I n una fattoria del Friuli detta della Mandra che mio padre in tempo di agiatezza possedeva e amministrava con l’entusiasmo di un pioniere, trascorsi la mia adolescenza. Per molte miglia intorno non erano che prati e campi nostri; nostre le acque che attraversavano quelle terre e la fattoria che signoreggiava i fertili orizzonti delle dipendenze, vera rocca di biade e di fieni, quadrata come una fortezza e bianca come un monastero.
Vivevo felice, libero di me e padrone delle mie giornate. Mia madre mi sentiva schivo di abbandoni e la sua tenerezza, pungendosi al mio carattere selvatico, s’era a poco a poco ritratta in un amore che mi seguiva e mi illuminava da lontano.
Dai campi ove ogni giorno mi perdevo, solo e innamorato della solitudine, guardavo la fattoria e pensavo a mia madre e le parlavo in me come si parla alle stelle.
A mio padre invece pensavo con una fierezza che torturava il mio amor proprio. Sentivo di non assomigliargli, e tuttavia scorgevo adunate in lui tutte le virtù desiderabili. Ovunque io mi trovassi tra bovari o mietitori, egli appariva all’improvviso tutt’uno col cavallo ardente di corsa, severo e giusto. Gli uomini tacevano per ascoltarlo, sudavano per ubbidirlo, soffrivano talora per dimostrargli nelle opere compiute il segno di una fedeltà generosa, di una silenziosa e umile amicizia. Mi parlava dall’alto, ed io, per guardarlo, dovevo sempre incontrare la luce. Mi pareva che egli non dovesse mai scendere dalla cavalcatura, tant’era degno di altezza e di comando. Capii cosa fosse la guerra dal dolore che gli vidi sul volto il giorno che alla Mandra portarono la notizia che tutti gli uomini giovani erano mobilitati.
Venivano a gruppi da lontano i guardiani dei pascoli a salutare il padrone, a prendere l’ultima paga; e la sera prima di partire, raccolti sulla grande aia chiusa, cantavano canzoni che facevano piangere le donne. Un giorno vennero alla fattoria alcuni ufficiali, e di lontano arrivarono in nuvoli di polvere, rustici e fieri cavalcatori in brache di frustagno, seguiti da una mandra di cavalli quasi selvaggi.
Io guardavo quegli ufficiali raccolti sulla breve balconata della villa, mentre gli uomini facevano passare loro innanzi stupendi cavalli iridati, dall’occhio scoperto e ombroso. Mio padre era con loro, disarmato e avvilito come un prigioniero.
Nel tumulto di voci che aizzavano le bestie alla libera corsa, mi parve a un tratto di udirmi accanto il pianto d’un uomo. Mi volsi e vidi rovesciato in un mucchio di fieno, un ragazzo della mia età. Egli piangeva con un accoramento che mai prima d’allora avevo inteso più profondo in dolore d’uomo. Lo toccai sulla spalla ed egli mi si volse mostrandomi all’improvviso un volto pieno di rancore e tutto lavato dalle lagrime. Doveva essere uno di coloro che avevano guidato fino alla fattoria la mandra dei cavalli.
— Perchè piangi?
Egli non mi rispose. Si asciugava le lagrime col dorso della mano e faceva sforzi per rattenere i singhiozzi che lo scotevano tutto.
— Cosa t’han fatto?
M’indicò il gruppo dei cavalli:
— Hanno preso anche il mio.
Le lagrime gli colavano dagli occhi ancora copiose e piene di luce. Poi si alzò di scatto e fissandomi come un nemico mi disse:
— Se dici che m’hai visto piangere ti rompo il muso.
S’era voltato a guardare la campagna grande e gonfia di verde. La stagione tardiva non aveva ancora maturati i maggesi, e il vento si coricava sulle erbe alte e ondose lasciandovi la labile orma del suo peso.
Quel ragazzo che piangeva per un cavallo e sentiva nell’amicizia del proprio compagno di libertà e di ventura la cagione d’un attimo di debolezza indegna d’un uomo forte, mi piacque.
