrano, leggere e luminose e calde come raggi: «Che farò senza Euridice» nell’Orfeo o «Pria che spunti in ciel l’aurora» nel Matrimonio segreto, «Porgi amor qualche ristoro» nelle Nozze di Figaro o «Ah non credea mirarti» nella Sonnambula.
E si può risalire più lontano, molto più lontano nei secoli e nei millenni, in questa Napoli greca prima che romana, e per ignote vie rimasta fedele a taluni modi e sentimenti e miti di quella sua origine.
Si confronti Salvatore Di Giacomo ai poeti ellenistici, agli epigrammatici prima di tutto, ad Asclepiade, per fare un esempio solo: all’inizio della breve poesia, la stessa visione del vero, colorita e concisa, e sovente lo stesso dialogo concitato, tra scherzoso e sospiroso; e la stessa sostenuta musicalità del canto; e poi la stessa chiusa, d’una malinconia che, anche quando è funebre, non è disperata, anzi sembra confortata dalla fatalità, per tutti, del dolore e d’una medesima fine, della sicura continuità della vita, di sorriso in sorriso, di pena in pena, di speranza in speranza, di gioia in gioia, d’oblio in oblio, con una giustizia così uguale per tutti, d’ogni secolo e d’ogni luogo, che la rassegnazione finisce a prendere il volto della saggezza. «Di Nicarete il soave visetto cerchiato d’ardore, – che di lassù s’affaccia alla finestra spesso… ». Chi lo guardava dalla strada? Un poeta greco di ventidue secoli fa? Un poeta napoletano, morto l’anno passato? «Alta è la notte, e inverno; la Pleiade a mezzo tramonta. – Io gocciante di pioggia supplico alla sua porta.» Chi supplica? Asclepiade o Salvatore? La medesima meraviglia si prova a ritrovare in un bronzo di Vincenzo Gemito moti e forme d’un bronzo greco del Museo.
U. Ojetti, Salvatore Di Giacomo, in Id., Più vivi dei vivi, Milano, A. Mondadori, 1943
Comici o tragici, incoscienti o malvagi, gli uomini che il Di Giacomo ci presenta sono veri, hanno una loro spontaneità e ingenuità di gesti, di sentimenti, di azioni, per cui li sentiamo vivi e così intimamente umani che ci riesce agevole intendere il loro animo e le loro passioni, per quanto possiamo sentircene moralmente lontani. È questa la virtù misteriosa della poesia, la quale – come i rabdomanti sentono l’acqua sotterra – sente lo spirito vivere anche nella materia più opaca, e intorno alle immagini più immonde fa palpitare un po’ della sua luce ideale. Il Di Giacomo non turba con intrusioni soggettive la vita che rappresenta, non declama né filosofeggia; eppure si sente che egli non guarda quella miseria e quella depravazione con curiosità indifferente. La sua simpatia, la sua compassione, il tremito, per così dire, della sua umanità è in ciascuna linea, in ciascuna parola del racconto; e non si mostrano mai. Può accadere talvolta leggendo certi versi del Di Giacomo di pensare al grande poeta scozzese Roberto Burns ed ai suoi Allegri mendicanti; talaltra di correre col pensiero al Maupassant; più spesso ancora ad Edgardo Poe. Al Poe si pensa non tanto perché il Di Giacomo ama il fantastico ed il leggendario (alludo alle narrazioni raccolte nei due volumi Pipa e boccale, 1893), quanto per quel contrasto – generatore di una così forte emozione poetica – tra il realismo che ritrae potentemente la triste, la squallida, la mostruosa realtà e il presentimento di una spiritualità misteriosa; per quella intuizione, musicalmente suggerita, di un mondo occulto, di un mondo che si innalza sopra la materia ed il male, in cui consiste principalmente la genialità poetica del Poe e che fa pur sentire la sua segreta potenza in molte pagine del nostro scrittore. E nel Di Giacomo, come nel poeta americano, ci avvince altresì la forte ed incisiva espressione, la parola modulata esattamente sul sentimento o sull’idea, che dà vita e forma ai sogni più strani, ai presentimenti più tenui e per converso diffonde e irraggia intorno alla realtà una misteriosa atmosfera di sogno.
Il Di Giacomo, ripeto, è un poeta; ed è proprio dei poeti quella libertà spirituale che dietro il richiamo della voce interiore a cui essi obbediscono li conduce lontano dalle formule e dalle scuole, verso i ricordi e verso le speranze, verso ciò che la morte ha idealizzato e quello che l’animo presago finge al di là della vita, o nel misterioso avvenire, per contrapporlo al dolore presente. «Sol nel passato è il bello, sol nella morte è il vero», ha detto profondamente il Carducci; ed è questo il secreto pensiero di tutti i veri poeti; poiché, se a taluno di essi non piace o non giova cercare un conforto nel passato, tutti riconoscono nella coscienza del dolore e nel presentimento della morte la corrente segreta, il raggio invisibile che penetrando il reale lo trasforma.
A. Galletti, Storia letteraria d’Italia. Il Novecento (1935), Milano, Vallardi, 1942
Il parlare di Salvatore Di Giacomo, e specialmente della sua originalità napoletana, è un ardimento, perché non sono napoletano. Ma ho dato molte prove di conoscere amare la vostra Città Passionale e credo di superare le difficoltà.
Non intendo polemizzare col mio camerata dell’Accademia S. E. Ugo Ojetti, perché è lecito, con una figura complessa di poeta insistere in un solo punto di vista e omettere qualità importanti.
Da poeta, ho prediletto Salvatore Di Giacomo. Il grande poeta brilla per il fuoco profondo ch’egli accende nei suoi contemporanei, fuoco musicale che varca le frontiere e diventa concerto universale.
Non pongo la questione del dialetto. Affermo che il dialetto vive in quanto è animato da un forte scrittore. Quando il dialetto non riesce più a scatenare fuori di sé un’originalità alta, esso decade e muore. Nell’opera di Salvatore Di Giacomo il dialetto napoletano manifesta una magia plastica e musicale. Parlerò poi del dialetto milanese e del suo grande poeta Carlo Porta.
Il dialetto in Di Giacomo è congenito. I suoi sentimenti trovano il loro veicolo naturale nel dialetto, e conseguentemente i ritmi e le cadenze. Genio di poeta spontaneo e volitivo insieme come tutti i grandi poeti, a misura che dai suoi nervi sprizzavano come scintille le espressioni, queste scintille erano da lui volitivamente perfezionate: questo vibrante e commosso perfezionamento continuo costituisce la sua personalità.
Si dirà perché mai un poeta futurista parla di Salvatore Di Giacomo. I poeti futuristi come me hanno avuto sempre un amore assoluto per l’Italia e quindi per le sue bellezze compresa quella esaltata e descritta da Di Giacomo: Napoli.
Un altro problema si pone. Un grande poeta come Salvatore Di Giacomo può essere considerato passatista?
No. Il passatista è ben diverso: ve ne farò il ritratto.
Passatista in arte è colui che, maneggiando una materia incandescente, ne rimane schiacciato e consunto. Per esempio, se si tratta del blocco incandescente di sentimenti colori gesti suoni che caratterizza Napoli, chiamo passatista il poeta che non lo sa plasmare.
Da grande poeta, Salvatore Di Giacomo maneggia questo blocco di lava, lo fa suo, lo trasfigura, lo spreme, lo domina e lo rende immortale.
Come ciò è avvenuto vi dirò sinteticamente. Sinteticamente, perché il problema seducente mi trascinerebbe lontano da questa sala, e dovremmo concluderlo insieme in barca a Posillipo… con chitarre e mandolini.
Sarò sintetico come Salvatore Di Giacomo, e vi parlerò intimamente di ciò che preferite confidarvi cuore a cuore, vi parlerò di una felicità gonfia di tristezza e di una infelicità che ha lampi di gioia; torbide e soavi miscele di sentimenti, angosce tormentose, lagrime beate, tutta la poesia patetica del vostro chiaro di luna a sorpresa.
Qualcuno mi ha detto: esponi tutto il tuo pensiero su Salvatore Di Giacomo, ma non parlare né del vicolo napoletano né dello scugnizzo.
Io ho risposto che il vicolo e lo scugnizzo sono due entità liriche destinate a sparire, ma che hanno avuto la loro importanza, e ne hanno una grande nell’opera di Salvatore Di Giacomo, anche quando egli non nomina né il vicolo né lo scugnizzo.
Come oggi nascono delle nuove città, ognuna col suo aeroplano al guinzaglio, così Napoli si sviluppò col suo fedele poeta Salvatore Di Giacomo nel suo cielo.
In tutta l’opera di Di Giacomo si sente, attraverso le cadenze, i versi, i colori, la musicalità, ch’egli amava profondamente Napoli. L’amava nei suoi gorghi di lussuria e delitto, nei suoi sentimenti puri, nei suoi modi di pensare, nelle sue miserie, angosce, capricci, pigrizie, velocità d’istinti primordiali.
Egli l’amava come si deve questa dolorante, allegra, coloratissima pigiatura di cuori.
È indiscutibile che il poeta è caratterizzato dal materiale umano e tellurico da esso prediletto, ventaglio di emozioni ispiratrici che plasmate da lui finiscono per riplasmarlo. […]
Non avrei scritto questi pensieri su Di Giacomo se, oltre al piacere di glorificare un camerata dell’Accademia, oltre ad esservi costretto da una fervida sincerità che io chiamo napoletana, non avessi avuto anche l’intenzione di estrarre una lezione di futurismo dalla sua opera.
Cosa insegna Di Giacomo ai giovani?
1°) Il valore indispensabile del fuoco nella poesia. Infatti non vi è riposo né tregua nell’incendio del cuore di Di Giacomo. Da questo fuoco nasce il dinamismo dei colori e delle musiche.
2°) Il valore indispensabile della sintesi in poesia. Nel poemetto San Francisco ogni verso è costituito da una battuta drammatica che sintetizza una vita intera in contrasto con un altro verso la cui battuta drammatica sintetizza un’altra vita. Non una parola di più.
Come sapete, Egli correggeva moltissimo. Ciò confuta l’opinione corrente che considera la poesia come un facile ed involontario rubinetto aperto d’immagini e suoni. No, no, no. La sintesi, la semplicità e la commozione il poeta autentico e ispirato le ottiene con uno sforzo di volontà sfrondante e scarnificante.
Andate alla Biblioteca Nazionale di Parigi e guardate il manoscritto della favola di La Fontaine: «Gli animali malati di peste». Questo capolavoro è il risultato della elaborazione di sette testi diversi, con infinite varianti e correzioni.
3°) Il valore indispensabile del colorante. Cioè le immagini, le metafore, le analogie e la vernice delle parole intesa a trasfigurare la realtà.
Quando il poeta descrive il moto delle onde che per ebrietà mutano di colore, Egli aggiunge al mare il suo colorante.
4°) Il valore indispensabile della musica nella poesia.
La musica, in Di Giacomo, poeta dialettale di genio, non è mai monotona. Delle immagini, noi controlliamo l’originalità e la forza analogica mentre occorre controllare la varietà e la sorpresa nella musica.
Il cuore ha le sue cadenze, e noi che abbiamo abbondantemente pianto, e abbondantemente riso, siamo inclinati a credere che la risata abbia sempre una data musica e che il pianto abbia sempre una data musica.
No, sono infinite le varietà di musica del pianto e del riso.
Il nostro grande Poeta mantiene sempre intrise di pensiero le parole di lagrime e di baci. Egli trova modo di armarle o di intenerirle; così la musica è rotta da urli di angoscia singhiozzante. Questo crea una polifonia in una musica che poteva essere semplicemente melodia. Alcuni sonetti, già mirabili per la ricchezza di colore, ci rapiscono con l’apparente anarchia di questi strappi fonici determinata dall’esplosione dei sentimenti mentre si svolge eccentricamente un più ampio motivo cadenzato, suadente, e avvolgente.
Questo è il grande Poeta Salvatore Di Giacomo, blocco di sentimenti napoletanamente espressi, elevati all’intensità della grande arte, in un dialetto perfezionato, reso poetico senza fronzoli; sintesi lirica raggiunta da un cuore napoletano, che immortala lo scugnizzo, il vicolo, l’assassino per amore, la bruna al balcone, la gelosia dialogante colla luna, la luna e le stelle giuocano col mare. Concludendo, Egli dà ai giovani una lezione futurista d’instancabile marcia alla conquista del nuovo. La vostra Napoli che io mi compiaccio di chiamare affascinante pigiatura di cuori è una miniera di motivi ispiratori inesauribile. Scavatela, Egli vi guida, e ne trarrete canti sorprendenti di novità. Una ricerca di nuovi motivi napoletani caratterizza già i vostri geniali poeti: Libero Bovio, Murolo e il mio amico Francesco Cangiullo creatore di quell’originalissimo poema parolibero Piedigrotta assolutamente napoletano ed insieme assolutamente nuovo. Questi mi consigliano di lanciare a gran voce, perché abbracci il vostro Golfo, una rovente parola e raggiunga la grande ombra immortale del caro Salvatore Di Giacomo: Poesia! Poesia! Poesia!
F.T. Marinetti, L’originalità napoletana del poeta Salvatore di Giacomo, Napoli, Casella, 1936
Più evidenti sono nel Di Giacomo i legami con la letteratura verista e regionale, per l’amore che egli ebbe per la storia e per l’aneddotica della sua Napoli, e sopra tutto per la folla di umili o miserabili napoletani, per i luoghi di malavita e di miseria, e per le tragedie che costituiscono la materia più comune del suo teatro, delle sue novelle e delle sue poesie. Ma lo spirito con cui questa materia è animata non è né quello del verista né quello del regionale, bensì quello di uno dei più sentimentali e malinconici e musicali poeti che abbia avuto l’Italia. Temi e atteggiamenti possono ricordare il Verga, la Serao, il Mérimée: ma anche in questi casi lo spirito è diverso, e il realismo pittoresco e sinistro è avvolto in un desolato alone musicale che ci richiama al Di Giacomo più noto e più grande.
Gli argomenti dei suoi capolavori appartengono ad una sfera media, lontana dal vizio e dal luridume della Napoli derelitta. Su questa materia, modesta più che plebea, aleggia una musica che diremmo da Metastasio se nella grazia del verso non ci fosse tanta più malinconia, se le strofe del Di Giacomo non fossero fra quelle della nostra lirica che più ci rapiscono in una sfera di solitaria tristezza e più ci danno la nostalgia d’un mondo ideale. Un esempio può segnare la distanza fra i due poeti. Da ’o quarto piano ha lo stesso motivo sentimentale di La libertà del Metastasio: il poeta si è liberato dell’amore di un tempo, è indifferente. Qualche strofa ne riecheggia altre del Metastasio; e la figurina della ragazza ritratta con il piedino capriccioso tra i ferri della ringhiera, ha una grazia gracile che risponde alla grazia altera del poeta settecentesco: ma quale anima diversa, quanto segreto rimpianto delle estasi finite, in quelle foglie che cadono nel mattino fresco e chiaro d’autunno? Così qualche “arietta” può far pensare al Vittorelli: «Nu pianefforte ’e notte Sona, luntanamente, E ’a museca se sente Pe ll’ aria suspirà»: ma che incanto in quella musica che palpita appena con la notte! «Dio, quanta stelle ncielol Che luna! E c’aria doce! Quanto na bella voce Vurria sentì cantàl»: come la parola si leva e si fa melodia errante nel silenzio, passione sperduta nella solitudine troppo bella d’una notte di luna!
È questo sospiro che si esala ora sottile ora ardente dalla poesia del Di Giacomo, che non la lascia assomigliare a nessun’altra. Può sembrare che in essa l’anima napoletana trovi la sua voce, che in essa quel cielo troppo bello, quella natura d’una bellezza che stringe il cuore, quell’aspirazione indefinita e mortale che nasce in noi alla vista d’un paesaggio inaspettato, d’un profilo che passa e scompare, trovino il loro poeta. E veramente c’è nella poesia del Di Giacomo l’incanto indicibilmente triste e comunicativo di Napoli: ma con una concretezza e una malinconia di spontanei contrasti che la salvano dall’indeterminato e dalla maniera. C’è la Napoli che sembra svanire in un sospiro e in una nota di pianto, ma – insieme – l’aria del mare, la strada colorita e animata e, fra tanta vita, fra tanto rumore, più profonda e più triste la solitudine inguaribile del cuore.
Nei motivi e negli atteggiamenti di questa tristezza c’è qualche cosa che richiama al tempo del Di Giacomo. Dire perché egli appartiene all’ultimo ’800 è più facile che dirlo di Pascarella: in fondo all’amore casto della sua lirica c’è una concezione dolorosa di questa passione, una coscienza della fatalità che la contrasta e la uccide, un senso della fondamentale e disperata incomunicabilità delle anime, che ci fa pensare a qualcuno dei più desolati narratori moderni dell’amore: per esempio a Maupassant, che pure è tanto diverso.
Infatti i temi maggiori del Di Giacomo derivano dall’amore sentito nella sua natura misteriosa di sentimento che si patisce e non si domina, e nasce muore e ritorna come una malìa. In questo fascino inesplicabile è il centro musicale da cui si sprigiona la sua lirica: «Aiemmé! L’ ammore è comm’ a na muntagna E ce sta, ncoppa, n’arbero affatato: Rire chi saglie e chi scenne se lagna, Ca ’o frutto culurito è mmelenato!». E in questo fascino si perdono e si confondono dolcemente i colori delle strade e del mare di Napoli e i volti delle donne che il poeta canta. Molti particolari pittoreschi svela l’analisi minuta di questa lirica; ma il complesso sfuma in un nimbo di musica, in un profumo: così la notte stellata di Arietta; così, in Luna nova, il marinaio addormentato con le reti fra le braccia; così, in Capillò, Angelarosa che al primo piano «canta e ricama»; così, in Ll’ appuntamento, il tramonto sulla marina e gli uccelli che si chiamano nell’ombra della sera; così, in Na tavernella…, la piccola locanda d’Antignano col fusto di vino dinanzi alla porta, il cane del trattore che abbaia, e l’aria fresca e fina che viene giù dal monte; così, in ’E mattina, pe Tuleto, la povera Rosa che si ferma distrattamente a guardare le vetrine. Alcuni particolari ci possono far tornare in mente il mondo della Serao, quell’umile mondo napoletano: ma quello che là è quadro e azione, qui è una spira di sentimento che svanisce; i dati materiali, appena accennati, si perdono in quell’atmosfera irreale e musicale della passione, in quell’atmosfera di solitudine e di estasi in cui vive l’innamorato, che è il tema della poesia grande del Di Giacomo.
La musicalità, la coralità e il pittoresco, che sono elementi essenziali nella sua arte, mancato il freno della misura lirica, spesso diventano nelle novelle e nei drammi scenografico contorno di una vicenda interiore. Questo è visibile sopra tutto nella chiusa dei drammi, anche in A San Francisco, che a noi sembra il migliore. La deviazione verso il decorativo e la maniera è quasi sempre più grave nelle novelle, dove il Di Giacomo, troppe volte incapace di sostenere il motivo del protagonista, lo abbandona per una melodiosa pittura d’ambiente, per tocchi impressionistici e patetici che sembrano troppo facili in confronto della capacità di circoscrivere e definire una situazione. Fanno eccezione poche novelle, maggiore fra tutte Assunta Spina, che si svolge con una tale misura di motivi concertati, con una tale sicurezza di trapassi dalle note vaghe di preludio alle note alte e incalzanti della catastrofe, e si chiude con una battuta di così nuda potenza, da fame la più bella novella della nostra letteratura moderna.
A. Momigliano, Storia della letteratura italiana. Dalle origini ai nostri giorni (1936), Milano-Messina, Principato, 1966
Il segreto della sua potenza stava nella forza incredibile di spersonalizzazione da lui raggiunta. Si può dire che la poesia di Di Giacomo era anonima come un paesaggio. Egli rappresentava disperazioni spaventose e idilli agresti, viluppi assassini e tenerezze lunari con eguale imperturbabile misura. C’era, è vero, ai suoi tempi, il comando dell’impassibilità impartito da Flaubert. Ma attorno ai versi di Di Giacomo vaga un’aura di eternità che turba. […]
Quando lo si è chiamato un ‘classico’, un antico, un goethiano, ci si è approssimati alla verità. Classico è lo spirito che concepisce il mondo nello stampo della immobilità e della perpetuità. L’artista romantico vuole presentarci innanzi tutto l’immagine d’un divenire, del suo divenire intimo. Quella storia ha per lui un valore incommensurabile e irriproducibile. Lo interessa fissare la posizione del proprio fluire nel fluire del mondo e questa preoccupazione diventa un circolo magico di cui non sa trovare l’uscita. Per l’artista classico il mondo presentandosi come una vicenda perennemente identica a se stessa ed un eterno ritorno di passioni invariabili, l’idolatrica ipertrofia dell’io è incomprensibile. Il poeta classico tende a esteriorizzarsi e ad attenuare nella sua arte gli echi della sua personale vicenda. E grazie a questa innata classicità in Di Giacomo parvero esistere due anime e coabitare un tragico ed un idilliaco.
L. Giusso, Salvatore di Giacomo, in Id., Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura contemporanea. Seconda serie, Roma, Cremonese, 1942
Tutto ciò che io non perdono ai non-poeti, perdono ai poeti che siano veri poeti; perché, anzitutto, se essi creano opere di bellezza, non può non essere nel loro animo una fondamentale nobiltà e bontà, almeno nel tenace desiderio e nella visione, e poi perché, impegnati nel loro travaglio d’arte, è da indulgere se nella vita pratica cadono in egoismi, piccoli o grossi che siano, si lasciano tirare in passioni sciagurate, danno prove di debolezze e d’incoerenze. A Salvatore Di Giacomo ho voluto costantemente un gran bene, da lui ricambiato come esso poteva, a tratti e a sbalzi, ma, in questo ritmo, sincero. La sua arte, oltre l’incanto della bellezza e della classicità, aveva in me un’efficacia sentimentale, mi disponeva alla pietà, mi faceva soccorrevole in certi casi innanzi ai quali sarei altrimenti passato indifferente. Per un piccolo e quasi comico esempio. Mi misuravo una volta certe camicie nuove o rinnovate, e poiché, nel tentare di abbottonarle alla gola, mi stringevano in modo fastidioso, gridai stizzito alla persona di famiglia che me le porgeva: «Ma da quale bestia le avete fatte cucire così?» Mi fu risposto che era una signora che stava in un piccolo monastero o ritiro in un umile luogo di Napoli – e mi fu detto il nome popolare del ritiro; – e, di colpo, nella mia fantasia si dipinse una di quelle povere vecchiette, naufraghe della vita, di quelle dignitose miserie che s’industriavano, con cuore doloroso, a guadagnarsi il pane con le loro mani lavorando come meglio sapevano, una di quelle che il Di Giacomo aveva raffigurate in suoi bozzetti e novelle; e subito seguì nel mio interno non solo un placamento ma una sorta di rimprovero, quasi mi dicessi: – Ti commuovi alle pagine del Di Giacomo e resti insensibile innanzi alla realtà che le ha ispirate; – onde, mutato tono, soggiunsi: «No, non è poi un gran difetto, si può rimediare». Così egli mi giovava anche moralmente.
Discorrendo di lui con Eduardo Dalbono, il pittore, che era la persona di Napoli che in quel tempo egli assai frequentava come frequentava me, si venne a parlare delle comuni esperienze che avevamo del suo carattere; e il nostro giudizio fu così in ogni punto concorde che, dopo un po’ non ci bisognarono più parole e lo terminammo napoletanamente con la mimica, e il Dalbono lo compendiò nella sentenza: «Don Salvatore è ’na femmena e ’na criatura», è una femmina e un bambino.
