Due, aggettivo numerale cardinale. Il primo numero primo, la cifra che rappresenta il doppio dell’unità, il seme da cui germogliano i dualismi. Ahura Mazd e Arimane, luce e tenebre, bene e male, anima e corpo, cuore e ragione, tesi e antitesi, positivo e negativo, essenza e apparenza, esistenziale ed esistentivo, struttura e sovrastruttura, conscio e inconscio, inizio e fine, tutto e niente, soggetto e oggetto, avere ed essere, maschile e femminile, singolare e plurale, sincronia e diacronia, intuizione e concetto, teoria e prassi, io e non-io, vita e morte, angelica farfalla e verme immondo. Due le essenze, due gli elementi, due i princìpi, opposti ed eternamente inconciliabili.
Partenio di Nicea
– Signore e signori, desitero farci un calorosissimo benvenuto, a nome dell’amministrazione comunale e dei sottoscritti, a questo interessandissimo appuntamendo. Perciò permettetemi di ringraziare, prima di tutti, il nostro carissimo sintaco per averci messo a disposizione questa bellissima sala convegni, poi i gendilissimi sponzor per averci collaborato in maniera attivissima alla buonissima riuscita dell’evendo e infine i nostri autorevolissimi relatori per i notevolissimi contributi che, sono certissimo, ci apporteranno.
La sconsiderata favella altera, cannibalizza, corrompe, avvelena, infanga, sfigura, strazia, tormenta, amputa, umilia, inquina, imbarbarisce, appesta, deturpa, abbatte, tortura, devasta, oscura, saccheggia, lacera, annichilisce.
Raccapriccianti orrori fonetici, irripetibili aberrazioni lessicali, presunte qualità indiscriminatamente espresse al massimo grado da quegli assurdi superlativi assoluti, così soverchi e cacofonici, che si riproducono per partenogenesi e sovraffollano fastidiosamente il periodo. Sadiche sevizie inflitte alla grammatica, dolosi e reiterati oltraggi all’intelletto.
Mi contorco come il vecchio uomo tremante che Zarathustra fatica a far rialzare,14 rovescio le labbra, arriccio le narici, spalanco le fauci quasi a voler espellere con forza l’acre sensazione di profondo disgusto. La brutale e inaspettata induzione emotiva scatenata da questo vergognoso benvenuto ha colto le mie difese immunitarie alla sprovvista e sta scatenando una santabarbara neurale.
Insula anteriore, corteccia del cingolo, gangli della base, ippocampo, talamo… Tutte le aree corticali si attivano all’unisono e la mia espressione si altera radicalmente deformandosi come cera fusa e colorandosi di sofferenza, miseria, pena, tormento, angoscia, afflizione, patimento, tribolazione, dolore. Una tinta più fosca dell’altra.
Sono sul punto di trasformarmi in un mostro, di deflagrare, di reagire con violenza alla violenza, ma riesco a riassumere il controllo dei muscoli. Il corrugatore molla le minacciose sopracciglia, l’orbicolare fa contrarre le palpebre, lo zigomatico solleva gli angoli della bocca stampandomi al centro del viso un sorriso etereo e gioviale. Miracolosi artifici della maschera. La pelle si distende come quella di Molly la bella,15 la mimica facciale riacquista una sua apparente neutralità, il sistema cinestesico torna a comunicare mitezza, la rassicurante mitezza di un innocuo bibliotecario.
– Grazie, grazie, grazie.
Ogni parola è accompagnata da una pausa e un inchino ruffiano, ma non vi è traccia di rispetto in quei gesti studiati e manierosi. È solo teatralità a effetto ammannita da un volgare prosseneta. Purtroppo sono l’unico ad accorgersene, come accade spesso, troppo spesso, all’ispettore Van Thian.16
Clap, clap, clap.
