Il cuore di tenebra della questione sudtirolese è il periodo che va dal 1939 al maggio 1945, e che a sua volta si divide in due sotto-periodi, prima e dopo l’8 settembre 1943. A diciassette anni di italianizzazione forzata seguono sei anni di una “full immersion” nella germanità, che però è anche e soprattutto una “full immersion” nel nazismo. “Sui campi di battaglia di quella guerra iniziata dalla follia criminale di Hitler” recita il Manuale dell’Alto Adige più volte citato, “lasciarono la vita 8.025 sudtirolesi.” Questo è il numero dei caduti: ma quanti furono i sudtirolesi che negli anni dal 1939 al 1945 vestirono la divisa della Wehrmacht, o delle Waffen SS, o addirittura delle SS? Il Manuale non lo dice. I non optanti vestirono la divisa dell’esercito italiano o si diedero alla macchia: le loro cifre, che già ho trascritto nelle pagine precedenti, sono molto più piccole. L’8 settembre 1943 l’Italia firma con gli Alleati un armistizio che in realtà è una resa senza condizioni. La guerra fascista è finita, ed è finito anche il fascismo. Hitler, che si aspettava questo “tradimento”, fa occupare dai suoi generali la maggior parte del territorio italiano fino a Napoli. Il Sudtirolo/Alto Adige, però, non viene considerato una regione occupata ma diventa parte integrante del Reich. Per venti lunghi mesi i sudtirolesi tornano a vivere in uno Stato tedesco, anzi in un impero (Reich) che anziché avere il suo centro nella Vienna degli Asburgo ce l’ha nella Berlino di Hitler. L’oppressione italiana è finita ma lì per lì non succede niente o quasi niente, perché il Reich è in guerra e bisogna pensare innanzitutto alla guerra. Si cercano gli ultimi ebrei; si spediscono Tolomei a Dachau e il suo archivio (forse) a Innsbruck. Bolzano, in quei mesi, è soprattutto uno snodo ferroviario e stradale: ci passano i convogli dell’esercito tedesco diretti a sud e i vagoni piombati degli ebrei e degli altri deportati diretti ai campi di concentramento e di sterminio del nord Europa. C’è anche un campo di concentramento locale, che farà in tempo ad entrare nella letteratura sui crimini nazisti.
Riesce difficile, oggi, immaginare la vita in Sudtirolo/Alto Adige nei quattro anni delle opzioni e poi negli ultimi venti mesi della guerra e della germanità ritrovata. Nei mesi del “ritorno a casa”. Per gli immigrati italiani, che già erano diecine di migliaia, quei mesi dovettero essere un tempo fuori dal tempo: un tempo d’attesa, da vivere giorno per giorno. Nessuno li minacciava o gli faceva violenza, ma non ci voleva molto per capire che il loro avvenire era sospeso a un filo, e che la loro sorte dipendeva dall’esito della guerra. Ci sarebbero state le opzioni anche per gli italiani? La stragrande maggioranza dei sudtirolesi, invece, credo che abbia affrontato quel periodo di guerra e di sacrifici, di tragedie e di lutti come un passaggio obbligato del ritorno alla normalità. Anche se avvenivano cose strane, in Sudtirolo e nel mondo: in molti avranno pensato che dopo diciassette anni di oppressione fascista quello era il prezzo da pagare per tornare liberi. Che quella follia era necessaria, o forse addirittura che era giusta, per raddrizzare un mondo che loro avevano visto capovolgersi a causa degli italiani.
Il cuore di tenebra della questione sudtirolese è tutto lì, tra le opzioni, la guerra e i venti mesi del Sudtirolo/Alto Adige provincia meridionale del Reich. Per causa del trattato di St. Germain e della follia fascista una generazione, quella dei giovani degli anni Venti e Trenta, aveva vissuto poco e male la propria giovinezza e aveva creduto che il nazismo e la sua guerra potessero essere la luce in fondo al tunnel: la via d’uscita da una situazione altrimenti senza uscite. Perciò era corsa ad ingrossare le file delle armate di Hitler, e aveva avuto migliaia di morti (8.025 caduti, in rapporto alla popolazione di allora, sono una cifra enorme) sul fronte russo e nei Balcani. Nella vicenda del Sudtirolo/Alto Adige ci sono aspetti legati alla vita delle persone e alla loro formazione culturale negli anni della prima giovinezza, che non possono essere taciuti o sottovalutati. Ricordo un passaggio del discorso che fece l’allora presidente della provincia Silvius Magnago nel novembre del 1983, a conclusione della sua ultima campagna elettorale, e lo trascrivo dai miei appunti di allora:
“Racconta la sua vita, o per lo meno quella parte della sua vita che può far presa sugli ascoltatori: il matrimonio, la partenza per la guerra pochi giorni dopo il matrimonio, la perdita della gamba, i medici che ormai lo considerano spacciato e mandano a chiamare i familiari, l’arrivo della moglie. ‘Quando rividi mia moglie mi tornò la voglia di vivere’ dice Magnago. ‘Sapete, quarant’anni fa!’ ripete sviluppando e completardo il pensiero: ‘Quarant’anni fa mia moglie era una bella donna!’. (Applausi.) Si accorge che la moglie potrebbe offendersi. Aggiunge: ‘È una bella donna anche adesso’. Spiega: ‘Io avevo ventinove anni e ancora non conoscevo i piaceri della vita’”.