In conformità di questa definizione, egli era talvolta irrazionalissimo, e talvolta, per paura o per schivare fastidi, egoista: ma altre volte intelligentissimo e chiaroveggente e generoso e pietoso.
B. Croce, Salvatore di Giacomo (1945), in Id., Filosofia, poesia, storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1996
Siamo sulla via per poter concludere che la natura poetica del Di Giacomo è di quelle che aprono un hiatus tra il mondo storico e il mondo della immaginazione, tra la realtà delle passioni e le pene del sogno. Il Di Giacomo ama soffermarsi sulla soglia dell’immaginazione, quasi a misura seguendo il dolce suono di un sogno, ed egli sogna difatti; ma ha quasi un’umbratile coscienza del suo sognare e non se ne lascia travolgere. Egli domina le sue fantasie; il fantasma è lo scopo supremo del suo vivere spirituale e ad esso egli si affida con delizioso abbandono, ma pure egli sente confusamente che il suo è anche un gioco, un dolce malinconico gioco, un poetico inganno, un caro inganno, un caro immaginare, dal quale quando vuole può mettersi fuori. E però il poeta, nonché arrivare alla tragedia, dalla tragedia si allontana, poiché la pena reale sfuma consapevolmente nella vaga immaginazione, e il dolore della vita diventa malinconico ricordo. C’è la tragedia in Saffo, poiché l’unità della vita e del fantasma, non che sciolta, si rinsalda nella memoria; c’è la tragedia in Leopardi, ordinata e sistemata quasi con freddezza in una raziocinante disperazione, poiché vita e sogno, meditazione e realtà, sono una sola identica cosa per lui, e però la sua tragedia poetica è anche tragedia biografica. Ma la tragedia manca nei poeti di tipo petrarchesco, nei quali abbonda l’immaginazione: l’immaginazione permette uno sdoppiamento, una patetica ambiguità tra la vita e il sogno, un poetico mentire a se stesso, e la poesia d’immaginazione è l’idillio, la querela, il canto abbandonato, il sommesso favellare, la tenzone amorosa: non la tragedia nella vicenda tenzonante delle sue passioni, ma il ricordo lirico di essa, non il dialogo concitato degli affetti, ma l’aria del commiato lacrimoso. Il poeta tragico non rompe l’unità tra la fantasia e la vita, ed egli è preso nel cerchio della sua figurazione, sì che egli dolora e si batte con i suoi personaggi e con i suoi fantasmi, uno solo con essi; il poeta idillico (e sia intesa la parola nel suo senso più elevato) scioglie tale catena, e si rifugia nel mondo delle sue favole, beato di questo suo sequestro spirituale dalla realtà storica; e se al mondo storico egli torna per attingervi spunti e ispirazioni, indi s’affretta a tornare tra le sue larve, che sono assai più docili alle metamorfosi dei suoni.
Il Di Giacomo è di quest’ultima schiera di poeti. Con tale accenno, è possibile spiegarci il Di Giacomo erudito, storico, amatore della vita settecentesca. Giacché egli ama il Settecento, e riesce a farne il suo centro spirituale, senza sforzo e senza inganni, per questa sua potente immaginazione che è capace di straniarlo dal mondo contemporaneo, poco consentaneo al suo atteggiamento poetico. Non è la consueta curiosità e il consueto vezzo di erudito che lo inducono a rovistare tra i documenti ingialliti, che testimoniino della sua vecchia Napoli, dei suoi teatri, dei suoi musicisti, delle sue cantanti, dei suoi poeti popolari; né la sua è la disposizione complicata dell’artista alla Gozzano che rievoca il mondo dei nostri avi per trarre degli effetti ironici, curiosi, suggestivi, dal contrasto di quello con la vita in mezzo alla quale è immerso il poeta.
Nel Di Giacomo la rievocazione del mondo settecentesco (e lo chiamiamo settecentesco, non perché si limiti solo al secolo XVIII, ma perché abbraccia tutta un’età musico-pittorica-teatrale che di quel secolo ha il colore), è perfettamente ingenua; egli riesce veramente a rivivere in un’età che non è la nostra, senza dissidi, senza strappi; ma con piena illusione. Si fa figlio insomma di quel secolo, perché il suo mondo pittorico-lirico meglio s’intona nell’età che amò la musica di Pergolesi, di Iommelli, di Scarlatti e di Cimarosa, le ottave ariostesche e tassesche e le festevoli ariette del Metastasio. Storicamente, anche il suo scrivere dialettale è lo scrivere una lingua che fu non il dialetto, ma la lingua-principe del reame da cui egli esce.
Sicché anche le sue minute ricerche di biblioteca – se occasionalmente furono favorite da quel movimento di studi di storia locale che sulla fine dell’Ottocento facevano capo a Bartolomeo Capasso e di cui fu insigne milite anche il Croce –, valgono per lui come sussidio mentale per areare e irraggiare la sua fantasia del colore di quel tempo.
L. Russo, Salvatore Di Giacomo (1945) con D. Della Terza, Un profilo del critico, Torino, Nino Aragno, 2003
Il posto di Di Giacomo nella nostra lirica si stabilisce da sé, naturalmente avvertita che sia la sua solitudine e la sua inimitabilità. Ma, in fondo, inimitabilità e solitudine risultano appunto dalla impossibilità critica di trovare delle relazioni fra lui e gli altri poeti. Come per Saffo, per Petrarca, per Leopardi anche per Di Giacomo non è da porre nemmeno la questione di un clima univoco da cui, per segreta osmosi, sia scaturito con una personalità riassuntiva. (Per un Baudelaire, un Rimbaud, un D’Annunzio il discorso può sempre avviarsi in altra direzione salvo la grandezza dei loro nomi: ed è possibile un gioco minuto d’indagini sulle interferenze, sul messaggio fecondato.) In Di Giacomo, la voce s’è auto-educata, in un continuo processo intimo che nulla ha chiesto d’esempio a ciò che intorno accadeva come fenomeno letterario (l’avrà chiesto, magari, come minima occasione d’incontro, nelle altre sue attività artistiche, nei racconti, nei drammi, ma qui non importa): e per lui contemporaneo, oltre tutto, militante sotto simili ambizioni, Carducci Pascoli D’Annunzio come s’è accennato – restano estranei, la loro poesia non lo raggiunge che come lettore. In altri, potrebbe apparire ed essere sordità, scontrosa voluttà di solitario, timidezza estrema: in lui è condizione, veramente salute. Sarà stato il dialetto, sarà stata la sua saldezza, sarà stata anche una volontà mascheratissima e sotterranea di ascoltare soltanto se stesso, il fatto è che Di Giacomo resta, degli anni tuttavia così turbati, che vanno dal 1880 al 1915, veramente la presenza più pura di poeta. E dopo a Napoli, a calcare la sua strada aperta, nessuno: sì, imitatori molti, e qualcuno dotato anche, ma appunto perché imitatori non hanno posto che li salvi.
Di Giacomo dimostrerebbe ancora così che la poesia consiste tutta nel tono e nella pronuncia delle parole: perché quei sentimenti e quelle creature e quei luoghi infine sono di tutti, sono dei napoletani più sensitivi, almeno restano premesse inequivocabili agli avvii dei discorsi sentimentali, e certe malinconie e furori e scoramenti e vogliosissime frenesie e volubilità d’amore e l’ascoltazione paziente delle voci del mare del cielo delle foglie appartengono e per sempre ancora a tutti gli animi di questa terra; e le donne saranno sempre apparizioni librate tra cielo e terra, corpose e leggere, le sue donne. Ma è il tono appunto che resta inimitabile, seppure esemplare. E di qui – come brevemente si è tentato con molta cautela – la necessità di operare a fondo un’indagine strutturalistica sulla sua effettiva presenza lirica. Ma intanto è chiaro che con un gruppetto sparuto di composizioni, che sopravanzano tutta la produzione in versi di cui fu ricca la sua esistenza, Di Giacomo vive all’altezza dei maggiori lirici che mai abbia avuto il mondo: e in quel cielo si regge con le sue notti, i suoi silenzi, i suoi sgomenti, quegli elementi appunto che la sua voce mutò in parole, definitive.
M. Stefanile, La poesia di Salvatore Di Giacomo (1947), in Id., Sessanta studi di varia letteratura, Napoli, Guida, 1972
Salvatore Di Giacomo morirà solo quando Marechiaro (che ora ha una via intitolata al suo nome) e l’intera Napoli avranno cessato di esistere: ma c’è egualmente la vedova Di Giacomo, sta alla Riviera di Chiaia e acconsentì a ricevermi, una domenica mattina. I Giardini Pubblici separano la Riviera di Chiaia dal mare, questa bella strada sorride alla parallela via Caracciolo, oltre gli alberi, come una spagnuola dietro il ventaglio; se la signora Di Giacomo si affaccia mentre il vento spalanca e rinchiude qua e là il fogliame, una due tre vele compaiono in quegli squarci e subito nel cuore di lei ricominciano a bisbigliare i versi di don Salvatore. Quando si sposò, il poeta abitava a Santa Lucia, di fronte alla chiesa della Madonna della Catena: la morte lo colse invece in una casa di via San Pasquale; alla Riviera di Chiaia trovai tutto quello che rimane di lui: il suo scrittoio, i suoi ritratti, molte sue carte, ma più che altro sua moglie, la donna che lo aveva intuito e amato.
Gli occhi che io le vidi, tuttora così dolci e vivi, erano gli occhi che lo guardavano nella “tavernella” di Antignano, mentre l’aria sentiva di nepitella e la gallina sgridava i pulcini; a quei capelli il vento di maggio non dava requie allora.
Quella era la voce che in dolci settenari don Salvatore si ritenne capace di riconoscere fra cento o fra mille voci; quella svelta figura egli cercò un giorno tra la folla (ricordate la poesia Parole d’amore scontento ?) dicendosi: «Ah se la vedessi!» e subito soggiungendo: «Dio, non farmela vedere!» Mi parve, mentre rievocavamo queste cose, che la signora Elisa sorridesse ripensando ai versi di don Salvatore che sentenziano: «Il cuore della donna è come una lettera chiusa: chi mai può leggervi? Chi può scandagliarlo?»; ecco, sospirò, Di Giacomo considerava enigmatico e complicato l’animo femminile che è invece così limpido e semplice. Io osservavo il poeta nei suoi ritratti, un mezzo busto di Irolli, una grossa tela di Postiglione che lo raffigura in piedi, appoggiato a un albero, con un libro in mano e con nella faccia tutta l’innocenza che occorre per farsi capire dalle foglie; guardavo specialmente don Salvatore in un disegno di Paolo Vetri, il giovanissimo don Salvatore spavaldo e ingenuo, nuovo nuovo, plebeo e finissimo che più rassomiglia alla sua poesia. Le donne, ripeté la signora Elisa, lo incantavano e lo impaurivano; ne sentiva squisitamente la grazia, ma le riteneva difficilissime da interpretare; forse si tormentò perfino di lei, di Elisa, la più innamorata e la più certa. (Allora una ragazza che poteva vivere del suo lavoro, una giovane professoressa come la signorina Avigliano, capace, non so, di viaggiare sola da Napoli a Roma, e di ragionare con la sua testa, veniva ritenuta quasi una ribelle.)
Fu insomma un romanzesco amore, anche vessato dal fatto che per accasarsi ci vogliono danari e che i poeti non ne hanno; ma infine il matrimonio si celebrò quietamente, nozze di artisti senza viaggio a Capri o a Venezia, probabilmente c’era una poesia incominciata alla quale lo sposo ritornò ben presto, e lei forse lo guardava indovinando qualche parola nell’aggrottarsi e nel rasserenarsi della cara fronte. Era geloso delle proprie poesie? Domandai alla signora Di Giacomo. Piuttosto pudore, mi spiegò. Non ne parlava mai con gli amici, eccezionalmente ne recitava qualcuna alle belle signore nei salotti; ah come le irretiva, come le persuadeva la sua voce calda e velata insieme, piena di segreti e di abbandoni.
Io fissavo la piccola scrivania su cui fu composta Arillo, animaluccio cantatore; quanta e che luce intorno, il sole e il mare bussano da tutte le parti per entrare nelle case della Riviera di Chiaia; forse in qualche armadio c’erano ancora la “paglietta” e il bastone di don Salvatore ma non ebbi il coraggio di volerli vedere. Frattanto la signora Elisa continuava a rievocarlo per sé e per me. Le sue poesie furono come lettere d’amore alla sua città e al suo popolo. Per esempio adorava gli “scugnizzi”. Un giorno, durante il loro fidanzamento, donna Elisa e don Salvatore si attardarono nel giardino di una trattoria suburbana; il poeta non aveva più sigarette e incaricò uno “scugnizzo” di andarle a comperare. «Si approprierà del danaro, non lo rivedremo più», disse donna Elisa. «C’è un quarto d’ora di strada, sarà qui fra sette minuti», ribatté Di Giacomo. Trascorse un’ora, lo “scugnizzo” non si vedeva. Donna Elisa esultò, ma non di un cattivo piacere; vinceva come una mamma che ha visto giusto, vinceva perché (riferisco le sue parole) i poeti sono troppo semplici e ingenui, non si possono lasciar soli con la vita. Invece lo “scugnizzo” arrivò col cuore in gola, esausto e leale come il tamburino sardo; l’unico tabaccaio dei paraggi era sprovvisto delle sigarette preferite da don Salvatore, perciò il ragazzo aveva fatto una corsa in città.
Di Giacomo andò in estasi, donna Elisa non lo vide altrettanto felice neppure quando fu nominato senatore. Anzi si spaventò, allora, ne fece una malattia. Lui viveva di versi e di studi, mentre qualsiasi speciale onore conseguito in quel tempo assumeva un significato politico… che avrebbe detto la gente? E la convalida, sarebbe venuta la convalida? Al Senato vi furono obiezioni, ostacoli. Una sera, rientrando, donna Elisa trovò il marito in lacrime, piangeva ripetendo: «Non mi hanno convalidato… non mi hanno convalidato…» Antichi dolori che non originarono strofe e dei quali pertanto nulla rimane. Il Di Giacomo che donna Elisa non può dimenticare è un altro, quello che sta nei libri e che comincia col verso «Uocchie de suonno, nire, appassiunate». Napoli è un pro-memoria continuamente sotto gli occhi della vedova; don Salvatore dice l’erba sulla collina, don Salvatore dicono le pietre e la gente in ogni angolo della città. Così la vedova non può non adorare Napoli; che si affacci dal suo balcone sulla Riviera di Chiaia, o che riordini i manoscritti del marito, sempre Napoli rilegge. Fu ed è moglie di Voce luntana, di ’O funneco verde, di Ariette e sunette; ne è la vedova solo nel senso che – siccome in Italia nemmeno Iddio, pur potendo contare su una vasta diffusione delle proprie opere, vivrebbe di diritti d’autore – subito dopo la morte di Salvatore Di Giacomo dovette rimettersi a lavorare, tornò ad essere professoressa di lettere in un ginnasio. Donna Elisa, insegnate qualche volta Di Giacomo ai vostri allievi, la felicità e il dolore di essere la moglie di un poeta?
La casa della signora Di Giacomo fu derequisita nel 1946. Vi si erano allogati certi ufficiali francesi, dei più miti e corretti, però. Avevano voluto lasciare una stanza alla proprietaria, non brindavano in casa, non ricevevano donnacce, uno divenne amicissimo della città e di donna Elisa, da Parigi poi spesso le scrisse dicendo: «Beata lei, signora Di Giacomo, che può vivere a Napoli». Parlavamo di questo ben nato ufficiale quando guardai l’orologio. «Signora, io sto per farvi perdere la messa», balbettai arrossendo e ci alzammo. Sfiorai passando la poltrona in cui Salvatore Di Giacomo incominciò a morire; egli vi impallidiva e vi si consumava, nient’altro, finì come un cero, disse indovinando i miei pensieri la vedova. Mi avviai verso il Chiatamone, lasciandomi alle spalle la Villa Comunale che s’allungava frusciante e leggera, proprio di seta, proprio l’impareggiabile strascico della primavera napoletana, se non mi inganno.
G. Marotta, San Gennaro non dice mai no (1948). Prefazione di M. Prisco, Cava dei Tirreni, Avagliano, 1995
La tecnica e la materia dei veristi sono ancor più evidenti nelle prime cose del napoletano Salvatore Di Giacomo, nelle novelle in lingua, nel teatro, e anche nelle parti narrative e drammatiche del canzoniere (’O munasterio, A San Francisco, ecc.). Lì possiamo vedere il formarsi della sua arte, con i temi e quel tono che la definisce e la isola fra le esperienze contemporanee, affine e pur dissimile; lì i colori e le trame e le avventure del suo mondo poetico: quegli ambienti plebei, e quegli aneddoti di malavita, quei cortili, quei vicoli, quei fondaci, quelle scene d’ospedale, d’ospizio, di prigione, quei tipi di vagabondi, di reietti, di donne appassionate, che torneranno anche nelle poesie più belle, sebbene con altro accento. Nel narratore si matura e nasce a poco a poco il poeta, che è il Di Giacomo più vero. Anche i suoi sonetti, le sue canzoni, le sue ariette in dialetto svolgono spunti e riproducono cadenze non nuove, adottano schemi e pretesti figurativi di un repertorio comune ed elementare: quadri di vita popolare, ritratti con colorito realismo; la commedia e la tragedia eterna dell’amore; la melodia sospirosa delle canzoni di Piedigrotta; e quello sfondo di paesaggio, anch’esso in fondo senza novità: il mare fermo e turchino, l’aria dolce e profumata di primavera, il cielo d’oro dei tramonti, la luna bianca che sale nel cielo. Ma il lirismo dello scrittore è così intenso e immediato che rinnova di volta in volta gli schemi più frusti, le materie più trite, la metrica più consunta. Con mezzi apparentemente poveri e monotoni, suscita figure, cose, ambienti, paesaggi, con il loro colore e il loro sentimento, e pur immersi in un’aria nuova e trasfigurata. Sceglie le parole più precise, le più vere e evidenti, e al tempo stesso le libera da ogni peso; le tratta, insieme con il gioco abilissimo e pur naturalissimo delle pause, delle spezzature, delle clausole ritmiche, dei ritornelli, come uno degli elementi di quella musica pura e incantata, verso cui tende e a cui si riduce tutta la sua poesia: un canto in cui il nucleo lirico si effonde con la sua forza intatta, trepida, palpitante. Nessuna preziosità di cultura o sottigliezza di psicologia; nessun tema alto o complicato; nessun affetto, fra i tanti messi in scena, scrutato e sviscerato a fondo da un’intelligenza superiore; sì invece un’immediata adesione e partecipazione quasi carnale a tutti gli aspetti più vaghi e fuggevoli delle cose, degli esseri, della vita sentimentale quotidiana. A volte questa tendenza alla musica, che è di tutta la poesia del Di Giacomo, sembra appagarsi in una musicalità un po’ esterna, un po’ facile, con un avvìo di canzonetta popolare; a volte si modula con una grazia un po’ artefatta, con un sapore di virtuosismo e di gioco troppo squisito e compiaciuto nella sua incantevole puerilità, sulla scia di un’estenuata dolcezza e delicatezza settecentesca e metastasiana. Ma questo è il Di Giacomo minore, quando la sua tenerezza espansiva si lascia prender la mano e decade in sentimentalismo, ovvero (e non accade spesso) quando la sua musica è piuttosto riflessa e studiata che spontanea e si sorregge con gli espedienti di una virtù letteraria abbastanza gracile e perfino dilettantesca. Ed è vero poi che, con gli anni, l’arte del poeta s’è venuta sempre più raffinando, s’è fatta più intima, più leggera, pudica, con un impressionismo vibrante, una rapidità intensa di tocchi, un dono tutto nuovo, e attuale, felicissimo, di analogie e di corrispondenze, di armonie verbali e di accordi melodici. Marzo; ’Na tavernella…; Dint’a Villa; Arillo, animaluccio cantatore: poesie che sembrano nascere dal nulla e attingono a quella perfezione, a quella pienezza d’incantesimo, che è solo dei lirici grandi, attraverso l’immediata rispondenza dell’oggetto e del sentimento. Qui è il Di Giacomo vero, e uno dei poeti, come s’è detto, più vivi del tempo suo; il più schiettamente poeta anzi, per vocazione nativa, senz’ombra di complicazioni intellettuali ed estetizzanti.
N. Sapegno, Disegno storico della letteratura italiana (1949), Firenze, La Nuova Italia, 1994
Di Giacomo cominciava a operare in una piccola nazione, con dei canoni poetici senza equivalenti nella lingua: degli stessi Belli e Porta si potrà parlare a proposito di Ferdinando Russo, non di Di Giacomo. Se mai, qualche caso analogo si ha nella letteratura italiana antica (che era poi meridionale: Ciullo d’Alcamo, il plebeo-allegro di Rosa fresca aulentissima) o, naturalmente, nel barocco (ma anche qui bisognerà aggiungere “napoletano”) e nella canzone settecentesca. E, degli italiani suoi contemporanei, non si può affatto fare il nome del Pascoli (a cui, in certi fenomeni psicologici e quindi stilistici è tanto vicino), ma piuttosto quello del Verga […], ma un Verga, che rappresentando una antica e attualissima provincia, in Di Giacomo, così squisitamente “cittadino”, si fonde nella tradizione melodica da Metastasio ai musicisti del XVIII secolo.
Abbiamo già accennato, del resto, come il senso di una realtà oggettiva – in sottordine documentaria, linguisticamente contrassegnata da una eccezionale potenza rappresentativa – manca in Di Giacomo, o è puramente illusoria (come in A San Francisco, che ha dei frammenti assai belli, in cui però le notazioni realistiche sono allucinanti, sfumano, sfuggendo ogni possibile intenzione dell’autore, in una specie di involontaria surrealtà: «…e, mmiezz’ a ll’ ate, addurmute o scetate, / mariuolo a dudece anne, ’o cchiù guaglione/ vutava attuorno ll’ uocchie afflussiunate.// E ’o cammarone se nfucava. ’O scisto/ feteva: ’a cazettella ca felava/ affumecava ’e ttrave rusecate.// Ll’ ombra d’ ’a funa nfaccia ’o Giesucristo/ tremmava, lenta…») oppure, come in Irma, il commento patetico implicito nel metro cantabile, nell’intervento indiretto attraverso le esclamazioni, sfuoca, si intenerisce.
Realismo inebbriato di fantasia, è la formula che il Russo inventa per spiegare questo che in termini strettamente psicologici e moralistici – se il Di Giacomo viveva in una fusione un poco torbida con la realtà, sensualmente – è un vizio del poeta, oppure “realismo musicale” derivante da uno stato d’animo tipico sospeso tra “estasi” e “malinconia”; oppure ancora, e siamo già più nel concreto di un esame stilistico, “realismo di colore” spiegabile in un gusto pittoresco del tragico, in un coagularsi del dramma in colore.