Con perfetto tempismo il portaborse dell’assessore, un essere strisciante e altrettanto spregevole, urla un bravo e lancia il più immeritato degli applausi. La sala raccoglie l’invito con passiva acquiescenza; io mi adeguo malvolentieri confondendomi tra i presenti e soffrendo in clandestinità. Il fragoroso battimano, come un’onda risucchiata dalla bonaccia, all’improvviso si cheta. Ma il silenzio è presto destinato a subire nuovi e più atroci maltrattamenti. E non è certo per il microfono che capta i suoni emessi dall’altoparlante e attraverso la cassa gracchiante li risputa fuori sotto forma di lame acustiche stridenti e affilate.
Fiiiiiiiiii. Fiiiiiiiiii. Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii.
Evidenti problemi nella trasduzione fonoelettrica. Dalla cabina di regia, smanettando sull’equalizzatore, riescono a registrare i livelli audio. Codifica di sorgente, decibel, decibel relativo, livello di fondo scala, livello di riferimento, livello EBU, livello SMPTE, schermatura OM.ISSAM A.ICSOR attiva, filtro HF/LF, quantizzazione, compressione. L’effetto Larsen svanisce ma fanno la loro comparsa altre brutalità, ben più feroci.
– Il titolo che abbiamo scelto per questo interessandissimo convegno è «Cogido ergo sun: ovvero la filosofia per vivere meglio».
Cogido? Sun? Ho udito bene?
– C’ho il piacere di annunciare – riprende l’assessore Gross Donkey con raglio acuto e pomposo – che la riunione otierna apre ufficialmende il cartellone degli appuntamendi estivi e intente rimarcare le attenzioni che questa amministrazione, sin dal giorno del suo insediamendo, ha voluto riservare alla cultura.
Otierna.
Ufficialmende.
Appuntamendi.
Intente.
Insediamendo.
Peggio dei fischi del microfono, molto peggio. In cinque mosse salta definitivamente la corrispondenza biunivoca tra grafemi e fonemi. Scacco matto all’alfabeto. Non è dislessia, non è dislalia, non sono disturbi specifici dell’apprendimento. È qualcosa di ben più grave.
– In questi mesi abbiamo discusso, ci siamo confrondati, ci abbiamo ragionato a lungo sull’importanza fontamentale della cultura come fattore di sviluppo e ci siamo decisi di investire seriamende su quella che, seconto noi, è la regina delle discipline: la filosofia. Filosofia che non deve essere ’ntesa come una materia, di quelle che si insegnano a scuola come storia, scienze, geografia e far di conto, ma – il grezzo oratore arringa la sala con crescente veemenza – come una vera e propria attitutine che ci deve accompagnare quotidianamende.
Confrondati.
Fontamentale.
Seriamende.
Seconto.
Attitutine.
Quotidianamende.
Animalesca e inespressiva gutturalità. Ormai siamo al tiro a bersaglio. Povere consonanti indifese.
– La filosofia è, signori cari, la scienza che ha per oggetto le incontrovertibile verità, un momendo di riflessione, una presa di posizione, uno stilo di vita e allo stesso tempo – aggiunge dando una sbirciata agli appunti – una delle più grande capacità di rinnovamendo.
Momendo.
Rinnovamendo.
D. Quelle occlusive alveolari sonore martellano le tempie. Il corpo ricomincia a contorcersi concorrendo in maniera eloquente a esprimere il mio disgusto. Nausea, ripugnanza, voltastomaco, schifo, rigetto, repulsione, raccapriccio, esecrazione, ribrezzo. Ed è un ribrezzo totale. Lo stesso ribrezzo provato dalla piccola Clara di fronte alle piaghe sanguinolente di San Sebastiano.17
Le incontrovertibile verità.
Le più grande capacità.
Saltano tutti gli impianti desinenziali. Cadono una a una tutte quelle belle rifiniture vocaliche che, come stucchi dorati o decorazioni pittoriche, ornano la struttura morfologica donando a essa precisione e chiarezza.
Il dolore lancinante si trasferisce dalla testa all’addome, dall’addome a un fianco e diventa intenso, sordo, incessante, come quello avvertito dal giudice Ivan Il’ič Golovin quando cade rovinosamente dallo sgabello.18
– La filosofia è tutto.
Altro applauso indotto. L’assessore si pavoneggia dispensando sorrisi artificiali a destra e a manca, poi, stringendo nel pugno il microfono, torna alla cattiva lettura del suo pessimo discorso.
