Da qualunque parte e sotto qualsiasi pretesto, l’approccio a Di Giacomo ha avuto origine da una matrice squisitamente crociana. Di Giacomo era lo scrittore che Croce avrebbe dovuto ipotizzare o inventare se non se lo fosse trovato di fronte già bell’e fatto: voglio dire che uno scrittore che fu essenzialmente un artista, senza nessun’altra preoccupazione che non fosse quella dell’espressione e della rappresentazione. Ed Elena Croce ci chiarisce le idee quando dice che «la parola artista, insudiciatissima dall’abuso fattone dal dilettantismo nella sua decadenza (a manifestazione di pretensiosità borghese), riacquista di colpo il proprio significato insostituibile».

Da questo punto fermo discende ogni possibile distinzione critica. Abbiamo recentemente parlato della Serao in occasione del cinquantenario della morte. Abbiamo detto che anche la Serao, nel Paese di cuccagna, è un’artista: ma nel senso che la sua arte riesce benissimo a convivere con qualche altra cosa, e quest’altra cosa è la ricerca sociale di tipo zoliano. Di Giacomo è un artista e basta: non ha niente da dissimulare, non ha sottofondi, il suo mondo s’identifica con la lingua napoletana, e i suoi personaggi non sanno che quello è uno dei tanti mondi esistenti e coesistenti: per loro è tutto il mondo, l’unico possibile. In Di Giacomo non ci sono le classi. Al momento d’intuire la realtà, è tutt’uno con quella realtà medesima: non interpreta la voce altrui attraverso la mediazione di una lingua superiore. La Serao, da naturalista, descrive; Di Giacomo rappresenta. C’è in lui un’irresistibile vocazione scenica: anche nella sua poesia, e non solo in quella dialogata, oltre che nella sua narrativa e nel suo teatro vero e proprio. Per lui un gesto o una parola o un silenzio valgono assai più di una ricostruzione d’ambiente, o per meglio dire l’ambiente è in funzione di quella parola, o di quel silenzio.

L. Baldacci, Salvatore Di Giacomo, in Ottocento come noi. Saggi e pretesti italiani, Milano, Rizzoli, 2003 Si sa che il ventesimo secolo ha visto uno sviluppo enorme e in certo senso imprevisto, in Italia, di una poesia dialettale di alta qualità, ubiquamente: con relativo concorso di studi, antologie, edizioni, concordanze ecc., cui ha dato mano vigorosamente anche il miglior fabbro, Gianfranco Contini. Di Giacomo non ne ha quasi affatto beneficiato, e si vede fin da quello che possiamo considerare il punto di partenza della “fortuna” dei dialettali, la grande antologia di Pasolini. Dove certo Di Giacomo è selezionato, ma dove anche il giudizio che lo riguarda nell’Introduzione (poi in Passione e ideologia) è, per un critico di quella statura, singolarmente tiepido e sfocato: anche se si comprende bene il perché di questa sfocatura e anche se ciò non impedisce che movenze del napoletano risuonino nella Meglio gioventù (il recente commento alla quale mi sembra, a occhio e croce, un po’ reticente su questo punto).

Eppure il primato e l’anticipo di Di Giacomo nei confronti dell’officina dialettale del secolo sono ben più che meramente cronologici. La sua impronta è netta sui maggiori “lirici” in dialetto, come Marin e Giotti (anche, a mio giudizio, su più di un poeta in lingua, come Betocchi e soprattutto il conterraneo Gatto che a volte – riprendo ancora una mia vecchia definizione – ci appare una sorta di dialettale mascherato). Ma il punto principale non è neppure questo. Di Giacomo […] è un dialettale bifronte: non è soltanto il lirico e melico grande che tutti riconoscono, una sorta di Eichendorff napoletano, verrebbe talora da metaforizzare; è anche un cospicuo e non di rado potente narratore realista in versi, ciò che spesso è sottovalutato. C’era un Belli che sonnecchiava in lui, e gli aspetti tremendi e insostenibili di Napoli balzano fuori da molte sue poesie e “serie” tanto più mordenti quanto colui che li rappresenta e teatralizza è meno “ideologico” (a differenza che in Russo): lucidità senza illusioni dei conservatori!

In Di Giacomo dunque sono compresenti – sia nel loro contrapporsi che nel loro reciproco permearsi – i due aspetti polari (e relativi “stili”) che nei dialettali del Novecento più inoltrato tenderanno senz’altro a scindersi: Marin, lo stesso Giotti ecc. da un lato, dall’altro i grandi narratori in versi come Tessa e Baldini, per nominare solo i due maggiori. Anche in questa prospettiva Di Giacomo, che per un certo verso può, anche legittimamente, sembrare la summa finale di una tradizione, poetica ma anche musicale, dalla sponda opposta è un punto di partenza, un molo proteso. E in genere io credo che la scarsa comprensione del suo ruolo e della sua stessa grandezza sia dipesa non poco dal non averlo considerato abbastanza dentro il Novecento.

Neppure sarebbe male studiare i rapporti interni fra i vari “generi” della creatività digiacomiana, poesia dialettale, racconti, teatro: le loro peculiari ragioni d’essere e le loro distinzioni certamente (Di Giacomo è, ricordiamolo sempre, un grande lirico che non si accontenta della lirica), ma anche le loro interrelazioni.

P.V. Mengaldo, Studi su Salvatore Di Giacomo, Napoli, Liguori, 2003

 

 

 

Qualcuno sta cantando Era de Maggio. Le parole dicono che la ferita d’amore non si sana: «Nun se sana: ca sanata/ si se fosse, gioia mia,/ mmiezzo a st’ aria mbarzamata/ a guardarte io nu’ starria!…»

La canzone sale dalla strada e dai miei precordi sentimentali. Sempre così, appena una canzone napoletana trovava le mie difese un po’ più deboli per un amore nascente, non corrisposto, o finito malinconicamente, ecco che ci ricascavo e mi abbandonavo e, come la canzone, sospirava anche l’anima mia. Ero talmente predisposto a subire l’effetto di queste canzoni che non sono mai riuscito a pensarle come venute dal di fuori, le ho sempre sentite come un’appartenenza, e scaturite in me, da me, come il mio linguaggio originario, quello nato prima della coscienza. A volte, sono riuscito perfino a figurarmele come una prigione, una prigione sentimentale dalla quale era necessario evadere per essere veramente e fieramente se stessi. Ogni canzone diventava allora una sbarra, una sbarra della prigione della napoletanità, la bottiglia dalla quale con tante astuzie, anche letterarie, con tante strategie della mente e del cuore, ho più volte tentato la fuga. E meno male che c’era quella bottiglia, e meno male che c’erano le sbarre di quella prigione! Perché sono state proprio quelle a determinare, nell’intento di liberarmene, tutta la mia fantasia e tutta la creatività che mi è stata concessa.

Qualche volta la mattina, mentre mi faccio la barba, mi sorprendo a canticchiare. E se più che essere io a cantare, è la canzone che viene a visitarmi e si intrattiene con me, quasi sempre quella è una canzone che mi arriva da Napoli. La canto piano per non farmi sentire, e il mio canticchiare sommesso stabilisce una specie di intimità tra me e la canzone, tra me e le parole della canzone. E allora, quando la ritrovo così, la sento come una forma di poesia, pura come quella dei lirici greci, dove il ritmo e il significato delle parole trasforma per incanto in un suono il legame antico tra Napoli e la Grecia di Saffo e Anacreonte.

R. La Capria, L’estro quotidiano, Milano, A. Mondadori, 2005.