Non è difficile vedere però come gli accenti della pietà rischino di essere delle figure puramente metriche e il commento implicito o esplicito rischi di essere convenzionale (nella stessa Irma): questo per il “realismo musicale”. Quanto al realismo “di colore”, il suo pericolo continuo è quello di dare nel descrittivismo pittoresco, che è il vizio della scuola napoletana. Del resto, lo stesso Russo aveva ben capito che nella formazione di Di Giacomo più che ’O funneco verde conta ’O munasterio, con tutti i suoi vizi di facile, sfatto pathos. Sotto questa contraddizione tra un realismo che sembrerebbe d’obbligo a un dialettale e una sostanziale inettitudine al realismo, c’è la sensualità digiacomiana: che bisognerà distinguere dalla sensualità, tipica e entrata nei clichés nazionali, del napoletano, che è diffusa ma esterna, trascinante in fuori, verso il mondo, espansa, estroversa. Pur serbando, per simpatia, si direbbe, molte di queste attribuzioni, l’eros digiacomiano è quello che con forse ingrato termine psicologico si può definire di tipo narcissico, cioè fermato a uno stadio in cui non esiste oggetto: ardore diffuso e appassionato, ma ancora interno, senza sbocchi.
In tutto il canzoniere d’amore digiacomiano, non si trova una donna: è sempre della donna che egli parla, si chiami Rosa o Nannina, nomi che sono puri flatus vocis benché propri; conta l’amore più che l’amata. Il clima, la tensione dell’amore (che in qualche lirica è dato stupendamente). Ovattato, impregnato in questa sua sensualità indefinita, clinicamente immatura, poeticamente satura di un fecondo tepore, è per Di Giacomo un limite anche la sua dote musicale, il suo cogliere musicalmente il mondo in moto, nel suo farsi: nel suo vibrare di voci e di colori (si veda sempre il saggio del Russo), quando in lui prevalga per natura una immobilità, appunto, come dice lo stesso Russo, estatica. Ed è il Pancrazi (“Rassegna d’Italia”, aprile 1946, ma risale a un numero della “Voce” del 1916 l’inizio del lavoro di questo critico su Di Giacomo), che, tra le altre finissime annotazioni, indica i momenti lirici più alti del poeta nelle sue fasi linguisticamente più “ferme”: «Mare, liscio e turchino,/ addó pare nchiuvata/ ncopp’ a ll’ acque na vela/ ianca, ca s’è fermata…» e, per esempio, tutto il suo capolavoro Arillo, animaluccio cantatore: dove non c’è una tinta che vibri, una macchia di colore, un tremito. Paesaggio e umore sono raccolti in un silenzio irreale, in cui la malinconia ha un suono cosmico, l’accento di un Leopardi idealmente melico: che è l’immagine più pura della lirica digiacomiana.
E del resto in questo non si distacca dalle migliori cose antecedenti, anche le più giovanili. Si guardi per esempio A Marechiare: c’è forse qualche sperpero melodico, qualche cedimento sentimentale? O non si raccoglie piuttosto – con tutta la sua espansione napoletana – in una chiusura metrica e musicale perfetta? Di Giacomo giunge alla espressione poetica quando resta dentro i limiti della sua natura: tutto assorbito nell’alone della sua sensualità, in cui il mondo si faceva puro fervore, puro ardore, entusiasmo, felicità: e mai dunque oggetto di conoscenza e quindi di rappresentazione. […]
Questa specie di panteismo, di misticismo irreligioso, questa fusione col mondo, e nella specie con Napoli, è il dato più profondo della poesia digiacomiana: ed è esso che determina quella “chiusura” classica, che si fa dispersione, espansività intemperante quando Di Giacomo sbaglia, confondendo quel suo raccoglimento con una generica disposizione affettiva verso il suo mondo. Se poi pur in quell’esultante e tranquillo raccoglimento sensuale, in quella chiusura spesso anche metricamente (da Marechiare a Arillo …) assoluta, penetra e si disegna la Napoli che Di Giacomo aveva intorno, tanto meglio; ciò avviene per pura simpatia, per sensibilità come di diapason, e del resto sarà così possibile confermare quelle parole del Borgese: «Raramente un poeta lirico fu epico fino a questo punto», apparentemente alquanto retoriche, ma che si possono ora lecitamente ritagliare quale epigrafe per il monumento digiacomiano.
P.P. Pasolini, La poesia dialettale del Novecento (1952), in Id., Passione e ideologia. Prefazione di A. Asor Rosa, Milano, Garzanti, 1994
Di Giacomo non è stato per Napoli quel che Porta fu per Milano e il Belli per Roma. Porta e Belli furono due poeti risorgimentali. Il loro canto muoveva da una potente sete di giustizia. Di Giacomo invece fu sostanzialmente un idillico; e quanto di popolare e di caratteristico s’incontra nella sua poesia è per caso.
Egli al dialetto napoletano chiese altro. Tentò di fame una lingua limpida e ben formata. Non accettava i residui materiali, icastici e quasi volgari che sono la forza di ogni dialetto. Il lettore attento, leggendo le poesie di Di Giacomo, richiama alla mente modelli di altri poeti italiani. Talvolta può persino ricordare il Petrarca e il Leopardi; e Pianefforte ’e notte non sarebbe stata composta senza il grande precedente dell’Infinito leopardiano.
A Di Giacomo intanto questo fu possibile avendo a disposizione il dialetto napoletano, che, oltre ad essere molto cantabile, è per sua natura analogico. Non conserva mai fino in fondo il grave peso realistico del dialetto romano o milanese, sempre attaccati alla cosa che evocano e da cui non si possono distaccare. Il napoletano è dialetto che parte e nasce dalla cosa, ma quando enuncia quella cosa, intorno ad essa forma come un alone. E da ciò le sue grandi possibilità per trasformarsi in canto lirico e in seguito in canzoni. Di Giacomo fu di fatto grande scrittore di poesie liriche e altrettanto grande compositore d’indimenticabili canzoni.
Nonostante questo limite, del resto naturale (la tragica vita dei napoletani ha avuto in dono una lingua quasi scherzosa), Di Giacomo è non solo il più grande poeta napoletano, ma nei suoi versi vi è una maggior ricchezza di vita e di particolari umani che in tutti gli altri. Attraverso i suoi libri, per esempio, si può passeggiare per Napoli. Si ritrovano le piazze, le chiese, i vicoli, i bassi, i giardini, i colli, le antiche trattorie. Russo fu un poeta originale, ma di tono palesemente minore. Viviani tentò di fare quel che il Porta e il Belli fecero nelle loro terre poetiche, ma non aveva una preparazione adeguata e le sue poesie hanno dell’affrettato e dell’incompiuto. Viviani è importante perché fu l’unico a cercare una nuova strada al dialetto napoletano e perché è l’esatto contrario di Di Giacomo, che però il suo mondo ce lo ha lasciato armoniosamente compiuto. Egli perciò resta il poeta classico, il signore di quella feconda stagione dell’ultima letteratura napoletana.
Si dice “ultima” e non per caso dopo di lui la poesia dialettale napoletana non ha fatto che sia un solo passo avanti. Di Giacomo esaurì tutto il “poetabile” della sua città. Diede ad essa una forma definitiva e così potente che tutti i poeti contemporanei e quelli successivi non riuscirono a scoprire un solo altro pezzo di terra inesplorata, e di umanità che Di Giacomo già non avesse scoperto, lasciandovi un segno indelebile. La poesia di Di Giacomo in verità chiude un’epoca, un mondo, si può anche dire un’età. Dopo di lui il dialetto ha perduto di mordente e di verità. La plebe si avvia ad essere un’imitazione stanca di se stessa, di quando aveva riti, misteri, un costume originalissimi. Lo stesso Di Giacomo, rinascendo, non potrebbe rifare la sua opera. Si troverebbe a scrivere fuori tempo; e forse abbandonerebbe il dialetto definitivamente per la lingua italiana. Il dialetto va estinguendosi; e scrivere il dialetto di giorno in giorno diventa sempre più un atto contro natura. Prova ne sia la caducità riscontrabile in tante e tante poesie dei poeti dialettali napoletani. E soltanto il Di Giacomo ha vinto il tempo come lo sanno vincere solo i veri poeti: con l’universalità di limitati e approfonditi temi. Le liriche d’amore del Di Giacomo degnamente possono reggere il confronto con le più alte liriche d’amore della letteratura italiana. Il “cerimoniale” è diverso. Al posto del fiorentino vi è il dialetto; ma la commozione poetica è stata così profonda che ha redento il dialetto.
In altra occasione posi dei severi limiti alla poesia di Di Giacomo. Ma, ultimamente, rileggendo l’opera di questo Maestro, mi sono persuaso che il difetto di realismo dell’opera del Di Giacomo è compensato dal senso di mite tristezza, di “moderata morte” che corre per tutti i suoi versi. È un poeta autunnale Di Giacomo; preferisce i luoghi rischiarati da poca, ma intima luce. Dinanzi a un giardino nel pieno della sua stagione, pone subito “per ricordo” un giardino colpito dall’autunno. Dinanzi al giorno, la notte. Il canto spiegato delle ciliegie (’E ccerase) lo fa seguire da quello del “pover’ommo” dal “core confuso”. Ad ogni empito di vita nella sua poesia corrisponde un ripiegamento interiore. E il dissonante cuore dei napoletani è fatto così: una volta batte a vita, una volta a morte.
La morte e la vita, con grande misura, talvolta danzanti, talvolta con mosse da minuetto – il minuetto, a proposito, sembra presiedere al ritmo digiacomiano, appassionato ammiratore e studioso del Settecento, delle sue “cineserie” e della sua elegante forma, che in lui divenne stile, strofa metro, “delicatesse” –, ispirarono il poeta. Ci sapeva vedere in fondo al cuore della sua gente, ma gli ripugnava scendervi dentro e toccare il male e il bene e strumentarli come richiedeva la loro poderosa volgarità; in quel male e in quel bene in cui Porta e Belli sguazzarono.
Questo limite “signorile”, questo ritegno che ha perfettamente risolto in soave leggerezza la sua poesia, ha privato però il mondo napoletano di un ingegno che unico poteva dare una conformazione definitiva, una “summa” della fitta trama dei casi e storie, di commedie, drammi e tragedie alla napoletanità. Anche rileggendo Di Giacomo si finisce per sorridere; e finché le storie napoletane faranno ridere, lo annotai non so più quanto tempo fa in un mio quaderno, la Verità, che è una verità terribile – nel più profondo significato della parola – non sarà rivelata. In questo senso si trova più materia illuminante nelle sue cronache e nei suoi saggi, nelle commedie che nei suoi versi. Di Giacomo cioè aveva coscienza del suo “limite signorile”, ma, per così dire, non voleva sporcare la sua poesia; non ebbe il coraggio del Leopardi, il quale si infischiava di rovinare la grande maggioranza dei suoi componimenti inserendovi i casi della sua storia personale. Il verso gli piaceva troppo e doveva essere fresco, pulito, pieno di risonante grazia, a un dipresso come il Foscolo delle odi, ma senza il suo nerbo. Di più del Foscolo aveva però un sentimento intimistico incommensurabile e chi legge Pianefforte ’e notte e altre sette od otto liriche del suo canzoniere non riesce a star saldo, indifferente. Le sue mani si coprono di brividi. Tra il Settecento e Di Giacomo più che il romanticismo vi è stato il Pascoli (cfr. Nncopp’ a nu muntone ’e munnezza).
Il difetto, s’intende, non è di Di Giacomo ma nostro. Alcuni giovani guardano Di Giacomo da una posizione sbagliata: da come vorrebbero che fosse stato ed esclamano: «Peccato, avrebbe potuto fare quel che voleva!». Egli non aveva intenti realistici. Era indifferente ai fatti sociali del suo popolo, di cui, come si è visto, vedeva i gesti, i fatti nella fase finale di commedia, non in quella iniziale, sempre di origine spaventosamente tragica. Per tutto ciò, chi si avvicina alle pagine del più grande poeta napoletano lo faccia con animo sgombro da pregiudizi: e badi solo alla sua musica, alla sua memorabile malinconia, al suo stile terso come un cristallo venato di rifrangenze solari: come ci si avvicina ad una poesia indipendentemente dalle cause che l’hanno originata; ché se vuol trovare certe verità, sia pure costretto a distaccarle dalle favole e dai “cunti”, ne trova di più nel Pentamerone del Basile.
D. Rea, Su Di Giacomo (1954), in Id., Il re e il lustrascarpe, Milano, A. Mondadori, 1961
L’attività poetica digiacomiana ebbe un primo grande impulso proprio dalla canzone; e con la canzone Di Giacomo non infranse mai i rapporti; anche nel periodo della sua grande poesia, tenne sempre un filo, tenue ma sicuro, con la forma “canzone” e quindi col patrimonio folkloristico della sua terra. Fu una corda di freschezza perennemente vibrante sullo sfondo delle sue poesie, come in una viola d’amore, e fece da costante bordone leggiadro e popolaresco alle più alte effusioni della lirica di lui. E fu nel contempo una contaminatio fra il canto popolare e la interpretazione ed il riecheggiamento di questo; ne deriva che alcune poesie digiacomiane sono così intrise di sentimento folkloristico da non potervi discernere quanto di personale vi sia e quanto di tradizionale. (Per cui ecco che diventa poco agevole voler valutare la poesia del Di Giacomo secondo un criterio troppo assolutistico, come a considerare quella poesia avulsa dalla cornice municipale e librata per miracolo in un mondo iperuraneo. L’universalità della poesia digiacomiana nasconde, ma non distrugge, le origini “napoletane”, donde precisamente essa si formò e si modulò e prese l’avvio.) […]
Si può dire, e si deve dire, che la canzone napoletana comincia da Di Giacomo: sotto l’influsso del tardo romanticismo, i soggetti abbandonano la nebulosità delle amanti manierate e dei luoghi comuni del paesino napoletano, ed acquistano una determinatezza poetica nella quale la esaurita forma riprende vigore ed interesse per il lettore. La canzone non è più ora graziosa composizione, ma una rappresentazione di vita; della fervida e fantasmagorica vita napoletana che si estrinseca con scenette vissute, incontri che il Poeta fa ogni giorno, con l’acquafrescaia della cantonata, con la bella moglie del vinaio, con la venditrice di polipi, col merciaio ambulante che spaccia le sue “spille francesi…”.
Perché questo fu il segreto di Di Giacomo, che doveva consentirgli di imporre e far amare la propria visione poetica: il punto di vista su Napoli – che egli fece accettare a tutti e che ancora oggi fa testo presso i “canzonieri” ancorati al gusto sano – era lo stesso del napoletano qualunque: fu un riconoscersi nelle strofe delle canzoni, non l’accettare una formula letteraria fortunata. Muovendo dal particolare, il Poeta doveva poi assurgere a quella universalità che secondo molti toglierebbe le sue creazioni all’atmosfera municipale per proiettarle nel mondo dell’umanità intera e di tutti i tempi. Ma sappiamo che non occorre rinnegare il punto di partenza per meglio affermare quello di arrivo; ed il secondo non esclude, anzi ha bisogno del primo. Nella veridicità e nella intima coesione dei soggetti tolti alla vita popolare, e nella interpretazione digiacomiana, risiede appunto la forza cosmopolita dell’arte di Salvatore Di Giacomo. […]
Nel progressivo distaccarsi dall’ambiente popolare e nel superare il tono popolaresco e l’elemento municipale, è lo sviluppo della poesia ed insieme della canzone digiacomiane. Dal popolo egli ha tratto la linfa, indimenticabili rimarranno in lui gli echi del dolore e della gioia dei suoi napoletani, ma il colore locale sarà dal Poeta sempre più scrostato per pervenire alle origini degli affetti e identificarli in quelli di tutti gli uomini. Per questo indagare sicuro nel tessuto etnico, Di Giacomo – più o meno consciamente –è il più accanito odiatore di quelle caratteristiche di costume che appartengono al leggendario od al falso ed hanno fatto l’etichetta turistica di Napoli. L’essersi accostato ai facili temi di certo colore locale ed avere scritto Marechiaro, fu origine di un pericoloso equivoco che dura tuttora a proposito della poesia e della canzone digiacomiana. Tuttavia il Di Giacomo, dopo quello di Marechiaro e qualche altro esempio, abbandonò quel terreno resistendo alla facile suggestione di quegli schemi, e scrisse canzoni che affondavano le radici nell’atmosfera popolare ma sollevandosi ad altezze cui lo stesso popolo non riuscì a tener dietro: perché nessun popolano ha mai cantato Era de maggio o Marzo o Serenata napulitana. M. Vajro, La canzone napoletana dalle origini all’Ottocento, Napoli, Vajro, 1957
Ad assicurare la gloria del Di Giacomo basta la sua poesia. E su questa un buon numero di giudizi (Croce, Ferdinando Russo, Gaeta, Serra, Luigi Russo, De Robertis, Pancrazi, Flora e il recente Malato) è a disposizione di chi voglia orientarsi. Escluso, non da tutti, che Di Giacomo avesse tempra di poeta “drammatico”, i più di questi critici illustrano il cammino percorso dal poeta melico. E qui non potremmo aggiungere che qualche considerazione personale. Vorremmo ricordare, innanzi tutto, che la lirica dialettale ottocentesca (lirica, non satira o epica) si è svolta in analogia con le forme della lirica del dramma musicale: la quale sviluppa, o apre, la tradizionale aria nel senso della romanza. L’aria musicale si sostiene a un traliccio di incomprensibili parole che, lasciando immutato il ritmo, potrebbero essere diverse. La romanza è in diretta simbiosi con le parole: e a queste non si richiede di essere poesia, ma di suggerire qualche rapporto col tono effettivo della musica.
Al di fuori dell’ambito lirico c’è poi una seconda direttrice della poesia dialettale, e questa è di pura origine letteraria. È la rappresentazione epica in forme chiuse: non di rado in collane di sonetti. I primi e migliori sonetti del Pascarella e A San Francisco del Di Giacomo sono un lontano omaggio al poeta di Ça ira. D’altronde, non era già carducciano e persino “barbaro” il verso napoletano del dimenticato Capurro? Ebbene: le due tendenze coesistono, per vari anni, nel Di Giacomo. Di romanze e canzoni, talvolta canzoni corali, a ritornello, se non proprio ’e copp’ ’o tammuro, abbonda la sua poesia. Né manca la tentazione del ciclo, della “collana”: con un troppo scoperto intento, che è veristico nel Funneco Verde e in A San Francisco, o tardo romantico in ’O munasterio. Nell’altra direzione accennata appare invece decisivo il passo compiuto dal Di Giacomo nell’estrarre dalla romanza non l’aria (impresa anacronistica) ma l’arietta: ovvero quella composizione che risolve in musica una situazione colta dal vero. E questa fu la sola e vera evoluzione concessa al Di Giacomo: peraltro così importante da giustificare la sua fama. Per le ariette non ha alcun senso parlare di lirica dialettale, anche se è inimmaginabile una lirica in lingua che consegua simili effetti (l’estenuazione delle Ariettes oubliées di Verlaine non implica la componente veristica che è costante nell’arte digiacomiana). Nelle più alte punte del poeta napoletano, il dialetto è propriamente quel «volgare potenziale, virgineo» di cui ci parla il Flora nella sua introduzione alle opere del Di Giacomo pubblicate da Mondadori nella collezione dei “Classici Moderni”.
Quante sono le più belle ariette del poeta? Non le abbiamo contate, e il numero poco interessa. Alcune hanno sopportato una musica non indegna; altre, come il famoso Arillo, hanno scoraggiato qualsiasi velleità di musicista. Vale la pena di aggiungere che il miracolo fu reso possibile dalla continuità di una tradizione popolare non solo musicale ma mimetica e figurativa nella quale il poeta si trovò naturalmente immerso? Le più alte poesie del Di Giacomo sono l’ultimo frutto, squisitamente ibridato di verismo, di un’Arcadia ormai discesa al livello dei bassi. Per questo sono da giudicarsi irripetibili, e per questo il poeta fu, forse ingiustamente verso altri poeti, isolato e studiato da solo nella corrente della moderna lirica napoletana.
A Napoli Di Giacomo trovò imitatori, non veri seguaci. E dopo di lui fiorì, ma quasi tutta fuori di Napoli, una poesia dialettale non di rado elevata, ma non più “in presa diretta”. Si pensi ad alcune stupende canzonette del triestino Virgilio Giotti e si avvertirà una differenza che è di natura, non di valore. E infine, non si accrescono i meriti del Di Giacomo né si diminuiscono quelli di altri poeti rilevando che, almeno nell’arte di oggi, le stagioni dei miracoli hanno breve durata.
E. Montale, Salvatore Di Giacomo (1960), in Id., Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, A. Mondadori, “Oscar saggi”, 1997
Di Giacomo aveva dato al dialetto una forma e uno stile, l’aveva poi trasferito dal fondaco e dal vicolo nei versi perfetti della sua poesia, riconosciuta come la più lirica e la più pura di allora. Era già celebre, ma il suo metodico vivere in disparte e il suo ufficio di poeta impiegato statale, ligio al dovere e all’orario, gli conferivano un aspetto modesto e mite. Parlava poco e malvolentieri; ti appariva sempre come l’avevi visto riprodotto negli album piedigrotteschi illustrati da Migliaro o da Scoppetta, con la cravatta nera svolazzante, il bavero della giacca rialzato, lo sguardo assente. Conversava con un suo modo, esitante e perplesso, di manifestarsi, mentre tu invano cercavi in quella sua fronte ampia e serena, sulla quale ricadeva un ciuffo ribelle di capelli bianchi, il segreto della sua poesia e del suo lavoro. […] Salvatore Di Giacomo fu ritenuto dai più un misantropo, un uomo poco espansivo e cordiale, disdegnoso di discendere dal piedistallo della sua gloria per confondersi con i comuni mortali. Ma la verità era un’altra: sensibile e suscettibile com’era, si difendeva con quell’apparente freddezza di modi e con la riservatezza delle parole.
R. Minervini, “Il signor poeta”, in AA.VV., Omaggio a Salvatore di Giacomo, a cura di R. Minervini, Napoli, Azienda Autonoma di Soggiorno Cura e Turismo, 1960
Napoli non è indispensabile alla poesia digiacomiana. È storia vecchia, molto rimproverata al Poeta che se ne rammaricava con gli amici e, persino, si lasciava andare a scolparsi o a provare, come una volta con me, che Napoli lui «la sapeva, la conosceva». Pure il nome della città ricorre solo tre volte nella raccolta delle Poesie. Il dialetto digiacomiano, la lingua leggera e musicale delle Ariette è napoletano soltanto sino a un certo punto, o, addirittura, può apparire non napoletano al paragone col grasso idioma di Basile, di Cortese, di Sgruttendio, i tre classici del Parnaso sebezio. Ma è diverso pure come peso, come lega e sonorità, dalla lingua adoperata dai poeti post-digiacomiani: il gergale, ombroso e possente dialetto di Ferdinando Russo, il corrusco e greve di Bovio, quello frivolo e idilliaco di Murolo, quello difficilissimo per lessico rurale del Nicolardi, il profondo e martellato vernacolo di Rocco Galdieri e la lingua, sospetta di origini libresche, ma ariosa, fine, leggiadra di E.A. Mario; senza andare al vocabolario di Capurro, tratto dalla viva voce della plebe.
È notevole, inoltre, che dopo Croce, Tilgher, Gaeta, Flora, Vinciguerra, i saggisti più penetranti e fini della poesia digiacomiana siano stati dei non-napoletani: il Pancrazi e il Cecchi, il Serra e il siculo Borgese e il tosco-romano Ojetti. Con ciò non si pretende di riscoprire il carattere “universale” della poesia digiacomiana strettamente imparentata con la musica, già rilevato con altri pregi e virtù nel saggio famoso di Benedetto Croce; che è del 1903. Infatti l’americano Maurino, che è stato allievo di Giuseppe Prezzolini, assistito e ispirato nel suo lavoro da un gruppo di professori certamente fedelissimi crociani, non esce dalla ortodossia dell’Estetica, di cui la poesia di don Salvatore fu quasi la riprova sperimentale.