– Cogido ergo sun.
Avevo udito bene. Purtroppo.
– Cogido… ergo… sun… – ripete scandendo con esasperante lentezza, rivoltando sadicamente il rasoio affilato nelle viscere dilaniate di un Cartesio ormai agonizzante – è il celebre proverbio, sempre attuale, che ci hanno insegnato gli antichi greci.
Cogido ergo sun.
Proverbio.
Antichi greci.
Premito, spasmi. Gestisco con difficoltà le contrazioni antiperistaltiche della parete gastrica. Respiro lentamente, cerco di controllarmi per evitare di vomitare, addosso al mio incolpevole vicino, pancreas fosforescente misto a rabbia color pece, come quella spruzzata dal ribelle Sukuma sulla divisa nuova del colonnello Pyncheon.19
– Ma la filosofia, condrariamente a quando si crede, non è nata nell’antica Grecia.
Condrariamente a quando si crede.
Virus D. Non è più un omicidio plurimo. È una strage.
– La filosofia è… con-naturata all’uomo.
Con naturata.
Il miserabile pronuncia quel termine dal significato a lui oscuro come se fossero due parole distinte e separate. Quella pausa è un cazzotto a uno stomaco già in subbuglio. Mi liscio con il palmo il cranio pelato, completamente pelato come quello di Malachi Constant Junior, il petroliere cantante, l’inventore del viridio, l’imprenditore più ricco del mondo.20 Patisco in silenzio.
– Da sempre. Il primo uomo che si è chiesto «chi sono?», «come sono?», «perché sono?», «da dove vengo?» e «dove vato?» era un filosofo.
Atroce martirio.
– Io sono un filosofo.
Sacrilegio. Mai ossimoro fu più evidente.
– Tutti noi, in fonto, siamo filosofi.
In fonto.
L’assistente detta ancora una volta i tempi del consenso. E giù applausi.
Ripenso alla terra tra i due fiumi, l’antica Mesopotamia, agli imponenti ziqqurat, all’albero della vita, al dio sole, al sacro ossigeno di Riga, al re di Babilonia, all’uso di applaudire impetuosamente per coprire le grida strazianti delle vittime votive. Ombre di sparvieri, sibili di serpente, brandelli di carne necrotizzata, fiumi di liquido pancreatico che colano lungo le scanalature calcaree dell’altare. Cattivi presagi. Oggi si sta perpetrando un altro rito sacrificale. La logica e la grammatica vengono immolate a Lilu, Lilitu, Lorem Ipsum e Ardat Lili.21
Altre urla di dolore soffocate dagli applausi.
Clap, clap, clap.
– E da buoni filosofi, non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità, ma dobbiamo contribuire, con zelo e detizione, alla costruzione del futuro, di un futuro migliore, di un futuro che verrà.
Un futuro che verrà.
Illuminante.
– Guai a guardare al passato stucchevole – stucchevole? – e definitivamende perduto. Guai a subire passivamende la giostra degli evendi. Guai a fermarci davandi alle fuggevole apparenze. Guai a cedere alle subdole tentazione. Guai a rassegnarci al fato.
Fuggevole apparenze.
Subdole tentazione.
Malformazioni congenite di plurali. La patologia, a questo punto, è sistemica.
– Apriamo le nostre mente come il fiore apre la sua corona al sole del mattino. Mettiamoci in discussione. Creiamo le condizioni favorevole per vivere meglio. Vinciamo le nostre paure. Evadiamo dai carceri della materia bruta.
Dai carceri.
Carcere è di genere maschile solo al singolare. Al plurale è tas-sa-ti-va-men-te femminile. Vorrei urlarlo alla sala intera, sputarlo in faccia a quel cialtrone di Gross Donkey. Se solo lo avessero rinchiuso nelle carceri federali qualche anno fa…
– Esploriamo il monto della conoscenza alla scoperta dei suoi segreti, cibiamoci di cultura, di saperi, di spirito, di spiriti, di spiritismo e di spiritualità.