— Ne avrai presto un altro — gli dissi — più veloce e più bello. I poledri non sono stati requisiti.
— Non avrò più nessun cavallo come Furia. Era il mio solo amico. Capiva le mie parole e i miei pensieri.
Ora guardavo il ragazzo tutto scolpito nella luce. Era vigoroso e ben fatto. Lo sguardo pieno d’inquietudine gli si addolciva a tratti sempre più frequenti come se stesse per guadagnare una pace a lungo cercata nel cuore.
— Resteremo alla fattoria. Gli uomini sono partiti tutti e i ragazzi devono prendere il loro posto.
— Io mi chiamo Stefano, e tu?
— Io, Mario. — E dopo un lungo silenzio che non volli interrompere: — Anche qui si può vivere. La fattoria non è forse la prigione che temevo.
— Quello è mio padre.
— Se sei come lui, ti vorrò bene.
M ario fu da quel momento il compagno delle mie giornate. Subivo la forza del suo carattere e mi lasciavo dominare volentieri da quella volontà che mi guidava verso le imprese più temerarie. Sentivo che prima ch’egli entrasse nella mia vita le ore della fanciullezza erano state pallide e vane. Nessuno prima di allora mi aveva parlato della terra con senso più arcano. In ogni creatura egli vedeva trasfigurato un mito rustico e saggio, votato al lavoro come a un dovere, al dolore come a una necessità.
— Devi imparare a soffrire — mi diceva.
— Imparerò se mi insegni.
— Ecco: ora coglieremo l’ortica, l’erba che scotta e si difende se la prendi con mani di donna. Strappala così, così, così: sentirà la tua forza e si lascerà prendere senza ferirti. Te ne metterai una foglia sotto la camicia, e con quella in dosso starai un giorno intero senza grattarti.
Io prendevo l’ortica, me la ponevo in seno e mi pareva d’avere sulla pelle una brace.
Ma resistevo alla tortura. Soffrivo per l’amico e per me.
Nei giorni di vento propizio veniva dalle montagne, che il sereno faceva imminenti e scandite, un vasto martellare di colpi d’artiglierie. La guerra bruciava ai cigli della vasta pianura friulana, e noi la sentivamo nel cielo.
Un giorno Mario mi mise a parte di un suo disegno.
— Noi — disse — chiameremo alle armi i ragazzi della fattoria e li istruiremo alla guerra. Un gioco come questo non è più soltanto un gioco. Qui costruiremo la nostra trincea.
Eravamo su un piccolo promontorio che chiamavamo « la montagna », alto abbastanza per consentirci di dominare un gran tratto della pianura circostante.
— Il nemico è fermato sui monti, ma noi saremo pronti a riceverlo se mai osasse avanzare.
D a allora Mario fu il capitano del più giovane manipolo. Eravamo quindici ragazzi ad obbedirlo. Scoprimmo in un solaio della mia casa alcuni vecchi fucili dimenticati, e ce ne armammo.
Lunghi giorni ci prese il governo di quelle armi compromesse dalla ruggine, ma sotto il dente della sabbia l’acciaio tornò a splendere e i meccanismi, redimiti dai grassi, ridivennero pronti e efficienti.
Le armi erano più alte di noi e il nostro braccio faticava a reggerle, ma il cuore ci aiutava e la fierezza di servire la bandiera ci vestiva sempre più di senso marziale. Mario ci preparava a quella dura vita di uomini con meticolosa diligenza. Passava tra le sentinelle avanzate susurrando la parola d’ordine, e dalla trincea, mostrandoci l’orizzonte, ci diceva come il nemico poteva apparire all’improvviso:
— Egli si apposterà nella boscaglia e ci batterà con le mitragliatrici. Uditele in quel cantare di rane. Bisogna farle tacere. Chi vuole venire con me?
Tutti si facevano avanti e il drappello scelto, strisciando sulla terra, nascosto dalle erbe adulte, moveva alla cattura di un’arma immaginaria. Dalle feritoie, guardavamo col cuore sospeso il cauto muovere dell’erbe senza vedere gli eroi, tanto prudente era la loro avanzata.