Qualche tentativo di imboccare altre vie, sebbene fragile e distratto, s’è visto di recente in certi articoli di scrittori comunisti. Lo studio del Di Giacomo e della sua poetica sulla base di un sottinteso marxistico potrebbe, non fosse altro che per la stranezza, riuscire di molto interesse. Don Salvatore fu anche il poeta della miseria e della sventura, della plebe e dei diseredati: accattoni, prostitute, carcerati, zampognari, fanciulle-madri; tutto un mondo villoniano dal quale – di proposito e con assidue ricerche, in compagnia del suo fedelissimo Vincenzo Migliaro – andava traendo notizie e ispirazioni. Ne trovava persino nella pietosa contemplazione d’un cane randagio morto sulla strada, di un mucchio di cenci o di rifiuti. Davvero, come diceva donna Matilde Serao, ogni oggetto o personaggio, il più vile e abietto, tòcco dalla sua anima magica, si trasfigurava.
G. Artieri, Allegoria di un paesaggio, in AA.VV., Omaggio a Salvatore di Giacomo, cit.
La sensualità digiacomiana è una qualità infinitamente elaborata. In fondo, la sua poesia è sensuale perché romantica e mistica, a un tempo; perché l’individuo, nel precisarsi e nel raffinarsi, nella smaniosa ricerca di autoconoscenza in cui si risolve essenzialmente il romanticismo, attinge alla base delle sue più vive espressioni. Tuttavia l’amore, nell’opera di Salvatore Di Giacomo, è la parte che più rapidamente e completamente trascende la sfera particolare. […]
La letteratura del nostro paese ha visto proseguire dal fondo del secolo XIV sino al pieno secolo XIX (soprattutto nella lirica leopardiana) la tradizione petrarchista dell’amor platonico ereditata dalla mistica laica della cavalleria. Non è audacia affermare che questa tradizione, pervenuta nei seguenti secoli solo di rado ad una vera altezza, ha avuto in Salvatore Di Giacomo una ulteriore e tardiva fase di umanità e di ringiovanimento. Di questo amore noi abbiamo trascritto qualche documento e citato qualche titolo di lirica; e da questi ritmi, infatti, esala il fantastico dell’amore digiacomiano. La varietà delle amanti riflette la umanità del sentimento inquieto, vagante, instabile. L’amore intenso, melanconico, perduto nella contemplazione delle cose, stupito nella meditazione del suo destino, questo amore di due amanti, di Salvatore e di Carmela, di Salvatore e di Emilia, di Salvatore e di Carolina è l’amore umano, umile e sublime a un tempo. In fondo, queste figure di donna non sono che la oggettivazione incosciente di un più complesso ed elevato desiderio. Il poeta, solo innanzi al mistero della natura, solo innanzi al mistero della propria tormentata umanità, sente nascere in sé la doppia necessità del pianto – o canto melanconico – e la necessità della compagnia, l’istinto sociale che spinge l’uomo rudimentale ad associare la sua debolezza a quella d’un suo simile. Non v’è da meravigliarsi se per una paura filosofica l’uomo si comporti come per una paura fisica. Qui il poeta concentra in una figura femminile, evocata o costruita, l’essenza della umanità, di quella società dei suoi simili alla quale egli chiede il conforto di non sentirsi solo. Ecco perché accanto a una donna, o parlando di una donna, Salvatore Di Giacomo, in luogo di cedere ad una sorta di ispirazione erotica, svaga in motivi platoneggianti che si alternano a considerazioni filosofiche: con quella donna egli si sente voce del mondo.
A. Consiglio, Di Giacomo e il dialetto, in AA.VV., Omaggio a Salvatore di Giacomo, cit.
La malinconia intima e profonda che è tanta parte della psicologia di questo popolo, chiusa, celata, anzi dall’apparenza, direi quasi, mondanamente e superficialmente gaia e scherzosa; la generosità impulsiva e costante nella elementarità dei sentimenti primigeni e gagliardi; la rinunzia alla felicità sopportata ed accettata come una triste condizione umana; tutti i dati e gli elementi infine della sua anima complessa, trovano nel Poeta una sintesi mirabile, rilevantesi in immagini ed espressioni che sono solo canto e poesia. […]
Singolare amalgama e ricchissimo impasto di sentimenti spesso in apparenza contraddittori fu il temperamento di Salvatore Di Giacomo. Quella sua aria assorta e distante, malinconica e vaga, a volte chiusa e scontrosa, non avrebbe mai fatto supporre all’osservatore superficiale l’amore che egli portava alla vita, alle gioie della casa, alle amicizie fidate e serene.
S. Gaetani, L’ultimo napoletano, in AA.VV., Omaggio a Salvatore di Giacomo, cit.
Sempre gli elementi primevi della poesia digiacomiana, come s’è visto sono gli stessi: quelli immutabili del mondo naturale e quelli perenni nel mondo del sentimento umano: le cose sembrano portare in una durata, che le fissa per sempre come trasfigurati sensi dell’uomo, la loro luce umana, il loro suono.
Il tempo, la sorte, il destino, l’amore, la morte, il ricordo, la malinconia; il cielo, il sole, il mare, le vele, le reti, l’aria, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco; le stagioni e i mesi, l’albero, l’erba, le fronde, i limoni, le ciliegie, il granato, le nespole; il palazzetto, il balcone, la finestra, le «lastre», i vasi di fiori, il «basso», la strada, il vico, la taverna; e immagini di donne, spesso bionde, dei loro occhi, della lor bocca, e i capelli, le trecce, la mano, la voce, il riso. E insieme: sospiri, passione, lagrime, baci, gelosie. V’è forse poeta, specie se napoletano, per il quale i temi poetici siano diversi? Ma importa cogliere la particolare umanità e il tono originale col quale il Di Giacomo inflette questi temi, nella concretezza del vero che la fantasia compone in forma perfetta, nella partecipazione del poeta alla vicenda che lo ispira. Noi già mostrammo come uno dei massimi poeti europei, il Leopardi, trattasse temi assai divulgati nel suo tempo, valendosi per giunta di un lessico e frasario tutto tradizionale. Ma quel linguaggio era rinnovato e veramente ricreato da una sincerità lirica in cui si impegnava la più profonda umanità del poeta, conferendo alle parole il segno della necessità. L’esempio rimane capitale, e serve a far intendere la natura del linguaggio poetico, di là dai temi e dai suoni nella lor grezza materia di natura, poiché magicamente la parola si purifica e diventa assoluta nel nuovo tono. E di là da ogni improprio paragone, non ci meraviglieremo che il Di Giacomo parta da temi correnti, ch’egli ha rivissuti, e che adoperi con una sua particolare intensità le comuni parole del lessico napoletano e si valga delle rime più semplici: ammore core more, doce voce, mare pare amare, chiano mano, campana luntana, mpietto lietto, e via dicendo.
Noi abbiamo contrapposto il principio della gioia vitale in Di Giacomo al pensiero di morte che è palese in tanti suoi canti: vorremmo ora vedere in sintesi i due motivi e scoprire la loro unità nella malinconia del Di Giacomo: ch’egli immagini i romanzi di tanta gente in ’E rrobbe vecchie o in Vurria desideri nel sonno esser punto da un ago avvelenato ma non saperlo e così dolce dolce morire, o ricordi le donne amate e le veda passare come fantasmi finché l’ultima che lo avvince è la Morte, quel pensiero di morte è presente: palpita nella danza in cui si evocano le dame che ballavano cento anni fa sotto gli alberi di Capodimonte: è il segreto che dà il patetico ai suoi canti.
Ma quell’idea di morte si cela anche in alcune metafore di gioia, s’egli alla donna dagli occhi «nire nire nire», non per l’attrazione della rima, anzi per il rapporto supremo tra l’amore che è l’apice della vita, e la morte ch’è il suo annientamento, dica gioioso: «Tu mi fai morire», aggiungendo nella ripresa: «Ma murì nun voglio». Egualmente dirà altra volta: «Ca io te saccio – e ca moro – pe te!». Né vale opporre che si tratta di correnti espressioni napoletane, comuni anche ad altri paesi: si sa che il Di Giacomo approfondisce col suo tono e con la sua scelta ogni espressione popolare. La sua gioia è così vitale perché l’oscuro senso della morte, contrapposto non palese ma arcano, quell’ombra che è il barbaglio della gran luce, la vivifica e le accresce valore. La malinconia del Di Giacomo sorge tra gioia e dolore (e senza la certezza della morte il dolore non esisterebbe) come serenità di canto in cui la bellezza vitale delle cose, le passioni del vivere, l’angoscia di certi destini, si placano nella consapevolezza della parola, prima coscienza poetica del mondo umano. Tutto ciò avviene nel genuino rapporto tra il poeta e le cose, e non è un giudizio filosofico ma la coscienza verbale di quel rapporto in una esaltazione lirica.
Scoprire nella vicenda della cronaca il ritmo ascoso che ne ordina tutti i particolari a un significato universale: inventare cioè un fatto sullo stimolo di una notizia che ha destato il nostro animo a una passione: elevare la realtà di un attimo a una favola ove è scoperta la metafora eterna in cui si ripete l’iniziale creazione dell’universo: questo fanno sempre i poeti: e a noi tocca soltanto di volta in volta indicare i modi innumerevoli che il singolo poeta adopera a quel risultato.
Salvatore Di Giacomo si valse sopra tutto di un metodo musicale nel cui moto gli affetti e le visioni si facevano lentamente remoti come voce che s’allontana e sembra morire: eppure vive, perché non v’è al mondo un cimitero dei suoni spenti e degli echi caduchi.
Il Di Giacomo che più conta è quello delle ariette, ove perfino il genere musicale dei versetti entra intenzionalmente nell’ispirazione. E già in quel titolo, che non va circoscritto a due soli volumetti, il Di Giacomo palesemente riconobbe il suo metodo melodico. E se par che il suo verso lo franga, e chieda pause foniche diverse da quelle della nativa quantità, questo è un innocente inganno dei suoni. Nessuna delle sue parole potrebbe essere isolata senza che tutta la rimanente onda del versetto non l’attragga, per virtù quantitativa, o la mantenga sospesa nella misura della battuta, finché questa non s’è interamente spiegata. Perciò la pronunzia delle ariette digiacomiane anche meno di quella degli altri suoi versi, che contano sui rilievi visivi e plastici e la densità emotiva, può essere disciolta dall’intero verso e dalla simmetria metrica.
L’arietta ha musicato un sentimento di malinconia, di tenerezza, di gioia vitale: talvolta in un canto diretto e spiegato, sebbene sempre discreto, come è il tempo lontano in cui par risuonare. (Nessuna musica antica si può immaginare fragorosa: gli anni divenuti secoli sembrano avere ingialliti e stinti i rumori: un’aria settecentesca, pur se gridata, serba sempre un non so che di voce sbiadita e di lontananza, per successive purificazioni.) Ma anche qui talvolta l’arietta è un canto di schermo, ove il linguaggio figurato si piace di ampliare ogni visione e ogni affetto e in quella ridente espansione metaforica celarsi pudicamente per non irrompere nell’immediatezza sentimentale. Nel poeta è la coscienza di quel suo gioco di toni e di gradi, ove la malizia vuol coprire una reale facilità di emozione, l’iperbole e l’ironia che abbiam detta allo stato puro (quando cioè la parola deve essere intesa semplicemente nel suo senso contrario – che non ha nulla in comune con l’ironia riflessa del moralista) vogliono rattenere una flagranza passionale e graduarne la confessione vocale. Così la musica non è scoperta nell’agevole superficie, ma attinta al suo luogo primevo donde sale per farsi il suo vero corpo e la sua vera ombra sonora.
Allora il Di Giacomo è musicalmente più segreto: le parole cantano sottovoce. In certe ariette la melodia digiacomiana è proprio un’essenza dell’anima, la medesima con cui si compone la fantasia figurata e fonica e tattile dei sogni: una musica che si iscrive nella sostanza del silenzio.
E quando s’è parlato di musica settecentesca s’è indicato un criterio di lettura, legato alla tradizione delle ariette del melodramma. (Il Di Giacomo ammirava il Metastasio perché sapeva leggerlo.) Il metodo musicale del Di Giacomo migliore ha una chiara parentela con gli scioglimenti lirici del melodramma. Nelle ariette si condensa musicalmente ciò che le varie scene e i recitativi prepararono: qui la sua musica non è polifonica, non è orchestrale: è puramente monodica. La sua lirica essenziale non comporta lunghi sviluppi: s’addensa in un motivo e se ne irraggia a cerchio, come la luce breve di un’aureola.
F. Flora, Nuova lettura delle poesie e delle prose di Salvatore di Giacomo, Napoli, Ente Provinciale per il Turismo, 1961
È stato detto che parlare di Salvatore Di Giacomo sia cosa ardua. Ed è vero, anche se sembra facile comprenderlo, tanta semplicità è in lui. Difficile è penetrarne lo spirito, volto al senso dell’universale, poiché egli seppe attingere le più alte vette dell’arte, per contenuto e per forma, con magistero di mezzi espressivi, attraverso quella «difficile facilità di stile» che, per primo gli riconobbe il Croce, come divino privilegio di pochi. […]
Il lirismo digiacomiano nasce da un sentimento profondo, ancorato al senso emotivo e meditato del vivere, da una metrica interna, connaturata al poeta che sente la poesia come musica. Ciò è dimostrato dalla sottintesa ricchezza di contenuto discorsivo e dalla particolare stesura della strofe: la ripetizione finale del primo verso, il motivo corale, le forme interiettive o evocative, il ritornello, l’uso appropriato di pause. Questa tecnica non schematica, ma variabile in senso funzionale rispetto a quanto necessita esprimere, dà la misura dell’arte digiacomiana, attraverso una dizione ingenuamente semplice, che caratterizza il poeta. […]
Per la sua trasparente tersità di cantore d’anime, umano per la sua nobile e confortevole spiritualità, attuale per la fresca aderenza della sua poesia alla realtà sempre uguale del vivere, Di Giacomo appartiene agli spiriti più rappresentativi della nostra letteratura.
B. Zampano, Salvatore Di Giacomo, in Letteratura italiana. I minori, vol. IV, Milano, Marzorati, 1962
Il Di Giacomo mosse, specie nelle novelle e negli scritti teatrali (’O mese mariano, 1898; Assunta Spina, 1909), dai modi veristi, ai quali si richiamano anche certe sue corone di liriche (’O munasterio, A San Francisco); ma, come accadde allora a tanti altri, dissolse presto l’eredità verista in un lirismo intenso e purissimo, fatto quasi di nulla – si direbbe che tante sue liriche siano “canzonette napoletane”, e come tali infatti furono musicate e divennero popolarissime: A Marechiare; Luna nova –, dove, tuttavia, le parole più semplici – mare, terra, sole, cielo, amore – sono impregnate di una carica lirica intensissima, in estrema purezza melodica e in una piana limpidezza di disegno e di linea.
G. Petronio, L’attività letteraria in Italia. Storia della letteratura (1964), Palermo, Palumbo, 1999
Il riconoscimento dell’importanza del poeta, la sua universale validità al di là di ogni presunto limite di origine dialettale, i suoi rapporti col verismo e la trasfigurazione del reale in fantastico, sono, ad esempio, acquisizioni durature della critica digiacomiana, mai contraddette, dopo il saggio fondamentale del Croce. L’analisi formale e stilistica dei componimenti ha fatto, e col De Robertis e col Russo e col Flora, alcune fra le prove più persuasive che riguardino oggi i nostri testi letterari. La ricerca erudita e l’acuta puntualizzazione dei problemi biografici e storici, sono pregi indiscutibili dell’odierna cultura napoletana, dallo Schlitzer al Doria.
Accanto a questi aspetti positivi, esiste una serie di problemi ancora da porre o da sviluppare. Ne indichiamo qualcuno, senza la presunzione di voler essere esaurienti: il rapporto fra Di Giacomo e il decadentismo, talvolta frammentariamente e polemicamente affermato o negato, e tuttavia mai impostato storicamente; la ricerca delle fonti e lo studio della tradizione culturale in cui il poeta si inserì; l’esame della poetica digiacomiana e del suo rapporto dialettico colla poesia; l’analisi dei rapporti che intercorrono fra le diverse forme espressive (lirica, teatro, novelle, erudizione) care all’artista.
Sono tutti problemi che, in fondo, mi pare si riducano alla fondamentale esigenza di “storicizzare” l’opera digiacomiana, non nel senso, evidentemente, di aggiogarla al contenuto o al contingente, ma proprio per chiarire meglio il valore di un’arte che poté universalizzarsi soltanto perché partì da una complessità, di esperienze, di ansie, di meditazioni, ben più ampia di quanto comunemente si creda. Se è stato compito nobilissimo della critica che va da Croce ai nostri giorni affermare che Di Giacomo fu un grande poeta e interpretare la qualità della sua poesia, il compito, non meno suggestivo, che mi pare si prospetti dinanzi ai critici di oggi e di domani, è quello di mostrare come l’artista napoletano sia pervenuto alla sua meta, di spiegarci non solo “come” ma anche “perché” sia grande.
S. Rossi, Salvatore Di Giacomo. Storia della critica (1903-1966), Catania, N. Giannotta, 1968
Il Di Giacomo non è davvero un autore semplice. Come nelle composizioni in prosa e teatrali, nella sua lirica sono rilevanti e frequenti dislivelli. Anche da uno degli esegeti più entusiastici ed esclamativi, il Flora (ma qualche cosa di simile si leggerebbe nel Sapegno, nel Momigliano e tanti altri), fu messa bene in rilievo la diversa e decrescente dosatura “veristica”, dalle novelle e dai drammi alla lirica, passando per i poemetti in sonetti o in polimetri, come Zi’ munacella, come ’O funneco verde, ’O munasterio, A San Francisco, nei quali frattanto non ritengo che molti vorrebbero sostenere che sempre si trovi il miglior Di Giacomo in versi. A San Francisco è un poemetto di altrettanta truculenza che celebrità. Ma non avrebbe ragione chi pretendesse che esso sia artisticamente superiore, che so io? alla Serenata o a Er morto de campagna del Pascarella.
Troviamo, nell’arte del Di Giacomo, una quantità di altri aspetti. Come un Di Giacomo conviviale, che si presta, come in Don Aceno ’e fuoco, alle riprese e alle acclamazioni d’un coro popolaresco un po’ riscaldato dal vino. O nel quale, come in Arillo, animaluccio cantatore, la rivelazione che improvvisamente s’illumina da una situazione lirica, sembra voglia lungamente svolgersi in una sommessa e commossa meditazione. Nell’indice dei versi del Di Giacomo, se si torna a scorrere l’elenco dell’ultima rubrica: Appendice alle poesie, si rimane quasi allibiti, accorgendoci degli svariatissimi componimenti a cui non si è tentato di rendere giustizia nemmeno con una parola, una mezza citazione.
E forse non è possibile fare altrimenti. Era stato il Di Giacomo stesso che indirettamente si richiamò a Cimarosa e alla “musica antica”, al Settecento. Altri, come s’è detto, pensò alla lirica eolica, il riferimento alla quale non può tuttavia che rimanere molto vago. Per la rassomiglianza di tante occasioni e motivi di canto, per la compendiosità ed altre caratteristiche secondarie, si potrebbe pensare anche agli epigrammisti dell’Antologia palatina. Certo è che la maggiore lirica del Di Giacomo è degna di tutti questi confronti; al medesimo tempo che per un verso o per l’altro li elude e se ne sta contenta nella sua propria grazia.
E. Cecchi, Due poeti dialettali: Pascarella e Di Giacomo (1969), in N. Sapegno (diretta da), Storia della letteratura italiana. Dall’Ottocento al Novecento, Milano, Garzanti, 1988
L’intensità poetica, la durata musicale, la sintesi trasfigurativa perfetta, la coerenza dello stile, in un senso compiuto e classico, sono raggiunte in Ariette e sunette, che fecero la loro apparizione nel 1898, e in Canzone e ariette nove (1916).
Nelle esigue compagini fantastiche, l’impeto ispirativo fonde l’elemento figurativo con quello coloristico, e conferisce ad entrambi una quasi iridescenza di favola e sogno: è l’istante supremo, che risolve e riscatta il reale, innalzandolo ai fastigi dell’avventura poetica. I versi diventano teneri, vibrano nella loro stupefatta armonia, prospettano le visioni e le similitudini, che sono esse medesime parole e concordanze sintattiche; perché il vigore linguistico è la stessa sintassi, che diviene invenzione dialettale. Ogni sfumatura, nelle Ariette, ha un valore tonale e cromatico, ogni chiaroscuro serve a rendere plastica e vivace l’intuizione ardita delle cose. Nei sonetti, che racchiudono spesso in sé una forte carica intuitiva, l’onda musicale ripete l’ansito emotivo, che si scioglie e si adagia fra le giunture degli endecasillabi scorrevoli e parlati. Il realismo di certi affreschi ed acquerelli, di alcune visioni effigiate nel bronzo delle quartine e terzine (pensiamo alla Scuola di Posillipo, che Di Giacomo ammirò e interpretò criticamente con tanto acume), anche quando si accenda di insospettati bagliori è reso con una pacatezza, che sa di intimo tremore, di pudico e sorvegliato abbandono. In ogni scoppio improvviso di passione serpeggia, balena un riflesso di vita, un anelito, un sussurro di dolcezza, che il poeta evoca efficacemente in un verso e a volte in una sola battuta di limitatissima durata. Gli avvenimenti complessi, gli amori incontrollati ed irrazionali sono avvertiti con distacco e serenità, non si frantumano e liquefanno in una analisi minuta e dispersiva. […]
Agghindati nei ritmi, nelle forme metriche, nelle stesse assonanze polifoniche, e nondimeno freschi e vividi, i componimenti digiacomiani non lasciano adito a dubitare: sono indicativi di una tendenza spirituale, essenzialmente amorosa. Di Giacomo è un poeta d’amore, anche se non sembri ad un primo esame sommario e superficiale: e le sue poesie più belle e prestigiose sono poesie d’amore.
F. Bruno, Salvatore Di Giacomo, in Id., La scapigliatura napoletana e meridionale, Napoli, La nuova cultura, 1971
[Commentata la poesia Cimarosa, Enzo Siciliano afferma:] Oh, questo amore visto e cantato, questa radice voyeuristica così morbosa e così limpidamente ricreata. Sarebbe stato possibile fuori del dialetto? E possibile fuori della forma esattamente misurata al metronomo dei settenari, di quei settenari con cui sono scritti, nei libretti (non solo settecenteschi) d’opera, duetti e arie?
Ecco Di Giacomo, che si vagheggia tal quale un Cimarosa redivivo. Ma un tal vagheggiamento al poeta riesce, anche quando più dolorosa brucia la ferita. Fuori dalla felicità espressiva, quali tormenti, quale diversa ebrezza. Di Giacomo visse nella disperazione più nera, in quel dissidio per l’amore negato e cantato, evitato e bramato: un amore che è una specie di maledizione, l’amore che non deve oltrepassare la soglia del desiderio o dell’amitié amoureuse: – e si spenga in un soffio di paura.
Nei versi che sicuramente Di Giacomo scrisse per Elisa (’Na tavernella…, Parole d’ammore scuntento, Palomma ’e notte, Ll’ ombra, ’E matina pe Tuleto, Tutto se scorda), ’Na tavernella…, a parte, – dove con trepidazione è ritratto un gesto, un gesto solo di Elisa che accarezza a lui una mano, mentre la pietanza si raffredda – ovunque c’è un sentimento di pucciniana desolazione amorosa, il pucciniano rinvio, la certezza della totale non verità e impossibilità dei rapporti fisici.