A questo suo nutrimento preferisco la cachessia del povero Gregor Samsa.22
– Lasciamoci illuminare dalla ragione, interroghiamoci, confrondiamo le nostre idee, agiamo con chiarezza, con fermezza, con seriezza, ma anche con allegria e con amore.
È una rissa. I suoni e i surrogati di parole prendono a calci i nessi logici e le regole grammaticali. Solidale, soffro per loro e mi torco come il Becero Muto.23
Stomaco, grande curvatura, fondo, parete, piccola curvatura, orifizio del cardias, sfintere pilorico, antro pilorico, canale pilorico, incisura angolare, canaletti, rugae, epitelio, mucosa. Sento il ribollire crescente dei succhi gastrici.
– Agiamo dunque, senza esitare, ispirantoci ai princìpi più sani, rispontento ai bisogni di chi è in difficoltà, diventanto finalmende consapevoli dell’enorme tesoro che custotiamo dentro di noi, aiutantoci l’un l’altro in maniera disinderessata.
Verbosa et dissoluta prolixitas, inflata turgiditas, incongruitas, asperrimum sonum, ambiguitas, enfrecatio, multiloquium, obscuratio, garrulitas e vaniloquium.24 Non manca proprio nulla.
– Agiamo cercanto le risposte alle domante, alle tante domante senza risposte, e riappopriantoci del ruolo di protagonisti assoluti del nostro destino. Costruiamo insieme questo grante palazzo chiamato futuro e facciamolo usanto il cemendo e i mattoni della cultura.
È inconcepibile. Come può parlare di cultura uno che non riesce nemmeno a governare i comandi più elementari di una lingua che veicola, o dovrebbe veicolare, la cultura stessa. Ma la questione non sembra esser cara a nessuno. Il discorso – un garbuglio di errori aberranti, locuzioni insensate, difetti di pronuncia, pattume semantico, espressioni fruste, luoghi comuni e altre ovvietà – viene salutato con un’ovazione da una platea che, quanto a intelletto e capacità critica, non si differenzia poi tanto dalla giallognola carta da parati che avvolge la sfortunatissima sala.
Belo qualche incomprensibile monosillabo apotropaico. Mi allineo alla massa ovina, limitando questa volta il contatto delle mani alle sole punte delle dita, quasi per paura di essere contaminato dall’ignoranza dilagante. I polpastrelli si sfiorano timidamente e producono un non-suono che vuole essere la mia civile e silenziosa manifestazione di dissenso.
– Perché la cultura, come soleva ripetere sempre la mia cara nonna Atelina, atorna di molti e belli ornamendi la nostra anima.
La cara nonna Atelina?
– Temperanza, giustizia, pietà, mansuetutine, motestia, prutenza, costanza, amore del bello, desiterio dell’onesto. Questi, miei cari, questi e solo questi sono i veri e incorruttibili ornamendi dell’anima.
Ma quale nonna Adelina!
Quello che sta leggendo, massacrandolo impietosamente neanche lui fosse la peggiore reincarnazione del feroce Alexander Ivanovich Konovalov, l’autore del sanguinario pogrom di Chişinău,25 è un brano tratto dal “Sogno” di Luciano di Samosata,26 nelle traduzioni del Milone e del Settembrini, illustrissimi filologi classici.
La signora alla mia sinistra, foulard di seta tailandese di un fucsia accecante, rossetto in tinta, orecchini a lampadario e lifting fuori controllo, annuisce ammirata da cotanta sofistica sapienza. Sorride catturata da questo vomitevole verbalismo, barocco, illogico e sgrammaticato, volto soltanto a destare la meraviglia di un miserrimo uditorio che trae godimento dai soli valori acustici delle parole senza coglierne quelli semantici. La vecchia baldracca mi ammicca ripetendo ossessivamente «questi sono i veri e incorruttibili ornamenti dell’anima» mentre ispessisce ancor più quelle sue labbra a salsicciotto botulinizzato. Non paga, si permette anche di strizzarmi l’occhio, lasciandomi intendere qualcosa di spaventoso, qualcosa che non voglio neanche immaginare.
Tremo dalla rabbia. Vorrei piantarle uno stiletto nel petto, affondarle la lama nella gabbia toracica, reciderle l’aorta all’altezza del ventricolo.
