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Furono una pacca sul sedere e una strizzata d’occhio a imprimere una svolta decisiva alla vita della ventenne Margherita Grande, per tutti Rita.

Accadeva nell’anno di grazia 1951 alla Trattoria del Sole in via Melzo, a Milano, dove Rita lavorava come cameriera ai tavoli già da circa quattro anni, con notevole soddisfazione dei titolari e dei clienti... maschi in particolare. Se i primi apprezzavano la serietà e l’impegno che la ragazza metteva nello svolgere il suo compito, i secondi restavano estasiati davanti alla sua bellezza fuori del comune: infatti, a un viso dai lineamenti fini, illuminato da due intensi occhi castani e incorniciato da lunghi capelli dello stesso colore, faceva pendant un corpo alto e slanciato dalle forme provocanti, che nemmeno il più modesto dei vestiti, come un grembiule da cameriera, riusciva a mortificare. Una voce dal timbro profondo dava il tocco finale al fascino della giovane. Che era anche dotata di una vivace intelligenza, di una spontanea carica di simpatia e di un carattere deciso e volitivo.

La vita, così generosa in quanto a doni di natura, non le aveva però riservato solo rose e fiori: nata in una famiglia di modesti lavoratori, a soli tredici anni aveva perso il padre Amintore, travolto da uno sconosciuto mentre si recava al lavoro in bicicletta. In piena guerra, tra disgrazie familiari e bombardamenti, Rita riuscì per miracolo a terminare le scuole Commerciali, dove, da brava e coscienziosa studentessa, si diplomò con il massimo dei voti. La madre Emilia, guardarobiera in case private, in quegli anni era quasi disoccupata e, senza il sostegno di un marito, faticava a tirare avanti, perciò l’aveva spedita con i fratellini Francesco e Renato, gemelli, dalla nonna Angiolina a Trezzano sul Naviglio, lontano dalle macerie della città. In campagna, grazie anche alla scarsa ma preziosa produzione di un piccolo orto, qualcosa da mettere nel piatto ancora si rimediava.

Un anno dopo, finita la guerra, Rita e i ragazzini erano tornati a Milano, nell’appartamento di due locali in una casa di ringhiera di via Spallanzani dove i Grande abitavano da sempre.

Visto il perdurare delle ristrettezze economiche, Emilia era stata costretta, dopo le Commerciali, a far interrompere gli studi alla figlia maggiore, affinché anche lei, lavorando, potesse contribuire al magro bilancio familiare. Riuscì a trovarle un posto come cameriera alla vicina Trattoria del Sole, i cui proprietari, la signora Rosetta e il signor Attilio, che conoscevano Rita fin da bambina, assunsero volentieri una ragazza così graziosa e educata.

Ma la sfortuna non aveva finito di accanirsi sulla povera giovane, quasi a farle pagare la colpa di essere tanto bella. Infatti, due anni dopo, una malattia incurabile si era portata via anche la madre.

Così Rita, a nemmeno diciott’anni, si trovò a dover badare a se stessa e ai fratellini, con il solo aiuto dell’anziana nonna materna settantenne, che aveva lasciato il paese per andare a vivere con i nipoti e fare in qualche modo le veci della madre defunta. Ma la signora Angiolina era povera in canna, perché la guerra aveva bruciato i suoi pochi risparmi, perciò il salario di Rita, integrato dalle mance, era l’unica entrata della famiglia, e doveva bastare per pagare affitto, vitto e il minimo indispensabile di vestiario. Rita non si perse d’animo, si rimboccò le maniche lavorando ancora più sodo, senza lasciarsi andare a inutili piagnistei, con il risultato di ottenere un piccolo quanto provvidenziale aumento di stipendio.

Alla Trattoria del Sole, in una tiepida giornata di maggio, poco prima delle otto di sera, mentre si aggirava fra i tavoli reggendo in precario equilibrio piatti e bicchieri, Rita ricevette una leggera pacca sul suo splendido sedere. La giovane era abituata a essere oggetto delle attenzioni degli avventori di sesso maschile, ma sapeva come gestirle e prevenire le manifestazioni più pesanti, dosando fermezza e ironia. Con il suo atteggiamento gentile ma deciso, si era guadagnata il rispetto della clientela, e anche i più assatanati non osavano andare oltre qualche complimento, anche se a volte al limite della decenza, e comunque nessuno si era mai azzardato ad allungare le mani sul suo invitante posteriore.

Ricevuta l’inattesa palpatina, Rita si voltò inviperita, pronta a una vibrata protesta, e grande fu il suo stupore nel constatare che l’autore del gesto non era un libidinoso maschiaccio, ma la signora bionda sulla cinquantina, molto elegante e con una splendida collana di coralli al collo, seduta sola soletta a un tavolo al centro del locale. Interdetta, la ragazza non sapeva se e come reagire, ma ci pensò la cliente stessa a toglierla dall’imbarazzo: dopo aver risposto all’occhiataccia della giovane con un sorriso e una strizzata d’occhio, chiese il conto, pagò e si accinse a uscire dal locale; ma prima, assieme a una generosa mancia, ficcò un bigliettino nelle mani della sempre più stupita cameriera, che lo mise nella tasca del grembiule ripromettendosi di leggerlo più tardi.