E. Siciliano, Prefazione a Salvatore di Giacomo, Lettere a Elisa 1906-1911, a cura di E. Siciliano, Milano, Garzanti, 1973
Il rapporto tra Salvatore e l’ambiente va assai oltre la sua “depressione cronica” o la sua grande “tristezza autobiografica”, che del resto non sono affatto esclusive nella sua opera e particolarmente negli anni giovanili. Anche se qualcuno si è preso la pena di calcolare che nei suoi versi Napoli è citata per nome soltanto tre volte ed il Vesuvio mai, pochi artisti come lui appartengono al panorama della propria città; ne hanno colto l’essenza musicale e figurativa, contribuendo potentemente a definirla e talora ad inventarla; ne hanno studiato amorosamente il passato; ne hanno percorso quotidianamente le strade e le piazze. La sua giornata è scandita tra le sue ricerche in biblioteca e i vagabondaggi per «gli antichi decumani, i cardini, le strettoie, gli angiporti». È facile incontrarlo nei vicoli dei vecchi quartieri in cerca di un convento o di un ricordo «con la cravatta nera svolazzante, il bavero della giacca rialzato, lo sguardo assente», e non di meno bellissimo e azzimato come un “guappetiello”, secondo l’affettuosa definizione della Serao.
La sua passione per i documenti storici è tale che in un certo periodo, per completare uno studio sui tre conservatori musicali, s’introduce a più riprese di notte e con una chiave falsa nella biblioteca dei Gerolomini. Raffinato intenditore della cucina tradizionale, pilota i rari amici e le tempestose innamorate in piccole osterie “nascoste”, dove assapora «pietanze care al suo palato plebeo», cadendo di tanto in tanto in trasognati silenzi. La sua misantropia, la riluttanza alla conversazione brillante e all’approccio cordiale, nascono da una profonda timidezza. I compagni migliori sono per lui pittori e scultori – Morelli, Dalbono, Migliaro, Gemito, Luca Postiglione – piuttosto che letterati e giornalisti dei quali, scontroso ed ombroso com’è, detesta la loquacità, la superficialità, i pettegolezzi; eppure è capace di sedere per ore al caffè Gambrinus, a discutere e ad ascoltare. Chi gli vuol bene sa che non bisogna interromperlo e neppure sollecitarlo: egli emerge improvvisamente da una meditazione, da un sogno, da un momento di malumore, per accettare il colloquio ed allora sa essere anche pungente ed allegro.
Pittura e musica sono il nutrimento del suo spirito. I maestri dell’impressionismo, anche quelli napoletani con cui trascorre buona parte del suo tempo lo influenzano solo nella misura in cui egli è portato dall’istinto a trasfigurare magicamente la realtà, descrivendola con tocchi rapidi ed essenziali, attraverso allusioni ed accenni. Per gli interni dei suoi primi racconti si individuano sorprendenti affinità con Gioacchino Toma, tematica risorgimentale a parte, per la scabra sobrietà del suo impegno, si ricordano l’amicizia ed il vivo suo apprezzamento per Michele Cammarano; ma probabilmente è nel giusto chi sostiene che Salvatore attua la sua mediazione poetica filtrando tutta l’esperienza della scuola di Posillipo, in particolare quella di Giacinto Gigante, tanto nell’interpretazione “notturnistica” del paesaggio, quanto in quella «commossa della realtà quotidiana più modesta, riscattata in forza di sentimenti e di rigore di linguaggio». Di impressionismo si parla anche in un senso più letterale ed elementare, a proposito dell’ipersensibilità dello scrittore. Egli stesso, in una conversazione con Alfredo Gargiulo, avrà modo di sottolineare che per lui «l’impressione è tutto», qualcosa di più importante della cultura, di più determinante dell’ideologia o dell’educazione: un evento, un grido, un motivo che porta l’artista dallo «stato di tranquillità al turbamento».
La sua musicalità si alimenta essa pure con la frequentazione del passato cittadino, gli studi sui conservatori, la lettura di Metastasio, anche «la vocale modulazione della gente napoletana», per quanto ovviamente essa viva di vita autonoma soprattutto nel lirismo fantastico, nella sognante dolcezza, in un metodo calibratissimo di lavoro «nel cui moto, gli affetti e le visioni si fanno lentamente remoti come voce che s’allontana e sembra morire; e pur vivi perché non v’è nel mondo un cimitero dei suoni spenti e degli echi caduti».
A. Ghirelli, Salvatore di Giacomo, in Id., Storia di Napoli (1973), Torino, Einaudi, 1992
A tutta la sua opera, ma al corpus delle sue poesie in particolare, Di Giacomo dedicò un’attenzione puntigliosissima, come attestano le inclusioni, e più le esclusioni, dalle edizioni del 1907, 1909, 1927. E allora non è un caso che siano collocate l’una accanto all’altra, Ammore abbasato dell’89, e Vurria…, del ’95. […]
Si cerchino ora nella sua ultima stagione i momenti auto ed eteropunitivi, meglio se sperimentalmente costruiti: pensiamo a LI’ ombra, oppure a Parole d’ammore scuntento: «Nu’ scénnere p’ ’a Posta! Nun te fermà llà nnanze!/ Essa p’ ’a Posta saglie: tu ’o ssaie: tu ’a puo’ ncuntrà!/ E si accummience ’a capo? No, no! Meglio è c’ ’a scanze!/ Tu ’a tuorne a fa’ fa’ ianca: te tuorne a turmentà!…// Siente ll’ amice: spezza. Ce vo’ curaggio. E penza/ ca ’o tiempo è cchiù d’ ’o miedeco e ca te pò sanà…/ Nn’ ’o bbide ca tu stesso vuo’ fa’ sta sufferenza/ cchiù longa, cchiù pugnente, cchiù amara a supportà?…»,2 la prima del 1906, la seconda dell’anno precedente. Si scorgerà attestata la tarda vocazione del Di Giacomo a sistemare in una struttura poetica capace di raccontare stati d’animo e sentimenti che avevano antica cittadinanza nei suoi versi; e qui rinviamo a Lettera malinconica dell’86, a Cuntrora, dell’88, e così via. Si aggiungano le situazioni istituzionalmente disperate di ’O munasterio e di A San Francisco e si vedrà che giungere a parlare addirittura del “futuro costruito come orrore” può non essere una forzatura intellettualistica, bensì un fedele per quanto sorprendente rispecchiamento storico. Certo, adoperare questa formula ed evocare senz’altro il decadentismo sembra essere tutt’uno, con le non poche conseguenze che comporta. […]
Ma, in verità, ad evitare la possibilità di questa e di altre anfibologie stanno poi alcuni fatti essenziali. A proposito del Munasterio, per citare un caso, basta infatti tener presente come l’età di Di Giacomo avesse trasformato in dolente elegia quel tema della monacazione che fino alla Capinera verghiana aveva conservato ancora buona parte della illuministica ed “antipapista” carica polemica che gli derivava dall’origine anglo-francese (ci stiamo riferendo, ovviamente, sia alla “narrativa gotica”, che alla Religieuse). E quindi è sufficiente qui richiamare accanto a Suor Giovanna della Croce della Serao, dedicata, come si è già ricordato, a Paul Bourget, la stessa Suor Filomena dei Goncourt tradotta dal Di Giacomo nel 1886 per un editore napoletano.
La significativa sensibilità per la deliberata segregazione dagli affetti della vita era dunque un antefatto scoperto e rivelatore. E tuttavia, se è lecito presumere che Di Giacomo nella costruzione delle sue parabole espiative, specie le più intellettualisticamente progettate, vada al di là, varchi cioè la decisiva soglia di una consapevole poetica decadente, è certo più vero, in un giudizio globale sulla sua opera e sulla sua personalità, che questa ipotesi non può essere confermata. Manca infatti, nella pochezza o inesistenza di un suo discorso o di elementi utilizzabili per una sua poetica non deduttiva, e già questo vuol dire molto, ogni accenno di esplicita consapevolezza al suo “decadentismo”. Il che sarebbe bastevole per inficiarlo radicalmente se, riportandoci di nuovo all’ambiente nel quale Di Giacomo senza soluzioni di continuità ha operato, non richiamassimo il ruolo che nel disinteresse o nella polemica verso la civiltà del decadentismo ha avuto Benedetto Croce. Si pensi, sempre nell’area napoletana alla sua “responsabilità” culturale nell’aver avallato l’attardata poesia (in lingua) di Francesco Gaeta (Napoli 1881 - ivi 1927). Certo, i rapporti del Di Giacomo con Croce anche nel non breve periodo in cui furono assai frequenti e intensi, non ebbero mai quel carattere di discepolato, proprio di quelli appunto del Gaeta. Eppure l’influenza crociana fu per tanti segni indiscussa: basti pensare agli interessi del Di Giacomo incoraggiati e potenziati dal Croce – “Napoli nobilissima”, la “Rivista di topografia e d’arte napoletana” nata nel ’92 principalmente dalla loro collaborazione – o addirittura ai consigli e suggerimenti sul suo lavoro specifico che si possono reperire in così gran copia scorrendo il carteggio fra loro intercorso. Perciò, non deve sembrare azzardato attribuire anche all’ascendenza crociana l’ininterrotto indugio nel limbo del suo forse più ascoso dissenso con la realtà. Ma per fortuna, a scongiurare sempre rischiosi approcci ipotetici, ci sono ’A rivista (1889), Tiritì tiritommolà (1890), ’O vi ’lloco, non porta ’o mbrello (1891), Carcioffolà (1893), Ho un ben formato cuore (1897), e così via; vale a dire c’è l’elevato numero delle presenze digiacomiane nel filone salace della produzione piedigrottesca o nell’ambito del neonato Café-chantant – due istituzioni divenute a loro volta contenuti caratterizzanti, lungo una parabola che parte da Di Giacomo e arriva a Raffaele Viviani. E in tutt’e due i casi si tratta di testi che obbediscono allo schema del sorridente ammiccamento, del sottinteso erotico ridanciano, con risultati assai convincenti, ma che tuttavia non riescono a far dimenticare la loro irrimediabile estraneità alle erinni che pur visitarono il poeta sino all’insorgere del suo precoce silenzio, senza il conforto di alcuna mitologia. Quella che si può mettere insieme da componimenti come Suonno ’e na notte ’e vierno (1901) oppure ’O tiempo (1907), oppure ancora Lassammo fa’ Dio… (1913), è soltanto la riprova dell’eccezionale, organica possibilità di coesistenza nell’opera di Di Giacomo dei più eterogenei nuclei genetici.
A. Palermo, Salvatore Di Giacomo, in Id., Da Mastriani a Viviani, Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento (1972), Napoli, Liguori, 1987
Giuseppe Marotta, con un pubblico invito su un giornale di Milano, si è rivolto ai colleghi scrittori di Napoli, esortandoli a tentare la canzone in nome di un’antica e nobile tradizione che minaccia di decadere ad opera degli imitatori e dei plagiatori. Giovanni Artieri risponde su un quotidiano di Roma, declinando l’invito e argomentando con molta proprietà sulle “vie sconosciute” per cui le vecchie canzoni arrivarono a una fortuna quasi universale, esponenti di una vita letteraria che raccoglieva eredità e tradizioni di tre secoli di lirica piscatoria e rustica, contemporanee di una cultura «d’alto livello» che può riassumersi nei nomi stessi di D’Annunzio e di Croce. Artieri dice chiaramente: «Furono aristocrazie artistiche a produrre quelle canzoni napoletane che ancora oggi stupiscono per la loro irripetibile bellezza» e conclude: «La società letteraria che formò il clima per questa creazione non esiste più. I tempi non consentono di rifarla».
Non chiamato in causa direttamente dal Marotta, ma tentato dal ricordo d’essere a modo mio napoletano anch’io, confesso che mi dispiacerebbe perdere l’occasione di prender parte al colloquio e dal chiarire a me stesso le ragioni che possono almeno in parte spiegare, più che la caduta della canzone, la decadenza dello stesso “napoletano” dal rango di lingua di un paese storicamente preciso e autonomo al ruolo di un dialetto farsescamente corrotto e spiegato nella mimica dell’intellegibilità nazionale, nella servitù dei personaggi.
Per quanti sforzi si facciano, crediamo che il teatro – sia pure quello dei De Filippo – o la narrativa – sia pure quella di Marotta o di Rea – siano e restino implicati in questa crisi di trasformazione che dal “dialetto-lingua” di un Di Giacomo è pervenuto via via alla “lingua-dialetto” degli scrittori napoletani che scrivono in lingua. (Non faccio questione di meriti e non intendo addebitare all’opera degli amici scrittori quello che invece va loro accreditato come risultato di una crisi che prima toccò il Manzoni e il Verga).
Così, se di una decadenza si deve parlare, questa è da riconoscere in tutta la poesia in dialetto dopo Di Giacomo, a cominciare da quella (di un Russo, di un Galdieri, di un Murolo) che cercò di perdere la provvidenziale altezza letteraria e l’astratta musicalità cui l’aveva portata il poeta delle Ariette per aderire a un “parlato” realistico e attuale. Di questo “parlato”, già in partenza, s’accentuarono i confini e le polemiche per la contemporaneità dei tentativi letterari che n’erano fatti in lingua e in “maccheronico” (si ricordi per tutti Ugo Ricci e, meno, il Catapano e il Venditti) su trame chiaramente crepuscolari, da Gozzano a Ragazzoni. La poesia napoletana dopo Di Giacomo aveva perduto la qualità prima d’ogni arte, quella “finzione” che porta il poeta a avere dalla parola e dal verso la verità delle cose mai viste e che tutti con lui credono di vedere per la prima volta.
Poiché siamo in tema di canzoni, pensate a Marechiare. Sembrerebbe che Di Giacomo l’abbia scritta in loco, a sé indicando la finestra, il vaso di garofani e l’acqua che murmulea. Eppure non c’era mai stato. Solo più tardi, in un giorno d’aprile e in compagnia di una miss, egli si portò a vedere quei luoghi che, senza conoscerli, aveva visto e cantato.
Soggetta ai suoi significati storici, la poesia napoletana dopo Di Giacomo si fa pietosa e mezzana insieme, indulge con la canzone all’usura della sua inerzia visiva, indifferente pur tra i lenocini degli effetti che cerca. Si contagia di polemica, esponendo la capitale decaduta a un assurdo primato di nostalgia, a una vocazione di rimpianti, estranea per altro alla natura insieme fredda, disperata e mercantile del suo popolo. Non azzecca più l’umore, l’ironia, la destrezza dondolona con cui si schermiva nell’“arrassusia” (questa parola così napoletana che vuol dire a un di presso, quanto al solo significato, “lontano sia”, perduto come ha nella traduzione quel valore di scongiuro segreto con cui ogni sentimentale è pronto sempre a rassicurarsi col suo buon senso). Punta sulla passione diretta e perde da smodata il tenero riserbo, l’incantamento tenuto e esteso nella voce, la sua virtuosa perizia sorgiva, il suo lievito virgiliano e arcadico. E per ogni napoletano, accanito a vivere sulla terra, polarizza un’immaginazione da emigrante, da sconfitto e da privilegiato insieme.
E allora, chiedere la canzonetta oggi è lo stesso che voler far rivivere una poesia in dialetto già dissolta nella narrativa e nel teatro in lingua e in mezzalingua che ne tentano gli scrittori più dotati. Significa tradurre in una significazione sconsacrata e ormai fuori mura quell’intimità popolare e colta che a Napoli bastava e era intellegibile di per sé, senza forzature, dissimulata nel gioco dispettoso e ilare della vita. La poesia in dialetto e la canzone erano scritte da napoletani per una Napoli che si lasciava visitare dagli stranieri, italiani e non italiani, e che mai, sino a Di Giacomo, rispose passivamente alla loro curiosità, conformandosi all’immagine che se ne era convenuta. Quella poesia napoletana in dialetto era una poesia concepita alla radice, filologicamente, nei mezzi di una lingua colta e popolare, in una sintassi di rapporti altrimenti intraducibili: non era versione di idee amorose e musicali, ma ineffabile puro; pudore, arcano, sì da aprirsi con le Ariette ai sentimenti più semplici e universali.
Per far rivivere oggi quella poesia e le canzonette che ebbero la stessa voce, occorrerebbe per assurdo tornare a rinchiudersi nelle mura di una Napoli autonoma, nelle gelose matrici della lingua materna e riavere fisicamente con le parole un modo d’essere associati alla sua natura ancora segreta. Non basta tornarci da figliuol prodigo, magari con la mente.
Una domanda semplice può bastare. Conoscono, gli scrittori napoletani, alle origini, alla sorgente dei significati e nella storia delle rispondenze tra il segno e le cose, la lingua di cui dovrebbero servirsi per tentare nuove poesie e nuove canzoni? Non è possibile, se essi sono portati a vivere, nei modi e nella struttura dell’animo, la crisi di una lingua nazionale che debbono originariamente far propria. Come saprebbero resistere al doppio gioco linguistico e alla continua simulazione naturale, se non traducendo sempre e rinunciando allo stile?
Si tratterà, per una Napoli che non ha avuto ancora un Verga, un Pirandello, e, tanto meno, un Alvaro, di sperare che i suoi scrittori smettano dal considerarla un luogo poetico e umano di eccezione, uno spettacolo da ricondurre ogni volta all’ammirazione, alla meraviglia e alla pietà degli estranei.
È significativo che uno dei più bei libri su Napoli, tuttora valido, sia stato scritto da un toscano, il Fucini. Dalla Serao a Verdinois, per non parlare ancora del Di Giacomo, fu iniziato un tentativo di storia umana, di dialogo, nell’impaccio di una lingua nazionale insieme timida e temeraria che esprimesse dall’interno del suo travaglio il modo di rendere ancora proprio, nel fitto di una gremita visività, quel mondo teso all’estremo della disputa e dell’alterco. Dopo, a noi pare che si sia perduto, magari per pagine belle o curiose, quel senso più serio di commedia umana, di appassionato balzacchismo che a Napoli sembrò connaturarsi con l’empito psicologico e naturalista di tutta una straripante piccola borghesia popolare uscita dal dialetto ad azzardare una lingua legalitaria con la tetra e ambigua risibilità degli increduli.
Qui, il dialetto rimase a provocare sordidamente i suoi contrasti nostalgici, le sue farse sentimentali, i suoi intrighi mitici: qui, la canzone, scaduta ormai per sempre a un compito puramente celebrativo, rimase quale esercizio di vanificazione storica a far perdere a Napoli le tracce della sua stessa contemporaneità, riducendola a puro luogo letterario, a un’imbelle Utopia.
Non tocca a noi dire se vi sia stata o se vi sia una poesia in lingua che abbia dato una voce nuova all’antica melica che ebbe in Di Giacomo l’ultimo grande poeta. È una domanda che ci tocca troppo da vicino e alla quale abbiamo risposto – se abbiamo risposto – con la difficoltosa presenza dell’opera nostra e, più ancora, con la fedeltà a un’immagine larga di tutto il Sud fisicamente ricongiunto al suo riserbo di provincia fuori le mura della vecchia capitale.
Vorremmo solo ricordare ai narratori, ai teatranti, agli storici che non siano soltanto storicisti, il dovere di uscire all’aperto delle proprie contraddizioni dialettali per ritrovare l’intimità sorgiva di Napoli e del suo popolo nella sotterranea coscienza, prima ancora che nel carattere, nelle umiliazioni e nelle offese che non siano già volte all’orgoglio e al contento, nella commedia che non sia una farsa. Si tratta forse soltanto di “durare”, com’è fatica di ogni vero amore.
Anche a costo d’essere un napoletano cattivo, introspettivo e cinico, come teme l’Artieri, dirò che una Napoli sfinita dalle carezze e dal solletico, chiamata a dissiparsi nella cronaca, è ancora una vergine corrotta, ma intatta. Occorre portarla veramente a nozze, a nozze di sangue, darle il sospirato amante che tante canzoni le hanno promesso invano. Occorrerà che dai feuilletons della Serao e di Verdinois, dagli stessi romanzi d’appendice, in quell’empito di commedia umana, nasca un grande scrittore nuovo, così “freddo” che a toccarlo, tutti, ci scotteremo le dita.
Guardo Piedigrotta che passa nella fresca sera di settembre. Nel fatuo tentennamento che è d’ogni corteo, al vivido spettro dei bengala, questo popolo non fa che portare la morte sulle sue spalle. L’aria s’allarga nella tenebra. Una piccola donna lontana sbocca al balconcino della sua scena di carta. Qui l’aspetta l’imbelle innamorato con i suoi condizionali di rito.
«Vurria, vurria…» Vorrebbe tutto quello che ha. Il suo desiderio è la figura dell’appagamento pieno, un inevitabile assurdo in cui gongola di certezza e di onore. Questa rituale nostalgia del desiderio è il più incredulo tentativo di riavere un’immagine e una prospettiva del tempo nelle occasioni del vivere. Per un popolo saturo di cultura storica, il desiderio è l’errore irrealizzabile, il presentimento di un romanticismo che non lo tocca.
Tutti, intorno a me, cercano l’angoscia, il fantasma fuor dalla storia: perché tutti militano oscuramente nella storia e infermi, patiti, pazienti, se ne assicurano le istituzioni e quasi il regolamento. Ogni pensiero si consuma nell’appagante ironia di lasciar cadere l’eroe, il ribelle. Qui la camorra e la malavita sono una “onorata società”. I vigliacchi si sentono forti insieme.
La canzone è l’unico tentativo di eversione che la storia della cultura napoletana ha permesso, isolandolo nella neutralità della sua sintassi condizionata. Affacciato sempre alla vertigine, l’uomo solo non potrà mai fare un passo al di là delle sue ipotesi, mai tentare di vivere la sua avventura. Egli tratta e può trattare di sé tutte le suggestioni di rottura senza mai rompere, ancorato sempre a quel filo sottile di identità che lo riporta all’anagrafe, al registro inesorabile della vita e della morte comune.
Pensando a Di Giacomo, trova un preciso significato l’amore ch’egli ebbe e mostrò di avere per i paesi nordici e per l’angoscia interiore e schiva di quei popoli. Basti pensare alle novelle di Pipa e boccale. Nel costume di tutti i giorni, la meraviglia che lo straniero riceve per la propria persona è determinata fisicamente dall’invidia con cui si sente guardato: ma è l’invidia platonica di chi è contento di stare al suo e immagina di vedere per la prima volta la città che vede tutti i giorni e che è l’unica per lui. Napoli è sua: pur abitandovi dentro, egli deve giungere da lontano, sempre, ogni volta.
Questa Napoli irraggiungibile, profilata nella sua scena, è stata nei secoli una città fragrante di delizie e di promesse naturali, un’allegoria. Nei modi con cui ne è tenuto lontano, ma a lei congiunto e vistoso d’orgoglio, il piccolo cittadino storico crede d’esser lui a sottrarsi a un’esagerazione e non sa se sia virile o ruffiana la sua parte. S’accorge di avere quello che ha dalle lodi altrui o ne è sicuro per sé? Certo, prova quasi vergogna d’aver merito per l’immodestia d’essere così meschino accanto a una donna che si lascia divorare con gli occhi e ch’egli stesso prova a vedere e a desiderare con gli occhi altrui. Così è rapido, veloce, il traslato dalla città alla donna e dalla donna alla città, concepite nella stessa deliziosa abbondanza di cui si resta a bocca asciutta. Nella verità naturale la gelosia è alla sua origine lo sgomento di farcela, la libertà stessa e il tripudio del fare.