Sangue venoso, atrio destro, valvola tricuspide, arteria polmonare, sangue arterializzato, atrio sinistro, valvola mitrale, aorta ascendente, commixtio sanguinis.
Sangue. Sì, sangue. Vorrei vederla soffrire, affogare nel suo sangue come il sole di Baudelaire27 e spirare. Mi accontenterei persino di urinarle su quella orrenda faccia liftata. Niente di tutto ciò. Il suo cuore continua a battere. Mi limito a consumare la vendetta nel mio mondo immaginario, il mondo dei pavidi, dei remissivi, dei codardi. Io non so osare. Sono vigliacco. «Vigliacco, vigliacco, vigliacco».28 E, come tale, non contraccambio quel suo cenno volgare con una liberatoria coltellata, ma – solito pusillanime sempre pronto a cedere, a nascondersi e a indietreggiare – con un banale sorriso di circostanza.
– Un’anima più bella, un’anima più ricca, un’anima più filosofica – l’assessore inspira con la bocca aperta, in profondità, per poi espellere con forza l’ultima virulenta insulsaggine –, un’anima del futuro.
Applausi. La sala è con lui. Non potrebbe essere altrimenti. La metà dei presenti, sottoscritto compreso, sono dipendenti dell’assessorato cooptati all’ultimo minuto dietro minaccia di provvedimento disciplinare; l’altra metà sono piccoli funzionari di partito, parenti, amanti, galoppini, palafrenieri, nani, ballerine, figuranti. Figuranti, appunto. La prima fila è interamente occupata da quelle che lo stesso Gross Donkey chiama sacome da convegno, una qualificata rappresentanza geriatrica che fa numero, applaude a comando, ma è assolutamente incapace di intendere e di volere: un paio di professori universitari mummificati, tre medici ultranovantenni, una cantante lirica in evidente stato di decomposizione e un generale dell’esercito in pensione affetto dal morbo di Benoit.29
Applausi. Le sagome battono le mani senza neanche sapere dove siano e cosa stiano facendo. Battono le mani senza comprendere il senso dell’insensato discorso ma giudicandolo eccelso. «Omne ignotum pro magnifico».30 Il pubblico perfetto per un attore, l’elettorato ideale per un governante.
– Il futuro è la vera sfita. Per questo si ci deve attrezzarsi in tempo; si ci deve organizzarsi nel migliore dei moti; si ci deve impegnarsi per garandire ai nostri figli gli strumendi più itonei.
Si ci deve attrezzarsi.
Si ci deve organizzarsi.
Si ci deve impegnarsi.
È incredibile. Lo sanno anche gli alunni di terza elementare. Quando nella forma del si impersonale, orfana di soggetto grammaticale, si usa un verbo che ha già un pronome riflessivo, per evitare di ripetere il si, si fa ricorso al ci. E l’ordine è sempre lo stesso: ci si, ci si, ci si… e non quell’inascoltabile si ci. E quando, come in questo caso, si ha a che fare con un modale, dalla bocca non possono che venir fuori un ci, un si, un deve e l’infinito del verbo, senza quell’intollerabile pronome riflessivo.
Sono davvero combattuto, come Arminio, il principe cherusco, nella foresta di Teutoburgo.31 Non vedo l’ora che il supplizio volga al termine ma, allo stesso tempo, sono terrorizzato da cosa potrebbe mai riservarmi il gran finale.
– Questi strumendi non possono che essere la cultura e la filosofia. E, come in un circolo virtuale – virtuoso –, senza cultura e senza filosofia non c’è futuro ma, allo stesso tempo, la cultura e la filosofia sono la vita e la vita altro non è che la somma geometrica di passato, presende e futuro.
Delirante sillogismo.
– Davanti a questa sala così grémita – gremìta – e con una saltissima convinzione, sono lieto, pertando, di annunciare che nei prossimi tre mesi la nostra città sarà scuotuta – scossa, accidenti a te, scossa – da un terremoto culturale.