Espodeva all’improvviso ai limiti della foresta il grido di vittoria, e il gracchiare della mitraglia ridiventava canto di rana sperduto nei prati.
I l gioco durava da cinque mesi e il nostro corredo di guerra s’era arricchito di vecchie trombe, di filo spinato, di borracce ammaccate, di tascapani sdrusciti e di cartucce autentiche.
Già l’autunno immalinconiva la campagna di uggiose piogge e di nebbie; e sottraendo al nostro gioco la letizia del sole, lo riduceva a una prova di pazienza più forte della nostra volontà e del nostro coraggio.
Si dissolveva lentamente nel fango di quel solco aperto dalle nostre mani ogni spirito di resistenza. Si ottenebrava ogni lieto colore d’eroismo che il gioco fino allora ci aveva prestato; e Mario lo sentiva e ci rianimava dicendoci che più è oscuro il soffrire più è degno degli eroi, più è buia la trincea più il soldato la illumina, più è snervante l’attesa più si fa degno per l’uomo fedele il combattere e il morire in campo.
Egli aveva dell’eroismo un concetto compiuto, che sentivamo esatto, ma così alto da riuscirci inafferrabile.
Ecco che il nostro gioco diventava una pesante croce. Forse, per questo, non era più gioco, ma dolore ignudo e virtù perfetta. Le file si assottigliarono: ma i disertori si nascosero ai nostri occhi. Si sentivano certamente vestiti di vergogna.
Non eravamo più che dieci. Poi fummo sette.
U na notte, gli uomini della fattoria vennero a bussare alla nostra porta.
Mi svegliai. Sentivo venire dall’aia un tramestio di ruote, un levarsi concitato di voci come in una notte lontana che l’incendio era scaturito dai fieni.
Il cielo s’arroventava di bagliori che salivano dall’orizzonte.
Udivo mio padre comandare gli uomini con voce alta e sicura, come dal ponte di una nave, senza sgomento; e mia madre piangere nella stanza accanto mentre con altre donne s’affannava in un lavoro che non potevo vedere.
Mi vestii, presi la mia arma e fui nel cortile.
Nessuno badava a me.
Potei capire che il nemico aveva rotto il fronte e invadeva la Patria.
Trovai Mario armato, con gli altri cinque ragazzi armati e pronti.
— Ecco la nostra ora — egli disse — Gli uomini se ne vanno. Noi resteremo.
Il gioco diventava finalmente la più bella avventura che ragazzo possa desiderare.
Andavamo sotto una pioggia da di dei morti, nella campagna spaventata di colori elettrici. Raccolti nella trincea, accanto ai vecchi fucili pronti, aspettammo l’alba.
Tutto un giorno passò senza che nulla venisse a rompere la monotona attesa, solo svagata dall’epico e doloroso spettacolo di un popolo che migrava verso il sud, dietro pesanti ruote di cannoni e di carri agresti.
Ma verso sera, sul limitare del bosco, la rana cantò, e il suo canto passò con rabbiosi sibili bassi sulle nostre teste. Non era più una mitraglia immaginaria. Sul parapetto della trincea cadeva la gragnuola dei colpi, e noi rispondevamo coi nostri vecchi fucili consumando nel gran gioco le poche munizioni delle giberne.
Ancora un poco e saremmo stati disarmati.
Allora Mario ci chiamò tutti intorno a sè, e disse:
— Bisogna catturare quell’arma. Chi viene con me? Sei eravamo, sei lo seguimmo; ma appena sul ciglio della trincea una ventata di piombo ci rovesciò.
N on ricordo più nulla di quel che avvenne in quella notte. So soltanto che sulla « montagna » ora c’è una croce di ferro ove si possono leggere sei nomi di ragazzi, e il solco del nostro gioco è ancora aperto, e la gente vi arriva portando fiori, e lo chiama « la trincea dei gigli ».