La storia aiuta l’eversore naturale che ha paura della sua natura e del suo orgoglio e che chiede d’essere risparmiato. Legato per la propria riottosità fisica e per il proprio pudore esibito alla temperie della poca luce, dei bassi oscuri, delle carni malate e pallide, egli deve aver timore di vivere e di metter piede nella meraviglia. La canzone gli è stata e gli è ancora parola per una città, per una donna, ch’egli non conosce e che mai gli appartiene.
Napoli deve la sua leggenda agli indigeni che qualche volta osano guardarla, fissandola come un paradiso terrestre e casto. La canzone è dovere, un assurdo dovere di ubbidienza con cui migliaia di teste e d’occhi, qui intorno a me, rispondono spiritati e tristi: uomini donne e bambini sollevati in punta di piedi a vedere oltre il visibile, il dolce inganno al quale non credono.
A volte viene il sospetto che questa città, da secoli, non faccia che rispondere alla sua immagine. Le norme e le abitudini si lasciano vincere dallo strepito della credulità che s’offre alle sue prove. Vedere dopo tanti anni un corteo di Piedigrotta, fingere di credere al freddo eroe sentimentale, alla passione che si vuole da lui, significa forse capire come la vera miseria di questo popolo sia sempre stata il volontarismo che la cultura per vie segrete gli ha suggerito. Sembra che alle origini, ad almanaccare questa città famelica e brulicante, siano stati soltanto gli spiriti della contraddizione e, ancor più, la sterile Invidia che per cupidigia si fa il vuoto intorno. Certo, la dissimulazione, la spietata freddezza della festa napoletana colpiscono gli stessi indigeni attraverso l’occhio dello straniero che se ne lascia ingannare. Un popolo si assiste con i suoi rumori, ma ascolta e sospetta il vicinato che gli fa umana la casa.
Per rispondere alla sua immagine, la città pedante razionale e laboriosa restituisce alla passione pubblica gli orpelli dell’ozio. E in luogo della natura, ripropone l’idea che se ne è fatta, la precettistica, il trattato: anticipa nelle cause tutti gli effetti che vuol trame, si fa eloquente. Ma ha in tasca la smaliziata parola “arrassusia” con cui per sé, nella sua più alta e recondita freddezza, il napoletano si riserva di giudicare senza entusiasmo la stessa furia dimostrativa della sua passione. La aizza quanto più gli è estranea, godendo persino a trovare che la natura è “vera” qualche volta: vera, cioè rispondente all’immagine che egli se n’era fatto.
Per puntiglio, per orgoglio, egli ostenta l’occasione gradevole di villeggiare nella sua idea terrestre, nella delizia del suo occhio schiuso che finge di intendere e di assaporare anche quello che non sa e che non vuole.
In questa baraonda sentimentale, in cui tutti sembra che portino la propria testa in mano, riverendosi nel fatuo abbaglio della luce, io vedo soltanto una folla di assaggiatori e di scontenti. Perspicui di tutta la propria intelligenza per la fantasia che non hanno, essi sembrano rischiare tutte le lusinghe della credulità per se stessi. L’eroe sentimentale ricava una piccola timida convenzione della vita naturale in contrasto con la natura stessa. Ed è da una parte l’arte sottile di adattamento e quasi di solidarietà nella pazienza: dall’altra, il ritardo con cui, mostrando di vivere, egli sempre manca alle occasioni della vita.
Lo so: è come prendere di contropiede l’inerzia di questa folla che ricalca i suoi luoghi comuni. Ma, a spiegare qualche ragione della ragione trionfante, occorre dire ai napoletani che non sanno cantare e che, mostrati sulla terra quali estrose e imprevidenti cicale, essi sono soltanto formiche, pazienti formiche di un lavoro che non hanno.
«Signurì trasite»: scacciando un ragazzo che aveva trovato una sedia tutta per sé, la donna del basso mi invitò a entrare e a sedere a quel posto d’onore. Mi aveva visto guardare sul video della sua televisione quasi di sotterfugio, dalla strada, e sarebbe stato “scostumato” per lei, come mi disse, fingere di non accorgersene. In realtà, mi ero proposto di provocare quell’invito. Volevo vedere in compagnia di una famiglia popolare, arricchita per l’occasione di parenti, di amici e di semplici passanti del vicinato, lo spettacolo commemorativo che la TV dedicava a Salvatore Di Giacomo.
Sedetti e mi sentii subito come tutti gli altri un uomo notturno. Non m’illudeva la luce lunare del video da cui apparivano e sparivano ombre e memorie oltre la voce saccente o patetica dei presentatori. Ero in una città d’azzurro, in una città di neve. Come gli altri intorno a me, sapevo e temevo la mia apparenza, la cupa mitezza del cuore irragionevole. Eravamo gli uomini freddi della luna. Il tremolio, il presentimento, le memorie ci davano voce, ci portavano a salire sensibilmente all’altezza del canto, a ritrovare nel nulla la piena dell’essere, in un nome lo zenith di un’astratta felicità terrena.
Non divago. Sto parlando di Di Giacomo. Sto parlando, se così può dirsi, dentro Di Giacomo. Troppo si è detto di lui, riscrivendogli in faccia scorrettamente la sua grazia, raggirandolo con l’evocazione mai chiusa della sua disponibilità culturale e anacreontica, ragionando a furia di sottolineature quell’antologia che da sé sola può parlare.
Una semplice constatazione mi portava a considerare come il metro delle canzoni di Di Giacomo sia frequentemente l’endecasillabo, il più difficile a passare in musica e insieme il più atto a sostenere la fugacità del motivo nella fermezza della dizione. Alle parole destinate al canto il poeta lasciava il valore della loro sorgiva evocazione e dell’incantamento. Si pensi alla bellissima Luna nova e a Marechiare.
Le poesie sue, soltanto sue, in endecasillabo, poche, e quasi sempre fermate nel sonetto. Le sue “ariette” sono settenari e hanno in sé integra la musica che le fa nascere dal nulla, spiccate nel vivo d’ogni parola e pur dissipate nel periodo della voce che le intona strofa per strofa.
Amò per tutti il Di Giacomo di tutti. A tutti dà voce, amore, pianto, rifacendo il verso nel calcolo della loro possibilità espressiva che li renda verosimili e presenti. L’eroe della canzone digiacomiana sorprende per la sua immediata sicurezza verbale, per la rispondenza dei suoi significati visibili a quel gesto d’intima ironia con cui gli è possibile identificarsi da incredulo nella propria ingenuità e farla valere ai fini della parola, se non dell’essere.
Come agli occhi di Nannina, a questi continui protagonisti della canzone digiacomiana manca la parola, tanto parlano di sé, traducendosi nella dichiarazione allusiva che li azzecca o no. Si salvano quasi sempre sbagliando l’entrata, automi del proprio solenne ingresso nel mondo della vanità. La diretta passione, il “romanzesco” si celano nel sotterfugio di un dialetto mimico, irritato e insieme plaudente alla sua simpatia.
Bastava guardarmi intorno. La canzone digiacomiana salvava la sua natura notturna. Non andava insieme con altri pensieri. Era il pensiero dominante.
È l’ora aulica e solenne, in cui l’uomo vuol riconoscere e appagare la sua credulità. La serenata crea la prospettiva. Il Di Giacomo delle canzoni specula e calcola gli echi illusori di una città che è sempre e solo il ricordo di sé, la vocazione del proprio nome. Così si ascolta e la bella voce che vorrebbe sentir cantare nell’arietta famosa può essergli restituita da una delle sue tante voci fatte anonime e felici. Egli stesso ha dato a sé i luoghi della sua lontananza, la solitudine che rinviene si muove si fa palpito, scrupolo puro dell’essere: cupa saggezza su cui rifiata una trasparenza terrena.
Le “ariette” nascono dalle canzoni: attive, si direbbe, da quella passività di recitativo solenne e melodrammatico: modeste da quell’orgoglio dongiovannesco e virile: caste da quella carnalità che astrattamente s’amplia nelle metafore. Nella storia che il Di Giacomo ebbe delle proprie suggestioni, esse approfondiscono lo sconforto con cui il poeta seppe ricondursi solo a sé solo, alla sua immagine di «pover’ommo», di «core cunfuso», ai suoi pensieri «scuntenti». Questa ubiquità solitaria del poeta nel coro che egli stesso suggerisce gli è necessaria proprio perché egli ebbe conferma d’appartenersi veramente solo per la sua voce che sempre lo riportava al congedo e alla morte.
Mi guardavo intorno: quel poeta carico di gioie, di doni terrestri e di un «soffio febbrile che concede apparenza di visione lirica ancora alle dipinture più semplici» com’egli stesso ebbe a scrivere, lasciava agli uomini e alla sua città solo la morte e l’ascolto dell’anima, la caduta di una irrimediabile malinconia. Suggeriva persino la disponibilità all’inerzia, una distrazione colma, esultante di sospetto.
Il ragazzo ch’era stato tolto di sedia per farmi posto passò incautamente davanti al video ormai vuoto e bianco. La madre, quasi destandosi a fatica dal suo rapimento, lo prese per un braccio scuotendolo, come a interrogarlo. «Ma che nce tiene n’capa?» disse. Le sembrava impossibile che non fosse rimasto anche lui almeno sovrappensiero in quella calma notturna in cui non doveva accadere più nulla.
Forse rischiavamo anche noi di proporre Di Giacomo come a esempio di un’estetica, esemplificando la sua poesia che sembra – e non è – il frutto immediato dell’intuizione. Avremmo creduto di portare alla luce l’humanum di cui il giovane Di Giacomo scriveva al vecchio professore di Erlangen dedicandogli Pipa e boccale. In quello strano volume di novelle egli aveva tentato letterariamente lo “straordinario” e l’“inverosimile”, ambientati in una mitezza nordica, in un mistero che non erano del tutto estranei al suo sospetto. «L’humanum del paese nostro» scriveva «è men calmo, la nevrosi è immensamente più eccitabile. Per modo che gran parte della nostra letteratura gronda dell’onor dei mariti, del sangue degli amanti, delle lagrime delle amate…»
Ma bastava ch’io mi guardassi intorno per convincermi che la dichiarazione non sarebbe mai sfuggita all’intimo scongiuro, all’“arrassusia” di quei mariti, di quegli amanti e di quelle amate che sedevano in circolo con me nell’unica stanza del basso, nel cuore della vecchia Sanità. Col suo “metro bonario” il poeta ci insegnava a chiudere gli occhi per veder passare la vita.
Napoli è una città d’azzurro, una città fredda. I suoi pallidi abitanti che vivono di grazia e di ragione sanno che essa è un ricordo e mostrano di crederci, trovandola persino vera qualche volta, vera, cioè rispondente all’immagine che se ne erano fatta. Per la sua misteriosa cultura d’analfabeta, Pulcinella è vestito di bianco e la sua maschera è nera. Nevica sul nostro paese che tutti abbiamo creduto di vedere. E sempre, col cielo addosso, cerchiamo l’orizzonte.
A. Gatto, Napoli N. N., Firenze, Vallecchi, 1974
Napoletano, giornalista e bibliotecario, scrittore di drammi dialettali e di novelle in lingua che s’ispirano a un naturalismo liricizzato, cultore in pregevoli studi di storia della cultura cittadina (specialmente settecentesca), il Di Giacomo è soprattutto autore dei migliori versi che si abbiano in dialetto napoletano, alcuni dei quali composti per il festival di Piedigrotta e perciò divenuti popolarissimi nel solco della melodia che li accompagna. Ma l’importanza della poesia del Di Giacomo non è puramente locale: se la difficoltà (per la maggior parte degli italiani) del mezzo adoperato ha fatto sì che la critica sull’autore sia dovuta principalmente a meridionali (dal Croce al De Robertis e al Russo), non si può mancare di riconoscere che la voce del Di Giacomo è in assoluto una delle più poetiche del suo tempo, forse la maggiore del periodo chiuso tra i Canti di Castelvecchio e Alcyone e i poeti nuovi. E se ormai sembrerebbe anacronistica una storia della nostra poesia ottocentesca che non desse il competente luogo al milanese Porta o al romano Belli, non sembra che la storia del primo Novecento possa fare a meno del napoletano Di Giacomo.
È stato rimproverato al De Robertis di avere, in uno dei pochi brani pubblicati della sua ampia dissertazione digiacominana (ora in appendice alla postuma raccolta di Scritti vociani, a cura di E. Falqui), praticato una minuziosa analisi ritmica e fonica (fra l’altro di Na tavernella…). Ma, qualunque riserva particolare si possa muovere, per esempio sulla soluzione e ricomposizione dei ritmi, il De Robertis ha intuito la verità fondamentale, cioè che ai valori melodici, del resto dichiarati e palesi, si accompagna una realizzazione timbrica che trova paralleli soltanto nel Pascoli. In questa insinuata fermezza musicale, il Di Giacomo fissa le sensazioni labili e ineffabili, ma anche i ritratti apparentemente oggettivi di figure e luoghi: sentimenti e spettacoli fugaci nel tempo, insidiati dalla morte (una morte che aleggia immanente, mai enunciata come nel D’Annunzio), ma appunto salvati da una dolcissima e straziante flessuosità musicale.
G. Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento (1974), Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1992
Negli stessi anni in cui Renato Fucini era venuto a Napoli per scoprirla «ad occhio nudo» (1878), la riscoperta di Belli aveva messo in moto l’immaginazione di Cesare Pascarella, che sulle orme dei sonetti vernacolari di Fucini, tra l’81 e l’84, prima di passare al carduccianesimo burlesco di Villa Glori e della Scoperta dell’America, aveva composti i sonetti veristi e popolareschi di Er morto de campagna (1881), La serenata (1882), Er fattaccio (1884). A questi antecedenti immediati si rifecero Di Giacomo e Russo, divergendo subito nelle scelte linguistiche. L’assaporamento del vero e l’assaporamento della parola conferirono subito ai sonetti digiacomiani pubblicati
nell’84 una raffinatezza, un indugio vocale inconfondibile. Un “occhialetto” invisibile sembrava si frapponesse tra il poeta e il carcere della Vicaria, dove i guappi cantavano la serenata a dispetto contro «lu malo sbirro de la pulezia»: «A li ffeneste de la Vecaria / saglie, ogni ssera, a ll’ùnnece sunate,/ cu panduline e chitarre scurdate,/ la santanotte de li mammamia» (Opere, a cura di F. Flora e M. Vinciguerra, 1946, vol. I, p. 9). Melico sempre, anche fuori delle ariette e delle canzoni, Di Giacomo, anche quando faceva bestemmiare i suoi delinquenti riassorbiva l’eccesso di verismo in un endecasillabo tutto canto: «Mannaggia chillo Dio ca nce ha criate!» (A San Francisco, in Opere, cit., vol. I, p. 133). A indicare questa tendenza idilliaca e musicale citeremo solo il testo di una famosa lirica, ’O vico d’ ’e suspire, dove i capi dell’“onorata” società dei camorristi sono rappresentati nell’atteggiamento di fatui vagheggini (“farenelle”), che corteggiano le più belle donne del vicolo, una ricca venditrice di farina e una umile carbonaia, e ne mandano (“vótteno”) sospiri per loro! Il realismo del tema ottocentesco è tutto arcadizzato in un ritmo di danza e come in una scena da opera buffa.
L. Bolzoni, La poesia napoletana: Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo, in L. Bolzoni e M. Tedeschi, Dalla Scapigliatura al Verismo (1975), Roma-Bari, Laterza, 1990
Senza dubbio il Di Giacomo esordì (alquanto) verista e fece echeggiare l’anima napoletana nelle sue canzoni di Piedigrotta dal 1880 al 1905 all’incirca. Ma nel Di Giacomo, più del verismo e della popolaresca anima napoletana, si può rinvenire un’anima lirica, originale e universale, che non è necessariamente napoletana. Il Di Giacomo è grande appunto quando modula canzoni o poesie che differiscono dalla tradizione e recano un timbro tutto personale. Queste poesie non piacquero al Vossler, ma la sua poesia non consiste nella nota ’E spingole frangese. Il Croce, il Serra, l’Ojetti, il Russo ed altri hanno inteso il Di Giacomo solo in parte, in quanto vedono in lui solo il poeta dalla forma e dal sentimento classico, anzi greco come in Saffo.
Noi non neghiamo che il Di Giacomo abbia scritto alcune belle poesie tipicamente napoletane come: Donn’Amalia ’a Speranzella, ’O vico d’ ’e Suspire, Tiritì tiritommolà, Assunta, Angèleca, A Marechiare, ecc., semplicemente non diciamo che queste siano le sue migliori poesie o che esse rappresentino la vera anima del Di Giacomo; né possiamo soprattutto accettare che ’O funneco verde sia una lirica perfetta come la dice Fausto Nicolini. Inoltre escludiamo che A San Francisco sia un miracolo di poesia come lo dicono Gaeta, De Robertis ed altri. Sosteniamo viceversa che il vero poeta vada visto altrove, dove è quasi assente ogni carattere verista e tace ogni colore di Napoli, ad eccezione di qualche espressione o qualche immagine generica del mare e della luna, non largamente descritta, bensì vista vagamente e sentita in forma particolare. E se vi si trovano, come pure succede, degli spunti e squarci di vita di ambiente napoletano, il poeta, facendosi artista, li sublima a poesia cosmica, a visione universale.
F.D. Maurino, Il lirismo nel Di Giacomo, in “Critica letteraria”, III, (1975), 9, pp. 734-39.
Intorno alla biografia di Di Giacomo e per la quale sono preziose alcune belle pagine di Gino Doria, si è lavorato assai poco; anche la letteratura aneddotica è più povera di quanto si potrebbe supporre. E dato il posto che occupava la sua presenza a Napoli, e la curiosità che la sua figura destava anche fuori di Napoli, ciò non è del tutto casuale. Salvatore Di Giacomo non era in effetti una persona nella cui intimità si entrasse facilmente. Fra l’altro egli aveva preferito, fin da giovane, frequentare anziché la compagnia dei letterati gli assai meno discorsivi pittori, a lui congeniali, scriveva Croce, «per affinità di temperamento, per attrazione di simpatia e di reciproca intelligenza, per modi di ispirazione ed abiti di lavoro». L’attività di giornalista che egli esercitò per un trentennio si può dire, inoltre, che esaurisse le sue esigenze di venire stampato, tanto che, a 47 anni, non si era ancora posto il problema di raccogliere le sue poesie, la cui prima edizione completa fu fatta, quasi d’autorità, dai suoi amici, Benedetto Croce e Francesco Gaeta. E pubblicata da un editore che nacque per l’occasione, poiché era stato sino allora un giovane dilettante bibliofilo: Riccardo Ricciardi. Né molto maggiore solerzia aveva avuto per la ristampa delle novelle. La sicurezza e semplicità, sia artigianale che creativa, del suo modo di lavorare, sembra lo rendessero quasi indifferente alla capitalizzazione della propria opera, contentandosi, forse proprio come un pittore, di metterla sul mercato: dove in ogni modo non correva il rischio di passare inosservata.
L’altro motivo per cui Di Giacomo è sfuggito ai biografi è invece insito nella sua inafferrabilità, quasi da elfo, l’inafferrabilità di un grande artista che vive in ciò che vede e rappresenta, è tutto orecchio e sguardo, ma la cui individualità umana e morale sfugge innanzitutto a lui stesso: c’è solo la pena, la pena infinita per la sofferenza umana. Perfino lo sguardo, così intenso, dei bellissimi occhi che ritroviamo nei suoi ritratti, ci sfugge. E infine la testimonianza biografica in un certo senso fondamentale è venuta alla luce solo recentemente. Con la scoperta e pubblicazione delle Lettere a Elisa, la sua futura moglie, fatta da Enzo Siciliano. Qui nella lunga, interminabile storia di un amore quasi soltanto nutrito di sospetto e di gelosia, di piacere di tormentare e di tormentarsi, abbiamo il paradigma della nevrosi di Di Giacomo. E ci rendiamo conto che da quella nevrosi l’uomo era quasi annientato: sopravviveva solo, miracolosamente, l’artista. La sua interlocutrice e vittima era del resto, quando egli la trovò per la prima volta sulla sua strada, una ambiziosa e romantica studentessa: e forse la fascinazione letteraria contribuì a farla resistere ad un martirio psicologico al quale poi, col passare degli anni – e furono undici – di fidanzamento, non avrebbe avuto più la forza di sottrarsi. Non si possono estrarre singole lettere da questo epistolario, il cui significato è in gran parte legato alla ripetizione ossessiva, e dal cui contesto sono inestricabili le rapide immagini, riflessioni, confidenze, talvolta incantevoli. È forse proprio soltanto affondando lo sguardo nell’abisso della sua nevrosi che finalmente la figura di Di Giacomo ci diventa familiare. Ed abbiamo la conferma che qualcosa, anche nei momenti più bui, e cioè una grazia, un sottile sapore della vita, non sembra mai abbandonarlo anche nelle piccolissime cose: l’acquisto di un regalo, la lunga scelta di una cartolina prima di inviarla, la descrizione rapida ed esperta dell’atmosfera di un albergo; perfino nei resoconti dei suoi acciacchi e medicinali, nelle descrizioni degli scialli in cui si avvolge e delle tisane che si confeziona, mantiene una naturalezza, e insieme quasi professionalità, da invalido settecentesco. Ma soprattutto basta vederlo affacciato a un balcone, ascoltare i rumori della città o cogliere il cangiare delle luci, per rendersi conto del perché Di Giacomo non possa assolutamente essere guardato altrimenti che come un poeta. […]
Gli ultimi anni di Di Giacomo furono molto solitari. Il fascismo lo intimidiva, gli onori propostigli lo turbarono; la nomina all’Accademia, che implicava l’indossare un’uniforme con feluca, era assurda, ma giunse quando era già ammalato, e non lascia traccia che nella commemorazione di Ugo Ojetti. Fra le persone che gli restarono più vicine erano due signore inglesi, Constance e Gladys Hutton, residenti a Napoli quasi dai principii del secolo: furono loro ad adoperarsi perché rivedesse qualcuno degli amici di gioventù, dai quali il fascismo, coi suoi tentativi di accaparramento, lo aveva allontanato, ma per i quali sentiva nostalgia. Il lungo intristimento di Napoli ha fatto sì che solo di recente si tornassero a ristampare i suoi graziosissimi lavori di erudizione; alle poesie, al teatro, ai racconti la fedeltà del lettore non è mai venuta meno.
E. Croce, Prefazione a S. di Giacomo, Poesie e prose (1977), a cura di E. Croce e L. Orsini, Milano, A. Mondadori, “I Meridiani”, 1995
È con Ariette e sunette e Ariette e canzone nove che il Di Giacomo ci consegna il profilo suo più vero di poeta di squisita finezza e di delicata e sottile sensibilità. Nella filigrana di un tessuto lirico sapientemente modulato, legato alle valenze euritmiche di una diffusa, semplice eleganza, elementi fondamentali della natura (il cielo, la luna, l’aria, le stelle, il vento, l’acqua) magicamente trascorrono carichi del dono di un’archetipica purezza, portatori di un tempo intatto, colti in una chiarezza di intuizione che è espressione genuina del reale, afflato lirico dischiuso, tra risonanze e auscultazioni finissime, alla fluttuazione emotiva dell’abbandono melico. Sono momenti in cui il poeta ha raggiunto le cifre più convincenti della sua lirica (i toni alti, per intenderci, ai quali per altra via perveniva, con più intensa carica di tragicità, l’esperienza del novelliere e del drammaturgo), forgiandosi un verso duttile e musicale, atto a stabilire – nel prezioso respiro di timbri brevi – felici rapporti tra interno ed esterno, a instaurare analogie tra l’uomo e la natura. Si tratta di un registro espressivo ove si attuano, giocando sulla capacità mitologico-evocativa, le personificazioni di Amore, del Sonno, della Morte, del Tempo – e ciò in maniera massiccia in Vierze nuove, testimonianza lirica cronologicamente intermedia, percorsa dal senso amaro della struggente labilità di tutto e fermata a un’ombra di morte come sospesa – e ove il cuore, la montagna, l’acqua, le zampogne hanno una voce, chiedono la grazia sublimante della parola. L’artista ci consegna inoltre una pagina tramata di umbratili intimità, di tenerissime accoratezze, di fremiti appena percettibili; raddolcita in sommesse immalinconite sospirosità (e forse trascorre qualche velo meditativo), che ha le cadenze sfuggenti e rarefatte di una temperie tutta crepuscolare («Nu pianefforte’e notte/ sona luntanamente,/ e ’a museca se sente/ pe ll’ aria suspirà.») e, tra gli evanescenti disegni di ore inclinate alla sera, le vibrazioni sofferte di un patetico piccolo incantamento («Arillo, animaluccio cantatore,/ zerri-zerre d’ ’a sera/ ca nun te stracque maie,/ addó te si’ annascosto?/ ’A dó cante? Addó staie?»).