Possa un terremoto, un terremoto vero, seppellirlo, come accadde a Edwin Drood e a suo zio Jasper, il malvagio direttore del coro della cattedrale di Cloisterham.32
– Dobbiamo partire dalle nostre radice per poterci misurare sul terreno dell’attualità. Dobbiamo ripensare le strategie globale, recuperare le vere dimensione sociale e puntare l’intera posta sugli strumendi e sulle strutture che cretiamo sarebbero le più efficace.
Mi arrendo, mi ritiro, ripiego, indietreggio, abbandono, lascio, mollo, capitolo, cedo, rinuncio.
– E per fare ciò, miei cari concittatini, non ci possiamo prescintere da una doverosa promessa. Pultroppo, e ce lo sapete bene, anche sulle nostre amene colline soffiano fortissimi i venti della crisi. I tempi sono grami, gramissimi. Sulle nostre teste pente la spata di Temistocle, la spata della rescissione economica. I tagli nei trasferimenti statali e federali si ripercuoteno sugli enti locali e, in particolare, sulle risorse culturale. E di fronde a tutto questo tagliare, tagliare, tagliare, il ruolo della cultura rischia di divendare del tutto resituale.
Il ruolo della cultura è già diventato residuale. Ne è dimostrazione questo malsano e delirante discorso, infarcito di errori e orrori che non si limitano a mettere a nudo la povertà della lingua, ma sublimano la mediocrità, sanciscono ufficialmente l’abdicazione della cultura, profetizzano la rovina definitiva dell’uomo e del suo sapere. Sono le tue parole, caro assessore, a renderci tutti più poveri, più deboli, più tristi, più disgustati, più estranei, più vinti.
– Per onestà del vero, e lo giuro sulla testa dei miei nipoti che gli voglio bene come figli, questa situazione non ci può fornire un alibi alla nostra inerzia prepositiva, ma però ci deve funcere da stimolo per far sì che noi faremmo sempre bene, faremmo sempre meglio.
Non è un problema di grammatica, ma una questione di fondo, una questione di vita o di morte. E noi ci stiamo mestamente incamminando verso la morte, una morte ignominiosa.
– È per questo, eccoci finalmende all’annuncio più importande, che l’amministrazione che mi onoro di far parte ha deciso di investire tutte, e dico tutte, le risorse disponibile nel cartellone degli evendi estivi. Altro di più non aggiungo. Il programma dettagliato delle manifestazione sarà presendato la prossima settimana in una conferenza stampa convocata a doc.
A doc.
14 Da “Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen” (“Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno”) di Friedrich Wilhelm Nietzsche. Testo a stampa [RF\ICCU\NTZ\8932154]. Mi viene automatico utilizzare, un po’ per abitudine e un po’ per deformazione professionale, il sistema di catalogazione dell’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche della Repubblica Federale.
15 Da “Voyage au bout de la nuit” (“Viaggio al termine della notte”) di Louis-Ferdinand Auguste Destouches, detto Céline. Testo a stampa [RF\ICCU\CLN\2001414].
16 Da “La petite marchande de prose” (“La prosivendola”) di Daniel Pennacchioni, alias Daniel Pennac. Testo a stampa [RF\ICCU\PNC\0539051].
17 Da “La casa de los espíritus” (“La casa degli spiriti) di Isabel Allende. Testo a stampa [RF\ICCU\LLD\1668754].
18 Da “Смерть Ивана Ильича” (“La morte di Ivan Il’ič”) di Lev Nikolaevič Tolstòj. Testo a stampa [RF\ICCU\TLS\3555551].
19 Da “La terra dei Masai” di Maria Grazia D’Agata e Stefano Carboni. Testo a stampa [RF\ICCU\DGT\6588884].
20 Da “The Sirens of Titan” (“Le sirene di Titano”) di Kurt Vonnegut. Testo a stampa [RF\ICCU\VNN\2540900].
21 Secondo la mitologia mesopotamica Lilu, Lilitu, Lorem Ipsum e Ardat Lili costituiscono la terrificante quaterna dei demoni notturni portatori di disgrazia e di morte. Da “Religioni e civiltà. La mitologia nella vita dei popoli” di Gianni Cocuzzoli e Concetta Mancini, un volume a me molto caro; il primo che ho catalogato. Testo a stampa [RF\ICCU\CCZ\0000001].
