Capitolo secondo
Vent’anni di follia: le premesse

Vent’anni (e più) di follia: o, forse, l’intero secolo. Anche se l’Europa era sempre stata teatro di innumerevoli guerre: mai, in precedenza, si era versato tanto sangue come nel Novecento, e le ragioni (le sragioni) per tornare a combattersi non erano mai state così spontanee e così forti dai tempi delle guerre di religione, come negli anni che seguirono il 1918 e i trattati che avrebbero dovuto riportare la pace. La regina ed arbitra delle vicende umane non aveva mai prodotto niente di simile alle ideologie del “secolo breve” già nominate, cioè al fascismo, al nazional-socialismo e al socialismo reale.

Ognuna di quelle ideologie da sola era sufficiente, e si è visto, per provocare guerre e per mandare in rovina uno o più popoli. I cento anni del Sudtirolo in Italia sono stati attraversati e contristati da due follie, quella fascista e quella nazista. Soltanto il socialismo reale è stato risparmiato a quella terra tra le montagne, così bella e così sfortunata nelle sue vicende recenti.

Il profeta e l’ideologo del fascismo tra il Brennero e Trento fu un tale Ettore Tolomei, nato a Rovereto nel 1865 e morto a Roma nel 1952. Questo Tolomei, di cui pochi oggi in Italia si ricordano, aveva fondato nel 1906 e quindi ancora sotto la dominazione austriaca una pubblicazione periodica: l’«Archivio per l’Alto Adige», che doveva sostenere (ma sarebbe meglio dire che doveva inventare) l’italianità di quella regione. Ora, io non so quale seguito possa avere avuto la rivista di Tolomei prima della Grande Guerra; ma penso che il suo successo, se ci fu, sia stato molto contenuto. La fortuna del periodico, e quella personale del suo fondatore, incominciarono dopo il trattato di St. Germain e dopo l’avvento al potere, in Italia, del fascismo. L’inventore dell’Alto Adige fece una carriera strepitosa, al di là delle sue speranze più rosee. Senatore dal 1923, conobbe personalmente Mussolini e Hitler e fu il principale responsabile, nel ventennio fascista, della sistematica eliminazione della cultura e della lingua tedesca a sud del confine del Brennero. Ebbe onori e agi di ogni genere. Negli anni Trenta, il re Vittorio Emanuele III lo nominò conte per meriti patriottici.

La sua buona stella incominciò a declinare nel 1939, con l’accordo tra Italia e Germania per le “opzioni” e per il trasferimento dei sudtirolesi nel Reich. Il problema della minoranza tedesca in Italia si sarebbe risolto in quel modo e le fandonie di Tolomei non servivano più, così come non servivano più i suoi trucchi e le sue invenzioni per snazionalizzare quelli che il regime fascista chiamava “gli alloglotti”. Nell’autunno del 1943 il Sudtirolo/Alto Adige diventò una provincia del Reich e il destino di Tolomei sembrò capovolgersi. Imprigionato dai nazisti, venne internato nel campo di concentramento e di sterminio di Dachau in Baviera. Anche il suo archivio di fandonie fu impacchettato e portato non si sa dove, probabilmente in Austria.

Lui, però, era destinato a salvarsi. Ritornato in patria, fece ancora in tempo a scrivere e a pubblicare un libro di memorie, una raccolta di versi e un romanzo sui colonizzatori romani dell’Alto Adige; ma il suo nome, oggi, sarebbe completamente dimenticato, se non fosse legato alle sue gesta, di oppressore e di persecutore dei sudtirolesi.

Le teorie pseudoscientifiche e pseudostoriche di Tolomei partivano da Druso, il figliastro di Augusto che nel 15 d.C. aveva reso sicuri sotto il controllo di Roma i valichi alpini e aveva sottomesso la regione a nord delle Alpi fino al Danubio. Per effetto di quella conquista l’Alto Adige era diventato una terra romana e italiana, destinata purtroppo a imbarbarirsi dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente. Bisognava riportare quella terra nel solco della sua civiltà originaria: una cosa da nulla.

In realtà, la storia (quella vera) di questa regione, che i romani chiamavano Rezia, incomincia con un popolo poco conosciuto, quello dei Reti. L’uomo del Similaun, di cui si conserva la mummia al museo di Bolzano, appartenne probabilmente a quel popolo. I Reti ebbero contatti con la civiltà etrusca e ne subirono in qualche misura l’influenza. Questo spiegherebbe, tra l’altro, la coltivazione della vite nell’alta valle dell’Adige già in epoca romana, testimoniata da Svetonio nel paragrafo 77 della Vita di Augusto, là dove si dice del primo imperatore di Roma che “gli piaceva moltissimo il vino di Rezia, ma non ne beveva mai durante il giorno”. In quanto all’impresa di Druso, la Rezia fu effettivamente una provincia romana: ma che significa? A partire dalle conquiste di Giulio Cesare lo furono anche la Gallia e la Britannia, che noi oggi chiamiamo Francia e Inghilterra. Ragionando come ragionava Tolomei, si dovrebbe sostenere l’italianità dell’Inghilterra. Una follia.

La storia del Tirolo che non è mio compito, qui, nemmeno riassumere, è la storia di un Paese di cultura alpina e di lingua tedesca, che viene diviso in due parti in seguito al trattato di St. Germain. Un evento traumatico ma prevedibile, per come era finita la guerra e per come si erano regolate, fino a quel momento, le faccende dei confini in Europa. Un evento che si sarebbe potuto rimediare lasciando alla popolazione di lingua tedesca la possibilità di amministrarsi dentro ai nuovi confini, e concedendole qualche piccolo privilegio. Questa dei piccoli privilegi, infatti, era stata la ragione profonda dell’attaccamento dei tirolesi alla dinastia degli Asburgo, e della loro avversione ai re di Baviera ricordata dal poeta tedesco Heinrich Heine nei suoi Reisebilder (Visioni di viaggio, 1824-1831). Gli Asburgo avevano capito, o gli avevano dato l’impressione di capire, la specificità del loro vivere in montagna, in un ambiente difficile.