G. Amoroso, Salvatore Di Giacomo, in G. Mariani e M. Petrucciani (diretta da), Letteratura italiana contemporanea, vol. I, Roma, Lucarini,1979
La scrittura e tutto l’intenso attivismo, particolarmente della gioventù, del di Giacomo surnuotano come un velo di fragili concrezioni al di sopra di un fondo molle e gelatinoso di nevrastenia, che tenta di nascondersi a se stessa, di opporre la chiarezza all’enigma e all’assurdo, attraverso un lavoro apparentemente razionale di tavolino e l’evocazione di parole sbiadite fermate sui registri rigidi della scrittura.
Salvatore di Giacomo, che attinge tutte le sue risorse da una pazienza integrale e da una francescana disponibilità a denudarsi di ogni vanità per approdare alla terra vergine, dove ogni essenza ed esistenza si giustifica per la sua condizione creaturale, si pone come centrale e ineludibile il dilemma (che Pirandello girerà limpidamente ai suoi lettori e oltre come una verità oggettiva e scarnificata, ma capace di generare intensi brividi nei destinatari per la sua ultimatività e umoristica brutalità), che la vita o la si vive o la si scrive.
La sua scelta cade una volta per tutte sul corno della scrittura, che si dimostra, tra l’altro, un utile strumento ad azzerare presunzioni e pretese soggettive, di fronte alle cui possibili insorgenze l’io vigila con un’intransigenza di testimone e giudice severo, fino a giungere ad ideali fustigazioni dell’orgoglio, come nel seguente episodio: «Ho pranzato al restaurant della stazione. Di fronte a me erano tre signori i quali mi hanno sorvegliato durante tutto l’asciolvere. Mi sono accorto, poi, che la sorveglianza era ammirazione, poiché un di quelli ha fatto a un altro sottovoce il mio nome e poi ha cavato un libro da un pacchetto. Ho riconosciuto il mio Napoli, che il degno signore aveva recentemente acquistato – e stava per stringermi la mano, quando mi sono ricordato che non bisogna essere immodesti […] e che la vanità, o maschile o femminile, è un’offesa alle massime cristiane. Mi sono alzato, ho detto a quel signore: Lei è uno sciocco, perché ha comprato un libro che non vale un fico secco! L’autore di quel libro – ho soggiunto – è un pretenzioso imbecille!
Il signore mi ha dato un calcio: io gli ho dato uno schiaffo – e, quindi, molto soddisfatto sono partito».3
L’etimologia è da ricercarsi meno nei trecentisti, come Cavalca e Passavanti, a cui non sarebbe improbabile pensare di fronte alle impreziosite regressioni degli intellettuali della “Belle Époque”, che il tolstoismo e dostoievskismo, che catturano sempre più larghi consensi in tutta Europa in questo periodo e che a di Giacomo giungono veicolati dalle contaminazioni dannunziane e dalle note saggistiche dell’amico Pica, dislocato fin da giovane in prima linea nelle verifiche del nuovo sul piano europeo, anzi mondiale.
Sostanzialmente, su un evangelismo alla Tolstoi e alla Dostoevski è imbarcato esplicitamente di Giacomo, lungo tutta la sua attività, ritagliata su un modello di bontà, di semplicità, di amore per gli emarginati, o, si direbbe meglio, per gli umiliati e gli offesi, come documenterà con la sterminata folla dei suoi personaggi, attinti dalle fasce sociali più umili.
Sul piano esistenziale, egli si fa carico di essere figlio affettuoso e tenero, disponibile a strascinare per anni e anni un fidanzamento avviato in età matura, per non contrariare la madre e la sorella, che vegliano su quel fidanzamento come su un pericolo a causa della differenza di età tra i due innamorati. Nell’ambito familiare, ancora, egli si assegna la parte, nei confronti del fratello, di riparatore degli errori, delle intemperanze e degli egoismi, fino a procurarsi giudizi poco benevoli sul suo conto, come di persona troppo accomodante e quasi cieca. Ma egli sempre, non senza una punta di masochismo, si trova più a suo agio nelle vesti dell’offeso, che in quelle, non dell’offensore, ma dell’imperturbato uomo moderno, protetto da una solida armatura d’indifferenza e di produttivo economicismo.
Quando capita l’opportunità, la sua croce sulle spalle se la prende e la porta volentieri da buon cireneo, che, quando non può essere utile agli altri, aiuta se stesso a compiere il suo disegno di maltrattato dalla sorte, come si ritrova frequentissimamente, più per sospetti e compiacimenti soggettivi, che per reali riscontri storici. […]
Per un autore come di Giacomo, che esordendo vanta (per millantato credito) un noviziato culturale svolto in Germania (cfr. la raccolta di novelle Pipa e boccale), sarebbe la sconfessione totale della modernità, se egli non si dislocasse in paesaggi estenuati di sospiri e pigolii pascoliani, di tenerezze virginee e floreali, che, tra l’altro, egli osa difendere anche nella sua privatezza, a costo di scandalizzare amici e testimoni, che lo adegueranno a una specie di femmenella e si diletteranno a tramandarsi aneddoti piccanti riguardo alla disarmante ingenuità e all’inoffensività dell’uomo.
Ma un piede, se non tutti e due, di Giacomo l’ha tenuto nell’Europa della “Belle Époque”, che si gestisce la sua ansia di nuovo in maniera nient’affatto univoca e omogenea: basta pensare che, in quanto a fobie e a folli, travolgenti gelosie, se ne lasciano taurinamente travolgere anche protagonisti lanciati, a molti cavalli vapore, verso aspettative e prassi rivoluzionarie, come, ad esempio, un Majakovskij: almeno secondo le molto affidabili testimonianze di Elsa Triolet.
Nel treno della contemporaneità di Giacomo viaggia in un vagone di coda, non certamente di prima classe, che tuttavia resta allacciato al restante convoglio, che procede attraverso un continente variamente articolato, quale quello appunto della cultura europea di fine Ottocento e del primo Novecento. Alla dogana, per il visto di transito, di Giacomo può dignitosamente presentare le valigette della sua merce molto finemente lavorata: una bigiotteria di ciondoli e gingilli d’argento in filigrane lievissime, come soffiate, delicatissimi vezzi e rosette, realizzati con la pazienza degli artigiani di tanto tempo fa e disegnati col gusto di un secolo pieno di galanteria e d’ironia, come il Settecento. Sono gioielli minuti, non destinati a un mercato sofisticato di élite, ma che portano tutti il segno della nobiltà di fattura: ogni accensione, ogni gocciola di metallo vibra misteriosamente come di un piccolo palpito, quasi un piccolo cuore fatto prigioniero nel metallo lucente.
«Cui sempre ispirò il cuore», è la lapide dettata per il Grossi da Manzoni che se ne intendeva di cuore, di ispirazione, ma anche di ragione, di quella settecentesca e di quella ottocentesca. E il cuore è la chiave di volta per entrare in tutte le porte del piccolo-grande mondo digiacomiano. Ma non è più quello romantico, che spesso catalizza uragani di passione, che si fa ago della bussola della memoria esistenziale, biologica e storica, che si oppone talora ai riflettori della luce, creando, per incidenti non previsti, coni profondi di ombra. Il cuore, invece, del di Giacomo presenta notevoli consonanze con quello di parnassiani e simbolisti, di Jammes, in particolare, ma con un esplicito consenso all’umanitarismo pascoliano e alla bontà dannunziana, quella di Poema paradisiaco. Esso è un delicatissimo strumento, tenuto sotto controllo in uno spazio rigorosamente disinfestato di ogni germe d’ironia, e messo a funzionare per auscultare e registrare fedelmente i tracciati e le scansioni dei suoi stessi battiti e per sorprendere la formazione della rugiada delle interne melodie sulle cullate e sospirose ragnatele della tristezza, se non dell’incomunicabilità.
Tutti i sentieri, tutti i segnali, portano al cuore, per di Giacomo, e dal cuore proviene ogni messaggio di salvezza. Con un’ingenuità disarmata, che fa da spia più di un nuovo atteggiamento da esplorare, temperare magari, comunque da non rifiutare per pregiudiziali concrezioni economicistiche, che di un campionario ottocentesco già scontato di sentimenti buoni, egli invita se stesso a scoprirsi e a scoprire la verità, guardandosi nello specchio del cuore.
U. Piscopo, Salvatore di Giacomo nel cinquantenario della morte, in “Cultura e scuola”, XXIII, n. 90, Aprile-Giugno 1984
La Storia non si occupa dei sogni, non li considera oggetto del proprio interesse, non li ritiene attendibili. Eppure proprio come gli individui, i popoli sognano, e questi sogni a volte li scatenano, diventano azioni; a volte invece li immobilizzano e li tengono prigionieri di un’illusione. La “napoletanità” parte da un sogno (cominciato sotto Carlo III e bruscamente interrotto nel 1799), che curiosamente continuò a produrre i suoi effetti anche dopo l’interruzione; è anzi il protrarsi indebito di quel sogno, che più volte – tant’era sentito – parve sul punto di realizzarsi (nel decennio di Murat, per esempio, dopo l’Annessione, o nei primi anni del Novecento): il sogno, ormai senza più fondamento, di una Napoli Capitale, luogo privilegiato dello Spirito e “Impero dell’Armonia”.
La piccola borghesia napoletana, dopo che la “grande” uscì distrutta dal ’99, fece suo quel sogno o ne fu posseduta; e ho già detto come istintivamente lo usò per esorcizzare la paura della plebe, e in che modo si servì del dialetto per protrarre quel sogno, per infonderlo e diffonderlo. Tutto questo, come ho detto, non secondo un programma prestabilito o una strategia, ma per una serie di impulsi e pulsioni incontrollabili, da cui fu coinvolta anche la cultura napoletana dell’Ottocento e del primo Novecento, con poche ma notevoli eccezioni. E così la ricomposizione della Perduta Armonia che era la segreta illusione della piccola borghesia, fu anche l’illusione della cultura napoletana di quegli anni. Poeti e artisti cercarono di ricomporre quell’Armonia, che non era più nella vita, almeno nelle loro opere: e talvolta, in parte, vi riuscirono. E come si dettero da fare, con parole e musica, per renderla sensibile! Come fecero vibrare le note del cuore e dell’anima dei napoletani per insinuare quell’idea! Che abili persuasori occulti furono di quella anche ad essi occulta ideologia (ché tale era in effetti)!
Come dovette essere forte in Di Giacomo, lacerata anima napoletana, quel richiamo, e la tentazione di “ricomporre le dissonanze della vita” che affiorano dalle sue lettere, nella musicalità dei suoi versi! «Nu pianefforte ’e notte/ sona luntanamente,/ e a museca se sente/ pe ll’ aria suspirà…». Chi poteva resistergli? Eppure anche questi quattro versi sono a modo loro rivelatori. Perché quel «luntanamente», lungo e risuonante quanto tutta la tastiera di un pianoforte, è splendido; ma quel «suspirà» fa pensare che a sospirare è solo lui, don Salvatore (la musica non sospira), lui e tutta la poesia della “napoletanità”: da cui si leva sempre in sottofondo un lamento, un’accoratezza, una malinconia insopprimibili, che nascono appunto dalla discrepanza tra quella pretesa idea di Napoli e la realtà, tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è.
R. La Capria, Quelle tre anime dei napoletani, in Id., L’armonia perduta, Milano, A. Mondadori, 1986
Se dopo cinquant’anni si celebra ancora Salvatore Di Giacomo il merito è, giustamente, del posto che ha saputo conquistarsi nella storia della letteratura; un piccolo contributo, però, può venire anche da ciò che ha fatto lavorando quotidianamente, umilmente, nello Stato.
È questo, comunque, un aspetto della personalità che merita di essere conosciuto, perché ne è parte integrante; e vale la pena di fornire, a chi del poeta ha una visione soltanto letteraria, un profilo che ne completi la conoscenza.
Del resto non fu il primo né l’ultimo poeta ad avere un lavoro fisso nello Stato: basti pensare agli insegnanti Carducci e Pascoli («…e tiro quattro paghe per il lesso»), a Libero Bovio e Ferdinando Russo, anch’essi dipendenti della Pubblica Istruzione, impiegati tutti e due al Museo Nazionale, praticamente porta a porta, quindi, col bibliotecario della Lucchesi Palli.
Eppure nessuno di questi si è espresso altrettanto efficacemente nella professione quanto nella poesia come Di Giacomo: egli ha lasciato una traccia ugualmente notevole nella storia delle biblioteche e in quella della letteratura.
Infine una annotazione forse secondaria, ma, ci sembra, ugualmente opportuna: la professione del bibliotecario non può che uscire arricchita dall’annoverare nei suoi ranghi un tal personaggio, e chi ne fa parte può adesso guardare con altro interesse a un lavoro spesso misconosciuto, soprattutto sa di poterne ottenere le soddisfazioni sperate e un proprio ruolo nella società, alla quale rendersi utile almeno quanto altre, più note, categorie.
M. Angarano Moscarelli, Il bibliotecario Salvatore Di Giacomo. Vicende poco note di un noto poeta, Napoli, Liguori, 1987
La poesia di Di Giacomo sembra rifuggire dai furori espressionistici propri di gran parte della tradizione poetica dialettale: essa è dominata da un senso tutto particolare della distanza, da una vera e propria fascinazione del lontano. Molto diversa da quella con cui Verga guarda al mondo popolare, questa “distanza” si carica di sentimento, implica la partecipazione e l’intenerimento dell’autore per le immagini, i segni, le voci che egli “da lontano” percepisce. Ciò non esclude rappresentazioni realistiche, scene di vita della più misera plebe napoletana, che scendono nelle abitudini e nelle passioni elementari di quanti abitano nei luoghi più malsani della città: tutto con un alto senso di verità e di concretezza, con una continua apertura a forme di dialogo, con una spontanea adesione alla sofferenza, con intense affermazioni di volontà di vita e di passione, e con spunti di deformazione che sfuggono quasi sempre agli esiti comici tradizionali del realismo “popolare”. Soprattutto nei sonetti, Di Giacomo tende a registrare scene della vita del popolo: quelli di ’O funneco verde, animati da un dialogo vivacissimo, rappresentano squarci della realtà in uno squallido vicolo nei pressi del porto; i sonetti A San Francisco presentano una scena di vendetta tra malavitosi nel carcere di San Francesco da Paola (e da essi Di Giacomo ricavò anche un dramma dallo stesso titolo); i cinque intitolati Nummero vintuno delineano una patetica storia di altruismo e di indifferenza nell’ospedale militare della Trinità; i sei intitolati ’A strata (pubblicati in origine nel 1900 in una serie di cartoline dal titolo Napoli illustrata) mostrano momenti diversi della vita di strada.
Di fronte a questo mondo brulicante il poeta evita ogni atteggiamento “critico”, ogni denuncia sociale: tende invece a subirne l’incanto, seguendo i guizzi improvvisi e ciechi delle passioni che lo animano, come cercando di afferrare la “voce della città”, una voce che gli appare misteriosa e fascinosa, frutto di un convergere
di esistenze, di colori, di grida e sussurri, di musiche e rumori, di gioie e disperazioni. Nel suo seguire “da lontano” questa voce multiforme, Di Giacomo sente fortemente il rapporto poesia-musica, e cerca un originale linguaggio dei sentimenti che si rifà al suo amato Settecento, il secolo del melodramma: nelle celebri canzoni e nelle poesie in cui segue il filo dell’eterna vicenda dell’amore (ma sempre collocata sullo sfondo vitalissimo di Napoli, del suo paesaggio e dei suoi ambienti umani) egli arriva a dare una versione “dialettale” e insieme tutta moderna del linguaggio sentimentale metastasiano, e crea così una nuova lingua (la sola veramente autentica nell’Italia tra Ottocento e Novecento) della poesia amorosa. È una lingua limpida e colorata, insieme spontanea e smaliziata, in bilico tra le radici popolari e una sottile sapienza letteraria e musicale: una lingua che il poeta sente come espressione “sua”, non soltanto come strumento per rappresentare la vita del popolo. C’è in lui il piacere di “abitare” questa lingua, di seguire, attraverso di essa, le suggestioni più vaghe e indefinite, lo struggente effetto del perdersi e dello sfumare dell’amore, della vitalità e della gioia. La più alta poesia di Di Giacomo si presenta come continuo abbandono patetico, come espansione teatrale e musicale, come ripiegamento e ricerca interiore di una dolcezza mai soddisfatta e continuamente rinnovata: essa è la voce di un desiderio che vorrebbe nascondere la propria intensità, che vorrebbe addirittura ignorarsi, smarrirsi in improvvise sospensioni, in sfuggenti momenti di incoscienza; e nello stesso tempo avverte l’insidia della fragilità, presagisce il consumarsi di ogni passione e di ogni dolcezza, ed è attratta da un tormento segreto, da una malinconia appesa a tenerissimi fili musicali. Tra i tanti capolavori occorrerebbe ricordare almeno le celebri canzoni A Marechiare,
Era de maggio, ’E spingole frangese, Tiempe d’ammore, o “ariette” di assoluta suggestione come Pianefforte ’e notte, Tutto se scorda, Marzo, Vurria…, ’Na tavernella…, Mutive ’e canzone, ’E llacreme d’ammore…
G. Ferroni, Storia della letteratura italiana. Dall’Ottocento al Novecento (1991), Milano, Einaudi Scuola, 1998
Il segno più originale della presenza di Salvatore Di Giacomo nella “belle époque” partenopea sta nella sua sdegnosa estraneità alle mode letterarie che imperversavano in quell’epoca: il classicismo professorale di Carducci, il patetico decadentismo di Pascoli e di Corazzini, l’immaginifico barocchismo di D’Annunzio, che pure a Napoli era di casa. Chino sul foglio bianco come un grande artigiano, don Salvatore si isola dal frastuono delle gazzette e dei salotti, dedicandosi piuttosto a portare ad estrema perfezione uno strumento personale che non somiglia a nessun altro, il vernacolo, mediato sì dalla realtà popolare, ma filtrato attraverso esperienze altamente sofisticate, che vanno dai lirici greci dell’epoca di Saffo all’opera buffa dell’epoca di Paisiello, passando per la narrativa del Cortese e del Basile. La fusione che egli realizza tra la struttura colta del suo dialetto e la tradizione parlata attinge la perfezione nei versi delle ariette e delle canzoni nuove, dove la parola si libera «in un aere musicale» e appare «disposta a vivere per ritmi e metri in una trepidantissima aura di suggerimenti». […]
Gli elementi della poesia di Salvatore: il sole, la luna, il mare, le stagioni – con un gusto particolare per la malinconia dell’autunno, che evocherà in una delle sue ultime composizioni, quella dedicata all’arillo, al grillo, «animaluccio cantatore». E Napoli, Napoli come era allora prima del massacro urbano che l’avrebbe
straziata nel secondo dopoguerra; Napoli piena di giardini, di angoli incantati, di piccole osterie di campagna, di spiaggette solitarie; Napoli bagnata allora dal mare, un mare molto diverso da quello ripudiato da Anna Maria Ortese, il mare limpido e trasparente nel quale si purificavano perfino la miseria e la sporcizia dei lazzari. E le donne, soprattutto le donne di Salvatore, che sono tante, romantiche, ingenue, appassionate, maliziose, perdute, le donne belle e carnali come le modelle di Giambattista De Curtis e di Migliaro, creature che somigliano «ad aeree apparizioni» si fanno «vento e mare, cielo e foglie», come la Laura di Petrarca e la Silvia di Leopardi, donne che in definitiva nei versi di Di Giacomo non sono che una donna sola, «l’anonima di ’Na tavernella…, la donna che ha i capelli sommossi dal vento, che è timida e innamorata, che s’incanta del suo stesso amore».
A. Ghirelli, Introduzione a S. Di Giacomo, Tutte le poesie, Prefazione di G. Cattaneo, Roma, Newton Compton, 1991
Il dizionario delle frequenze – vale a dire quel delicato strumento della critica che consente di evidenziare l’insistenza di un autore su certe parole piuttosto che su altre – applicato all’opera poetica del Di Giacomo rivela in essa una decisa predilezione per il mondo naturale in tutte le sue manifestazioni, da quelle astronomiche e meteorologiche, quali il sole, la pioggia, il vento, la luna e le sue fasi, a quelle più proprie della vita agreste, quali le rotazioni dei prodotti, l’incessante sbocciare, spampanarsi e spiumare, eventi in cui si riassume con metaforiche valenze il destino di ogni cosa che fiorisce su questa terra.
Diremo allora che al centro dell’ispirazione lirica di questo autore, in qualità di nucleo emozionale va collocato l’ininterrotto colloquio che egli intrattiene col mondo nel quale è immerso, quel dialogo segreto con la natura e i suoi riti vegetativi, riti che rappresentano l’aspetto più antico e immutabile di ogni cultura mediterranea.
Da dove provenisse a Salvatore Di Giacomo una sensibilità così antica, dalle radici tanto lontane da affondare nel paganesimo, è questione complessa soltanto in apparenza.
Sappiamo bene che ogni luogo conserva un ostinato tramite con il suo passato, per quanto remoto esso ci possa apparire. E questo a dispetto di tutto ciò che è accaduto, o è stato fatto accadere. Ebbene, se un simile senso della continuità, della persistenza come rafforzativo dell’esistenza, trova possibili riscontri un po’ dappertutto, ciò è ancor più vero quando è riferito alla Napoli a cavallo tra due secoli che Don Salvatore intese cantare, e da cui si lasciò cantare. […]
Il discorso amoroso, che sottende tutta l’opera del nostro autore, rientra perfettamente nella sua visione dell’universo e delle leggi che lo governano. Di più: è l’universo che, nella visionaria frenesia dell’artista, appare come una proiezione dello stato d’animo degli innamorati, una gigantografia dei loro più segreti turbamenti. E se l’amore è ricambiato, l’universo ne ripropone la gioia alla sua maniera, vale a dire in un lussureggiare di luci e di fiori; se, invece, non c’è corrispondenza di amorosi sensi, lo scenario muta per assumere i colori di un lutto cosmico.
Legge inflessibile quant’altre mai, l’amore digiacomiano è dunque una linfa che scorre nelle vene di tutti gli esseri viventi. Si pensi a Marechiaro, dove «pure li pisci nce fanno l’ammore». Non solo: sentimento divino, esso assurge a sostanza che tiene unito il mondo, forza di coesione e di aggregazione degli elementi (Lucrezio). C’è da temere che, calando la tensione amorosa, anche i paesaggi, i monti, i cieli, possano disgregarsi progressivamente, fino a crollare su se stessi, una volta spenta quella sacra fiamma.