22 Da “Die Verwandlung” (“La metamorfosi”) di Franz Kafka. Testo a stampa [RF\ICCU\KFK\7980902].
23 Da “Il secondo diario minimo” di Umberto Eco. Testo a stampa [RF\ICCU\ECO\5656089].
24 Secondo Francesco da Buti (Buti, 5 maggio 1324 - Pisa, 25 luglio 1406), maestro di scuola, latinista e grammaticus, i principali vizi in cui può incorrere il cattivo oratore sono: verbosa et dissoluta prolixitas (la verbosa e sregolata prolissità), inflata turgiditas (la gonfia e ridondante ampollosità), incongruitas (il mancato rispetto dei precetti grammaticali), asperrimum sonum (l’asprezza delle parole all’udito), ambiguitas (l’utilizzo di parole dal significato equivoco), enfrecatio (l’incapacità di pronunciare correttamente le parole), multiloquium (la fastidiosa loquacità), obscuratio (l’uso di espressioni prive di senso), garrulitas (la tendenza a ciarlare) e vaniloquium (il discorso vuoto e inconcludente).
25 Da “Бессарабец” (“Bessarabetz”) di Maksim Gor’kij. Testo a stampa [RF\ICCU\GRK\2450808].
26 Facciamo ordine. E non me ne abbia la cara nonna Adelina. Luciano nasce nella siriana Samosata, antica città sulle rive dell’Eufrate, verso il 120 d.C. Per un singolare scherzo del destino la carriera del rinomato scrittore e retore è segnata da un tragico episodio. Terminati gli studi elementari, Luciano viene inviato dai genitori a fare l’apprendista nella bottega di uno zio materno, Titone, apprezzato scultore. Ma la sua esperienza artistica volge al termine il primo giorno di lavoro quando l’inesperto giovincello, con una maldestra scalpellata, manda in frantumi un intero blocco di marmo. Un frammento acuminato si stacca con violenza dalla roccia metamorfica e va a conficcarsi nell’osso frontale del malcapitato zio. Conclusione: lo zio Titone passa a miglior vita e Luciano, dedicatosi alle più congeniali arti del trivio, consegna alla storia le sue satire immortali. Da “Luciano di Samosata e la trasfigurazione della parola” di Alessandro Cardamone Giletti. Volume attualmente non disponibile presso la Biblioteca Centrale della Repubblica Federale. La copia consultata è di proprietà – e non avrebbe potuto essere altrimenti – di Dionisio.
27 Da “Harmonie Du Soir” (“Armonia Della Sera”) di Charles Pierre Baudelaire. Testo a stampa [RF\ICCU\BDL\5654007].
28 Giammai fui io un cavalier ardito e forte, compagni d’arme onta, viltà e smacco; mai una donzella toller seppi da la morte, vigliacco m’appellaron dunque, vigliacco, vigliacco, vigliacco. Da “La Tancia”, commedia rusticale in versi in ottava rima di Michelangelo Buonarroti il giovane (Firenze, 4 novembre 1568 - ivi, 11 gennaio 1646), scrittore fiorentino e nipote dell’omonimo artista. Purtroppo neanche questo volume è attualmente disponibile presso la Biblioteca Centrale della Repubblica Federale.
29 A quanto ricordo, il morbo di Benoit, variante della malattia di Alzheimer, è un processo di deterioramento cognitivo cronico progressivo, generalmente senile, che prende il nome dal suo scopritore, Emil Benoit (Lione, 4 febbraio 1942 - vivente), psichiatra e neuropatologo francese.
30 La traduzione letterale della locuzione latina attribuita a Tacito è: Tutto ciò che è ignoto è sublime.
31 Da “Die Hermannsschlacht” (“La battaglia di Arminio”) di Bernd Heinrich von Kleist. Testo a stampa [RF\ICCU\KLS\1154337].
32 Da “The Mystery of Edwin Drood” (“Il mistero di Edwin Drood”) di Charles Dickens. Testo a stampa [RF\ICCU\DCK\8884560].