Terminato il lavoro, sparecchiati i tavoli e rimessa in ordine la sala, Rita prese in mano il foglietto, lo dispiegò ben bene e lesse.

Cara ragazza,

non preoccuparti, non sono una cui piacciono le donne, la mia vecchia amica Rosetta te lo può confermare: il tocco che ti ha fatto infuriare era solo un modo per attirare amichevolmente la tua attenzione. Ti ho studiato bene: sei brava e svelta, oltre che molto bella, e dalla tua reazione ho capito che il carattere non ti manca. È un peccato che una ragazza con le tue doti sia ridotta a fare la cameriera in una trattoria: qui sei sprecata, te lo dice una che se ne intende. Io potrei offrirti un lavoro migliore e molto ben pagato. Se ti interessa, ne possiamo parlare. Telefonami, e scusami se ti do del tu, ma alla mia età potrei essere tua madre!

Seguivano numero di telefono e firma: Giulia Vergani.

Dopo aver cenato in trattoria, Rita tornò a casa e rimase a lungo a meditare sullo strano comportamento della signora bionda. Sorvolando sul modo in cui l’aveva... contattata, nel biglietto la Vergani accennava a una possibile, nuova e più redditizia occupazione. Un’ipotesi non da scartare a priori, considerando che la paga alla Trattoria del Sole non era altissima, a malapena sufficiente a sostenere, grazie ai salti mortali della nonna, le spese della famiglia per sopravvivere: con le mance, circa 16.000 lire al mese1.

Rita aveva già ricevuto un paio di proposte di lavoro, ma aveva rifiutato, perché non comportavano sensibili miglioramenti economici: prima di lasciare la signora Rosetta e il signor Attilio, per i quali, oltre che gratitudine, provava molto affetto, ci voleva pensare bene, e il gioco doveva valere la candela.

Rigirandosi fra le mani il biglietto della Vergani, si domandava che posto di lavoro poteva mai proporle una persona con cui non aveva scambiato nemmeno una parola. “Non certo quello di cameriera in una trattoria o in un ristorante, sarebbe uno sgarbo alla sua amica Rosetta. Forse commessa in un negozio... l’aria della padrona di profumeria ce l’ha. Comunque, per saperlo ci vuole poco, basta telefonarle e farselo dire. Ma aspetterò un po’, mica deve credere che muoio dalla voglia di sentire la sua voce. La chiamerò domani o dopodomani, ma la chiamerò.”

Presa la decisione, si rilassò dando un’occhiata ai compiti dei fratelli, anche se in realtà non ce n’era bisogno, perché erano fra i primi della classe. Frequentavano le medie alla scuola di via Tadino, una buona base che apriva la strada a qualunque tipo di corso alle superiori. Era stata Rita a fare questa scelta, sperando di poter poi dare ai ragazzini quelle opportunità che le avverse vicende della vita a lei avevano invece negato, fermando il suo cammino scolastico agli inizi e lasciandola in uno stato di discreta ignoranza.

Per rimediare alle sue lacune culturali, pur essendo molto impegnata in trattoria, a costo di sacrificare qualche ora di riposo Rita si ritagliava il tempo per leggere qualche libro, chiesto in prestito alla biblioteca comunale o acquistato su una bancarella dell’usato. Conscia della sua scarsa preparazione, si era rivolta per un aiuto alla professoressa di lettere di uno dei gemelli.

Seguendo i suoi consigli, aveva iniziato con i classici per l’infanzia e l’adolescenza, tipo Pinocchio, Cuore e i romanzi di Salgari, passando poi a testi più “adulti” come I tre moschettieri e Il conte di Montecristo.

Da alcuni giorni stava letteralmente divorando un volume di storia romanzata, pescato sulla bancarella di piazza Oberdan: Madame Sans-Gêne, l’avvincente storia di un’esuberante lavandaia parigina vissuta a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, moglie di un sergente dell’esercito rivoluzionario, promosso in seguito maresciallo di Francia e duca di Danzica. In parallelo, nel libro si raccontava l’irresistibile carriera e ascesa al potere di un figlio della borghesia di Ajaccio, Napoleone Bonaparte, che, nel giro di pochi anni, da semplice ufficiale d’artiglieria era diventato imperatore dei francesi.

E proprio alla lavandaia nonché duchessa, e a Napoleone Bonaparte, Rita dedicò quasi un’ora prima di cedere al sonno, nel lettone che condivideva con la nonna, mentre Francesco e Renato dormivano sul divano letto della stanza che fungeva da cucina e soggiorno, la più confortevole soprattutto d’inverno, grazie al calore emanato dalla stufa economica. Spenta la luce, mentre le palpebre le si chiudevano per la stanchezza, l’ultima confusa visione che ebbe fu quella della misteriosa signora Vergani, che, seduta al tavolo della trattoria, le sorrideva strizzando l’occhio e invitandola, con un gesto della mano, ad avvicinarsi.

1 Una cifra in lire del 1951 va rivalutata ai giorni nostri moltiplicandola per il coefficiente 33,50, e volendo poi tradurre la stessa in euro, va divisa per 1936,27. In questo caso, le 16.000 lire equivalgono a circa 530.000 lire, pari a poco meno di 274 euro. Il valore andrebbe leggermente aumentato, in considerazione del maggior potere di acquisto che il danaro aveva all’epoca.