Quanto alla lingua, il Di Giacomo usa senza mezzi termini il napoletano, idioma vivo come pochi. Ma, per sgomberare il campo da possibili implicazioni populistiche, va detto che si tratta di un napoletano letterario, classico. Un napoletano estremamente duttile e pronto a farsi veicolo delle più raffinate emozioni, dei semitoni e quarti di tono che la complessa partitura mentale del poeta esige dalla sua penna.
Immerso a tempo pieno nel suo dialogo con il mondo naturale, pellegrino lungo le rotte di amori vissuti ora con sonnambolica rassegnazione, ora con vibrante carnalità, sacerdote ironicamente incredulo, ma comunque aggiogato ad una fede che fa dell’attrazione fra i due sessi il suo mistero, nonché la chiave di lettura dell’intero universo, Di Giacomo poeta tiene il suo strumento linguistico ben al riparo dalle aspre e scomposte seduzioni dell’idioma parlato. E le rare volte che affronta tematiche sociali con intenzioni di denuncia, lo fa dalla posizione del borghese illuminato, che non può restare insensibile al dolore dei diseredati. Un napoletano, il suo, in tutto diverso da quello di Raffaele Viviani, che anche nelle poesie si sforza – e ci riesce magnificamente – di parlare dall’interno della condizione umana e sociale che intende rappresentare. Di Giacomo, anche se scrive in vernacolo come Viviani, è molto più vicino al Verga dei romanzi veristici, quel Verga che mette la sua sensibilità e i suoi gusti linguistici a disposizione della “questione sociale”, ma non può e non vuole per questo rinnegare la sua estrazione.
M. Santanelli, Presentazione a Salvatore Di Giacomo, a cura di S. Onofri, Roma, Editrice L’Unità, 1993
Tutta la sua produzione poetica successiva al 1895 si mosse su una pensata lettura del realismo ottocentesco.
Operando una traduzione del musicalissimo linguaggio poetico digiacomiano nei termini più concreti della storia culturale si sono delineati alcuni nuclei di riflessione. Nelle prime esperienze, cioè, si è individuata un’attenzione notevole per le condizioni di vita della plebe napoletana, vissuta con intenzione verista ma soggetta a declinare anche la disposizione alla favola, del resto folkloricamente tipica come già appartenente alla cultura napoletana: Basile. Nella successiva produzione – Ariette e sunette e Vierze nuove - la solitudine che Di Giacomo si costruisce, obbedisce al bisogno di difendere una dimensione umana e linguistica aggredita dall’incalzare della storia, nella quale si ravvisa una chiusura aristocratica foriera – per altro verso – di un’elaborazione poetica vicina alle intenzioni artistiche della contemporanea poesia dell’avanguardia europea. In questo modo Di Giacomo appare poeta testimone in termini particolari di un’epoca precisa compresa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nostro secolo. La delibazione del testo poetico digiacomiano appare quindi impossibile nella sola chiave emotiva.
Di Giacomo non è cioè poeta di sole verità positive e solari. Nella sua opera è rintracciabile il segno di una crisi della condizione umana proposta nella chiave della precarietà antropologica della plebe napoletana e quindi in quella lirico-fiabesca delle passioni esposte al mutevole declino dei sentimenti. La risposta di Di Giacomo alle sollecitazioni della storia sembra prodursi in termini estetici tali da valere in definitiva per il solo poeta: nell’equilibrio musicale dell’emozione estetica, si supera l’inconsistenza, il fluire della vita, la caducità dell’umano.
T. Iermano, Il melanconico in dormiveglia. Salvatore Di Giacomo, Firenze, Olschki, 1995
Una certa affinità con le più tipiche soluzioni pascoliane deriva dalla situazione analoga in cui si pone il poeta, che, si faccia o meno prestare la voce da un personaggio, si abbandona completamente al dialogo amoroso che mette in scena e, sull’ala canora di una versificazione spesso franta ma sempre abilmente concertata, parla la lingua elementare e privata degli innamorati o rinnova per questo tramite i luoghi comuni dell’eterno petrarchismo italiano. […]
Avendo sott’occhio lo spartito digiacomiano, non si fatica a credere che da lui, o dalla canzone napoletana alla quale pure fornì il suo contributo con ’A vucchella, abbia ricavato qualche suggestione anche Gabriele D’Annunzio.
N. Merola, Salvatore Di Giacomo, in F. Brioschi e C. Di Girolamo (a cura di), Manuale di letteratura italiana. Vol. IV: Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1996
Come per un pittore una mostra, la pubblicazione del libro di tutte le sue poesie fu per Di Giacomo occasione di un bilancio. Ma per i suoi lettori e per la critica fu qualcosa di più: come una seconda rivelazione, dopo l’articolo di Croce del 1903. Nella lettura saltuaria di questa o quella poesia, di questo o quel racconto, nell’ascolto di questo o di quel lavoro teatrale, inevitabilmente a colpire erano i caratteri più esteriori ed evidenti dell’opera digiacomiana. Ora che il libro editorialmente bello e corposo poteva tenersi dinanzi e leggersi ed essere meditato, se ne traeva un’immagine diversa. Perché (e questo lo disse solo qualcuno dei critici che ne scrissero dopo l’apparizione del volume) da quelle pagine veniva fuori un Di Giacomo non solo più ricco, ma mutato. E il cambiamento non era tanto nell’orizzonte abituale della poesia di Di Giacomo, o nella tematica cara al poeta, che restava quella dei sentimenti, delle passioni, della vita popolare. L’approccio a poco a poco s’era andato mutando. Da osservatore più o meno partecipe, come l’abbiamo visto nelle prime prove, da testimone quale l’aveva chiamato a essere il mestiere di giornalista, il poeta si trasformava in protagonista, prendeva sempre più su di sé il dolore della esistenza, la passione d’amore, lo stesso piacere di sentire profondamente. atmosfere paesaggi stagioni. Insomma il senso stesso della vita, spesso sorprendendosi a guardarla con gli occhi stupiti del fanciullo, di quel fanciullo ch’era e sarebbe rimasto fino alla fine.
Dal mutamento, da questo tipo di mutamento, nasce la universalità della sua poesia, fondata su scelte già per se stesse innovatrici e aderenti alla sensibilità del suo tempo.
A. Fratta, Salvatore Di Giacomo. La vita, la poesia, le canzoni, la prosa, Roma, Newton Compton, 1997
A tenere a battesimo la poesia dialettale del Novecento era stato Benedetto Croce. Nonostante il suo impegno per imporre autori come Giambattista Basile e Salvatore Di Giacomo, il filosofo napoletano riteneva la produzione in dialetto «letteratura riflessa», che presuppone dunque come antecedente e modello la letteratura nazionale. Eppure sarebbe spettato proprio a lui fornire una legittimazione alle nuove esperienze liriche dialettali che avrebbero dominato il secolo.
Nel saggio su Di Giacomo del 1903 ai fautori del municipalismo partenopeo Croce opponeva la libertà del poeta. La polemica con il vecchio realismo dialettale non avrebbe potuto essere più scoperta. L’anno prima, privilegiando nell’Estetica il puro nucleo intuitivo in cui espressione e linguaggio coincidono, Croce aveva sottratto la poesia a ogni condizionamento storico e culturale. In tal modo forniva però un autorevole avallo a Di Giacomo, accusato di avere adulterato il dialetto e di avere procurato un’infedele, evasiva rappresentazione del mondo napoletano. Non si richiede infatti al poeta né di essere «esatto e statico riproduttore della vita e del carattere di quel popolo di cui adopera il dialetto», né, proseguiva il Croce, di impiegare una lingua codificata: basta che essa corrisponda alla sua personale visione. Il Novecento dialettale procederà appunto sulla strada di una crescente divaricazione del dialetto dai suoi referenti.
Dalle interazioni che uniscono l’opera di Croce a quella di Di Giacomo nasce una nuova estetica dialettale, che, non senza paradosso, si fonda sull’azzeramento delle peculiarità distintive della poesia in dialetto rispetto a quella in lingua. Per il filosofo, che non ammette “generi” e “categorie”, conta infatti la poesia. Questa svalutazione della differenza linguistica, che serpeggia per tutto il secolo, sarà autorevolmente avallata nel 1972 da Gianfranco Contini. Da sempre indifferente al problema dei generi letterari, presentando I bu di Tonino Guerra, Contini mette in guardia il lettore dal «credere nell’esistenza categorica d’una “poesia dialettale”, non avendo i “migliori poeti dialettali” molto maggiore dignità epistemologica, poniamo, delle “migliori poetesse” ossia “poeti di sesso femminile”».
Come vedremo, questo bisogno di sfumare i tratti oppositivi andrà di conserva con il procedere di una poesia che di fatto ridurrà progressivamente tali tratti, fino a occupare gli stessi spazi della poesia in lingua.
Nel suo porsi come snodo decisivo tra Otto e Novecento, Di Giacomo ha rivestito per la poesia in dialetto un ruolo strategico, che, pur con le dovute differenze, ricorda quello che Pascoli e D’Annunzio possono vantare per la poesia in lingua.
Nei primi decenni del Novecento la tradizione dialettale vive la sua seconda svolta storica, a distanza di quasi due secoli dall’altra grande svolta, che, tra Maggi e Goldoni, l’aveva condotta a congedarsi dal parodico, dal farsesco e dal giocoso, per consacrarsi al realismo comico. La poesia novecentesca nasce dalla crisi della grande stagione del Porta e del Belli, naufragata negli esiti minori del secondo Ottocento. Un’appassionata spinta conoscitiva si è venuta esaurendo in un manierismo bozzettistico. A mutare è il rapporto del poeta con il proprio strumento, sullo sfondo di una civiltà letteraria segnata dalle nuove suggestioni del decadentismo.
Il presupposto su cui si fondava la tradizione dialettale era la curvatura storica del dialetto. Scrivere in dialetto equivaleva a fare una scelta di campo, legata alla sua Wesensart, al genio di un codice comico, cioè basso, feriale, concreto. Questa univocità regge ancora in Di Giacomo. In tal senso, egli è un po’ come Gozzano: è l’ultimo dei classici, cioè l’ultimo che abbia saputo mantenersi entro gli spazi che il sistema letterario tradizionalmente assegnava al dialetto. Non stupisce che egli sia stato un poeta altrettanto grande sul versante del vero: basterebbero da soli i fulminanti sonetti di A San Francisco. Il Di Giacomo melico, invece, spoglia, scorpora, rende trasparente, dissolve ogni spessore nella musique, ma non punta al sublime. Diciamo che i suoi esiti sono i più alti che si possano ottenere entro il registro medio. Tutte le sue poesie sono piene di frasi che potrebbero essere pronunciate da ogni parlante. Non ritroviamo mai in lui il prezioso e lo squisito della lirica novecentesca.
Sia pure in ritardo, Di Giacomo è un poeta del secondo romanticismo, che vive la tipica dissociazione tra realismo e musica notturna. Se una metà dei suoi testi appare infatti radicata nel ventre di Napoli (’O funneco verde del 1886, ’O munasterio del 1887, A San Francisco del 1895, per non parlare del teatro), l’altra metà spezza invece l’endiadi verista di dialetto e documento. Se il suo mobile scandaglio si sposta dai quartieri spagnoli alla collina di Antignano o a Marechiaro, il gioco è fatto. «Nu pianefforte ’e notte…». È il Di Giacomo che si ricollega alla linea del petrarchismo dialettale (Veneziano, Meli, ecc.), il poeta di Ariette e sunette, che usa il dialetto al di fuori della più tipica funzione mimetica, gettando un seme che darà i suoi frutti nel Novecento.
Napoli si riduce per questo secondo Di Giacomo a un’ininterrotta, vivissima esperienza sensoriale. La risonanza che il dato esterno suscita nel poeta conta più del dato stesso. Non a caso la sua poesia consiste in un’informe, patetica vibrazione, che mette a frutto le armoniche del dialetto. E tende verso la soglia delle romances sans paroles.
Anche il suo napoletano è straordinariamente lieve, traducibile, in confronto con l’opacità idiomatica della lingua di Ferdinando Russo. E questo aspetto ha indubbiamente concorso alla sua fortuna. Di Giacomo è un anticarducciano, che opera disfacendo il segno, come i macchiaioli o Debussy La sua scommessa si gioca sul piano della levità. Scrive in napoletano, ma nelle orecchie ha la musica delle ariettes verlainiane. E nel contempo guarda indietro alla canzonetta del XVIII secolo e all’ultima grande stagione della cultura napoletana: è un settecentista di fine Ottocento.
Dopo Di Giacomo l’instabile equilibrio che ancora aveva tenuto nella sua poesia sembra non reggere più. Il poeta o sta da una parte o dall’altra: prosegue lungo la tradizione dialettale, accettandone i paradigmi, o se ne emancipa, affermando la libertà di impiegare un codice in assenza dei suoi elementi contestuali. Il Di Giacomo lirico aveva additato una direzione, consistente in buona sostanza nell’allentamento dei rapporti con il microcosmo e nell’affermazione dell’autosufficienza della poesia. Dopo secoli in cui aveva reso conto della vita attiva, il verso dialettale si immerge ora nella durata interiore, affidando tanta parte della comunicazione del proprio sentimento all’inusitata musica degli idiomi popolari. La nuova dialettalità novecentesca maturerà su questa linea, anche se non possiamo dimenticare tutta una serie di esperienze centrifughe, da quella del Tessa, che forza dall’interno il modello dialettale tradizionale fino a farlo esplodere, a quella degli autori che proseguono la dialettalità ottocentesca o continuano a puntare sulla carta satirica e giocosa. I poetae novi scioglieranno il nesso che unisce il dialetto ai suoi referenti. Da “lingua della realtà” – per usare la formula giottiana dell’antologia di Chiesa e Tesio – il dialetto si riconverte in “lingua della poesia”. Parallelamente questi autori si congedano dalle forme epico-realistiche a favore di quelle lirico-elegiache. Al personaggio evocato con movenze scenico-drammaturgiche a narrare la sua storia, subentra il soggetto che si confessa, al racconto la sensazione e l’emozione.
Queste modificazioni comportano per la poesia in dialetto un riordino dei paradigmi retorici. La parola dialettale passa dall’umile al grave, abbandona il livello comico per insediarsi al livello sublime. Ormai relegati nelle zone medio-basse della produzione dialettale, il poemetto narrativo e il sonetto satirico cedono il passo al frammento lirico, che domina invece in quelle alte.
Saranno Virgilio Giotti e Biagio Marin, che esordiscono quasi contemporaneamente tra il 1912 e il 1914, i primi dialettali novecenteschi a tutti gli effetti. Ma intanto la Napoli fin de siècle è un centro fervidissimo di esperienze: l’ultimo grande laboratorio di poesia municipale e nel contempo il terreno di coltura in cui matura una nuova dialettalità, che rivendica un orizzonte sovramunicipale. La fulgida stagione della poesia e della canzone napoletana tra il 1880 e il 1930 è l’orgogliosa risposta della vecchia capitale del regno, umiliata dall’Unità, allo stesso modo in cui la scapigliatura aveva interpretato il disagio di Piemonte e Lombardia. Non stupisce che essa coincida con il tramonto della vecchia letteratura in dialetto a base regionale. L’intelligenza dell’operazione di Di Giacomo ha consistito nel rivendicare la dignità dell’antica lingua nazionale napoletana di fronte all’Italia unita, non regressivamente, evocando fantasmi borbonici, bensì mostrando la sua capacità di coniugarsi con le ricerche poetiche più avanzate.
La figura più emblematica del vecchio mondo partenopeo è invece quella di Ferdinando Russo, che, nonostante le frequenti dichiarazioni di fede verista, sembra più incantato dal colore e dal pittoresco d’ambiente. Ma l’officina napoletana si presenta ben altrimenti complessa. C’è infatti un Russo “digiacomiano”, che firma alcune memorabili canzoni d’amore, come Scètate, e ci sono autori che ricalcano l’opzione realistico-narrativa, come Raffaele Viviani e Giovanni Capurro, i quali però sembrano a loro volta aver attraversato Di Giacomo. Per parte sua Capurro scrive una canzone applauditissima come O sole mio, senza che ciò gli impedisca di cimentarsi, con Carduccianelle, in un’operazione sofisticata come tentare in dialetto l’avventura dei metri barbari. Sul versante lirico troviamo un poeta come Rocco Galdieri, che al colore napoletano oppone una città crepuscolare, piccolo-borghese, autunnale («’Na dummeneca passa e n’ata vene,/ e tutte ’o stesso e tutte tale e quale/ pe’ me…»), mentre più a ridosso dell’opera di Di Giacomo si muovono autori come Luca Postiglione, Ernesto Murolo e Libero Bovio, il quale peraltro firmerà canzoni come Chiove… e ’O paese d’ ’o sole o, in lingua, come Cara piccina! e Signorinella.
F. Brevini (a cura di), La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, Tomo terzo, Milano, A. Mondadori, “I Meridiani”, 1999
Temi ricorrenti della critica su Di Giacomo, ormai ben collocato nel contesto storico napoletano, sono il suo rapporto con la realtà e il grado di attendibilità del suo dialetto: in un caso e nell’altro ha pesato la contrapposizione a Ferdinando Russo, a lungo andare penalizzante per entrambi i poeti. La lingua digiacomiana, nel confronto con quella di Russo ha rischiato di essere fraintesa, in quanto non immediatamente riconducibile all’uso popolare informale. Ma dal momento che nel dialetto – come nella lingua – convivono varietà e registri diversi, la differenza tra due modi di scrivere non si deve ridurre all’opposizione dialetto “vero”/ dialetto “falso”, quasi che il dialetto “vero” fosse uno solo, ma deve essere valutata in un altro modo. Di fatto il distacco dal mimetismo comporta in Di Giacomo l’adozione di uno stile poetico; egli, cioè, per ricorrere a una tautologia chiarificatrice, scrivendo testi poetici in napoletano usa un napoletano letterario, che non è né “falso”, né italianizzato! Spostando il napoletano verso un uso letterario elevato, Di Giacomo, con una sintonia che non dovrebbe stupire in un cultore del Settecento, realizza in fondo il sogno vagheggiato da Galiani, che per primo aveva deprecato l’uso di un dialetto esclusivamente basso o comico. Ancora secondo l’idea di Galiani, l’uso letterario del dialetto in Di Giacomo non va verso l’italianizzazione, che affiora piuttosto proprio negli autori che puntano all’imitazione della realtà: egli propende invece verso una selezione lessicale sempre più decisa. Sarebbe vano attendersi di rinvenire nelle poesie digiacomiane tutto il lessico in uso nella realtà quotidiana, ma è vero d’altronde che le parole delle poesie sono a tutti gli effetti napoletane, e in genere plausibili nell’uso.
N. De Blasi, Le letterature dialettali. Salvatore Di Giacomo, in E. Malato (diretta da), Storia della letteratura italiana, Vol. VIII: Tra l’Otto e il Novecento, Roma, Salerno ed., 1999
Le lettere [ad Elisa Avigliano, sua futura moglie] evidenziano che l’amore per Elisa fu un fatto che investì profondamente la vita del poeta, procurandogli momenti di gioia e di esaltazione, ma anche momenti di turbamento e di sofferenza. Il sistema nervoso un po’ fragile del di Giacomo in varie occasioni di questa lunga storia d’amore rimase scosso, lasciandolo in uno stato di prostrazione e di smarrimento. Di Giacomo, che l’amico Dalbono, con parole che potevano prestarsi ad essere equivocate, definì «miezo femmena e miezo creatura», ebbe in effetti un carattere, come egli ripete più volte in queste lettere, estremamente «sensibile». Ma è un dato di fatto, largamente testimoniato dalle lettere, che di Giacomo tenacemente operò per conciliare le esigenze del suo amore con quelle, irrinunciabili, del suo impegno artistico e che, in una situazione oggettivamente non facile, sia pure attraverso un lungo e tortuoso cammino, pilotò il suo amore verso il porto tranquillo del matrimonio.
Ma, al di là della vicenda biografica, importa stabilire quale influenza ebbe l’amore per Elisa nella poesia del di Giacomo. Quando il poeta conobbe Elisa, nell’estate 1905, aveva già compiuto larga parte del suo percorso poetico. Ma la prima edizione Ricciardi delle Poesie del 1907, che lo registra, fa in tempo ad accogliere qualche traccia della nuova storia d’amore e le due ultime raccolte poetiche, Vierze nuove, inclusi in forma allargata nella seconda edizione del 1909 e Ariette e canzone nove. pubblicate nel 1916 e inserite poi nella edizione delle Poesie del 1920 e in quella definitiva del 1927, portano i segni evidenti e profondi dell’amore per Elisa.
La poesia lirica di di Giacomo, che in relazione alla sua radice veristica aveva avuto caratteri narrativi e oggettivi, ben evidenti in ’O funneco verde, Zi’ munacella,’O munasterio, A San Francisco, e anche nelle composizioni d’amore si era atteggiata come racconto, rappresentazione oggettiva e fenomeno corale, a questo punto compie una svolta e, prima di declinare verso il silenzio, si fa più intima e personale, manifestando vibrazioni nuove. Certo, qualcuna delle diciotto poesie che Elisa indicava come espressione dell’amore per lei non può essere inclusa nell’area della poesia elisiana per ragioni di tempo, come Palomma’e notte compresa in Canzone, uscite nel 1891, e Comme va?… e Ll’ ortenzie, comprese in Ariette e sunette, usciti nel 1898, anche se esse potrebbero entrare nell’area virtuale della poesia elisiana per caratteri tematici e tonali, costituendone quasi delle premesse. Ma le altre quindici – Na tavernella…, Primmavera, Ll’ ombra, Si è Rosa ca mme vo’…, Parole d’ammore scuntento, ’E matina, pe Tuleto, Na voce luntana…, Damme ’a mano…, Quanno stammo vicine…, Che fa?…, ’E llacreme d’ammore…, LI’ ato iuorno…. Stammo ’int’ austo e chiove…, Arillo, animaluccio cantatore…, Aspetta ’a primmavera – possono senz’altro essere considerate poesie ispirate dall’amore per Elisa. Anzi ad esse potrebbero essere aggiunte anche altre, come Principio d’anno, Si dummeneca è bon tiempo…, ’O tiempo, Gelusia, che risultano vicine, nei temi e nei toni, alle poesie specificamente indicate da Elisa. […]
La rilettura dei testi, che è stata qui effettuata, non esclude la presenza nella poesia digiacomiana, soprattutto nella seconda fase, di motivi impressionistici e fantastici di qualità lirica e novecentesca, ma conferma che essa ha nel verismo dell’ultimo Ottocento il terreno e l’impianto di base. E bisogna anche dire che questa interpretazione riceve un autorevole conforto dalle stesse parole del poeta, che nella lettera a Georges Hérelle del 1° febbraio 1894, inviandogli il volume di novelle Pipa e boccale, lo invitava a non giudicarlo da «questo libro di pura immaginazione», perché egli era «piuttosto un verista», o meglio «un verista sentimentale», e nella Prefazione al volume di tavole pittoriche di Michele Tedesco del 1914 annotava con grande acutezza ed evidente implicazione autobiografica che «nel concepimento dell’opera d’arte deve precedere il senso del reale; perché è il reale che dà la sostanza: l’ideale la purifica e la corregge mediante la forma».
A. Benevento, Napoli in dialetto e in lingua. Saggi su Salvatore di Giacomo, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2000